L’abbiamo puntato tutti il nostro nasino all’insù a guardare la luna. A cercare la luce opaca che rischiarava la selva e a ricordare insieme a Leopardi, le passate cose. Gli amori, i sospiri, le emozioni si buttavano da quelle parti. Sulla luna. Perché nessuno le avrebbe raccolte. La luna era la cassaforte dei nostri desideri. Il 20 luglio 1969 avevo ancora nove anni e la luna rappresentava per me una palla bianca in mezzo al cielo dove, per amiche, vi erano le stelle. I miei interessi, a quei tempi erano minimali: pallone, amici, figurine panini, nutella e cartoni animati solo la domenica, quando c’era Braccobaldo Show. I miei punti fermi erano Gigi Riva, Mazzola, Rin tin tin e il teleromanzo “ e le stelle stanno a guardare” che non capivo molto ma che aveva una bella storia, piena di tensione. La domenica, poi, si andava al cinema S. Francesco a vedere per tre volte di fila i film western (Dio perdona, io no era uno dei cult). Fu mia madre che quella sera mi raccolse dalla strada dove giocavo a “pola ci sto” (abitavo in periferia e le strade non erano asfaltate. Per noi bambini una fortuna. Si potevano scavare piccole buche e giocare con le biglie….) e mi disse che l’uomo stava atterrando sulla luna. Credo disse proprio atterrando perché io, per giorni, mi chiesi se anche noi, da grandi, potessimo arrivare e atterrare sulla luna. Guardai quella trasmissione insieme a mio nonno che, da buon sardo diffidente, non credette mai che quell’avvenimento fosse reale (mio nonno non credeva in ciò che vedeva in televisione e amava solo le canzoni di Mina e stravedeva per Mike Bongiorno) mentre io, rapito dalla strada e dagli amici, diedi un peso molto leggero a quel vociare in televisione, a quel Tito Stagno che si agitava. Però mi sedetti. Aspettai che Neil Armstrong toccasse piede e vidi le righe striate che le scarpe lasciavano sulla polvere della luna. Uscii in cortile e cercai sul cielo ormai nero la luna. Mi sembrò di vedere il lem atterrato e chiamai mia madre per comunicarle che Armstrong lo si poteva vedere ad occhio nudo e a scuola, quando ci ritornammo, ad Ottobre, scrissi un tema sull’argomento affermando, tra l’altro , che io Armstrong che passeggiava sulla luna l’avevo visto davvero. Ero un visionario fin da tenera età. Questo lo penso oggi però, oggi che Neil Armstrong ci ha lasciato per andare oltre la luna. Quell’ammaraggio è stata la fine delle favole, la realizzazione di un sogno di una generazione, la forza della volontà dell’uomo che ha fatto del viaggio il suo punto di partenza e non quello di arrivo. Perché un viaggio, come diceva Saramago, non è mai definitivo. Quando guarderemo la luna, stasera, non potremmo non ricordare quell’estate magica del 1969 e nel buio più assoluto, proverò a vedere se ancora Neil Armstrong passeggia sopra l’oceano della tranquillità saltellando leggermente. Secondo me si.
Ciao Neil Armstrong, piccona icona che mi accompagnato nell'infanzia. E che mi ha regalato un modo nuovo per raccontare storie.
Qualcuno, tra i ricordi degli anni 70, ha annoverato anche i tempi in cui gli studenti manifestavano insieme agli operai nelle piazze ed è scattata, subito, la lacrimuccia della nostalgia, delle foto in bianco e nero, di cartelli scritti con il pennarello, di quella comunicazione poetica, di quella smoderata voglia di stare insieme, di essere “classe”. Perché di questo si è trattato, di provare a condividere tutti le stesse cose. Operai e studenti. Si camminava fieri, tute oleose con il forte sapore del lavoro vicino a jeans ed eskimo, barbe costruite alla rinfusa, occhiali, sciarpe. Si camminava tra le vie con un ritmo incessante e lento, sembrava quasi che questa classe (operaia e studentesca) potesse dettare l’agenda del futuro. Non è andata così e non voglio soffermarmi su un’analisi che non mi compete e sarebbe anche molto dolorosa. Ne prendo atto. Le classi si sono frantumate e lentamente sono apparse le corporazioni, ognuno ha cominciato a conservare le cose nel proprio cassetto e ognuno ha dipinto il proprio pezzo di strada come credeva. Con profondo egoismo. Poi, di colpo, un po’ come le lucciole pasoliniane, sono scomparsi gli operai. Non se ne parlava più. Non facevano notizia presi come eravamo a costruire un mirabile futuro fatto di velocità, di internet, di nuovi traguardi, di ingegneri, di telefonini cose che, una volta costruivano gli operai e che oggi, invece erano stati delocalizzati, locuzione terribile per spiegare che le fabbriche in Italia cominciavano a chiudere perché tanto, noi, non avremmo avuto più bisogno degli operai nella new-economy. La crisi (nascosta per anni) ha ridipinto gli orizzonti e, guarda caso, son comparsi gli operai. La Fiat, l’Ilva e l’Alcoa per fare gli esempi più conosciuti. Son ricomparsi i caschetti di protezione, le tute, le urla e le rughe forti e bellissime: da operai. Ma non c’era più il sudore. Perché il lavoro, quello, era stato barattato su tavoli dove molti dei signori che oggi si ergono a salvatori della patria, erano presenti ad accettare la delocalizzazione, la sfida con l’oriente, la globalizzazione. Si stavano vendendo il nostro futuro e lo chiamavano progresso. Gli studenti, invece, dopo vari tentativi negli anni ottanta, sono finiti in un cantuccio solitario. Le Università costruivano acquari senza parole, professori gonfi solo della loro prepotenza e la cultura svenduta o irrisa. Si abbandonavano la filosofia e la storia e la letteratura perché il futuro era l’economia, la cibernetica. Ci siamo trovati davanti al nostro ground-zero dove gli operai sono costretti a buttarsi in mare per fare notizia e dove gli studenti vendono la propria dignità in un precariato perenne. Tutto parte da quella foto in bianco e nero: il lungo corteo dove gli studenti sfilavano con gli operai. Perché sono state scelte strade diverse? Perchè non siamo riusciti a fare di quel corteo un crogiuolo di opportunità?
Ringrazio l’amico Emiliano che ha partecipato al dibattito su Feisbuk partendo da alcune mie considerazioni alle quali devo e voglio rispondere. Non posso (non è nelle mie corde) raggiungere la liricità ironica del buon Emiliano (ho sempre pensato che sia un grandissimo affabulatore che merita altri lidi) ma proverò ad argomentare così come si faceva una volta nei quotidiani un bè seri dove ad un editoriale si rispondeva con altro editoriale e si controbatteva e ci si appassionava. Ecco, il punto è proprio questo e con la mia nota precedente (per chi se l’è persa la trova sulla pagina delle mie note o all'interno di questo blog) volevo ribadire un concetto che non è da poco, a pensarci bene. Anzi, è fondamentale per la democrazia (oddio, che parolona). Parlo della cultura del dissenso oggi poco utilizzata. Ci siamo costruiti un mondo di plastica dove non essere d’accordo con l’avversario è politicamente scorretto, dove dire quello che si pensa è sconveniente (nel senso letterale del termine: non conviene) e dove si deve applaudire sempre e comunque: allo stadio, anche se lo spettacolo è indecente o il risultato è frutto di scommesse clandestine; ai concerti, anche se il cantante non risponde a quando promesso; all’interno delle tribune più o meno politiche, giusto per denigrare gli altri; si applaude anche ai funerali ce questo lo ritengo davvero fuori luogo.
Oggi, nell’era berlusconiana (chea torto o ragione non si è ancora conclusa) non può esistere la cultura del dissenso. Se andiamo contro Monti non abbiamo a cuore l’Italia, al massimo ci accontentiamo dello sberleffo e FB è pieno di vignette più o meno critiche e ridanciane su Monti e i suoi ministri (davvero cafona quella sul gioco del cognome di Passera, ma questi sono i tempi). Insomma non si può dissentire e il mondo di FB risponde a questa caratteristica: puoi usare il “mi piace” ma non il suo contrario. Qualcuno, intervenendo al dibattito ha comunque affermato che se uno non è d’accordo può “argomentare”. Vero. E anche qui rispecchiamo il luogo comune della “maggioranza silenziosa” contrapposta alla “minoranza rumorosa”.
Insomma, il rompiballe che scriva, che parli, che argomenti, che tanto è solo un solitario, uno che dissente per il gusto di dissentire, che non gli va bene mai niente, gli altri, la maggioranza plaudente cliccherà invece su “mi piace” senza buttarla sul sottile, senza dover spaccare il cappello in quattro. Quando ho pensato a tutto questo avevo in mente un intellettuale forte e duro e sono stato felicemente costretto a ripassarne la vita attraverso l’intenso libro di Trevi “qualcosa di scritto”. Parlo, ovviamente di PPP, di Pier Paolo Pasolini. Della sua cultura del dissenso, di quel suo ricercare spasmodicamente le argomentazioni, di quel suo voler discettare, analizzare, verificare, di quella sua bellissima passione, della sua grazia, delle sue analisi lucide, analitiche, mai banali. Nelle quali non sempre mi riconoscevo. Ci sono interventi (riproposti in “scritti corsari”) che non condivido e mai, dico mai, avrei cliccato “Mi piace” qualora PPP li avesse pubblicati su FB, ma sono anche convinto che su certi pezzi che amo e che fanno parte della mia formazione culturale mai avrei cliccato semplicemente “mi piace”. Sarebbe stato riduttivo. FB è una comunità di persone che si affaccia con le proprie voglie, le proprie contraddizioni, le proprie passioni utilizzando uno strumento libero. Chi lo fa ha la libertà di scelta e grazie a questa libertà accetta o non accetta amicizie, mette le foto che crede, manda i messaggi a chi vuole. Tutto molto bello, molto condivisibile. Però troppo accondiscendente. La mia precedente nota voleva evidenziare che in FB non esiste il dissenso per le cose che fanno gli altri. Puoi parlare male degli altri, è vero, e sotto puoi aggiungere “mi piace” (e, ripeto, se qualcuno parla male di un altro posso essere d’accordo, ma non “i like”) ma non puoi dissentire da quello che gli altri scrivono. Puoi solo ribattere. Non puoi dire, semplicemente “non sono d’accordo”. Ecco, democraticamente o ci sono le due semplici possibilità o dovrebbero non esserci entrambi. La maggioranza silenziosa avrebbe qualche problema in più.
Ho riflettuto molto su cosa sia stato (ed è) Facebook per chi lo frequenta più o meno assiduamente. Gli albori (parlo del 2006, anno della mia iscrizione) vivevano la frenesia della novità. Sembrava che il mondo fosse divenuto improvvisamente piccolo e che tutti fossimo “amici”. In poco meno di un anno mi trovai con circa 5000 amici (molti dei quali repentinamente abbandonati) perché rispondevo sempre si alle richieste e perché molte le cercavo anche io. Avevo un sito, un blog, avevo scritto dei libri, intendevo far parte di una comunità e quindi, era normale cercare il consenso. Ecco, quello che non avevo riflettuto negli anni, appare adesso, come una illuminazione. Facebook non ama il dissenso. Esiste la locuzione “mi piace” ma non il suo contrario. Puoi abbandonare gli amici ma loro non lo sapranno mai (soprattutto quelli che amici, in realtà, non lo sono mai stati). Questa strana agorà è piena di gente che può solo essere d’accordo con te. Oppure legge e non clicca “mi piace”. FB è una falsa democrazia, è la rappresentazione di un mondo che non c’è. Attenzione: su FB ci sono gruppi razzisti, xenofobi, pedofili che cercano foto di minorenni (che noi, forse stupidamente, e senza rendercene conto, postiamo) ma il mondo è chiuso. Io posso dialogare solo con i miei amici e nella pagina principale leggo soltanto frasi o guardo filmati o foto di chi è amico mio o, al massimo, amico del mio amico. I razzisti con i razzisti, gli xenofobi con gli xenofobi e così via. Messa così la mia comunità virtuale è sempre d’accordo con me ed io con loro. Ci scambiamo tanti “Mi piace” e sorridiamo dei post che troviamo, di volta in volta, pubblicati sulla pagina principale o sul nostro diario. FB è la vetrina del consenso. I miei amici sono tutti contro i razzisti, sono tutti molto political-correct, sono mediamente lettori di libri e amanti di bei film e di buona musica. Almeno secondo me. Mi è capitato di ricevere, per esempio, un messaggio da un amico che mi avvisava di stare attento ad un certo signor x che era dichiaratamente di “destra”e che amava “Mussolini”. Conviene “cancellarlo”, mi scrisse. Il nostro mondo chiaramente non lo prevedeva. Quello virtuale di FB. Quello reale invece è completamente diverso. Ci sono persone e situazioni che non ci piacciono e ci sono persone cui noi non piacciamo. Il mondo reale è molto più complesso e, a volte, meglio non metterci il naso. FB diventa, così, la nostra coperta di Linus. Arriviamo davanti al computer e scriviamo qualcosa, anche minimalista e subito, come d’incanto, c’è qualcuno dall’altra parte che risponde “mi piace”. Ho letto “Oggi sono molto arrabbiato” e sotto vi ho trovato 20 mi piace. Ho letto “Vorrei capire perché non trovo lavoro” e sotto vi erano 20 “mi piace”. Allora ho cominciato a riflettere. FB è semplicistico e non prevede il dialogo. E’ americano, spiccio, arido, pragmatico. Divide il mondo in ”I like” e il resto non esiste. Non è previsto il “non mi piace”. Un po’ come nei grandi magazzini: tutto brilla e tutto è bello. Non è previsto “il brutto”. E’ vero che possiamo commentare il post e manifestare il nostro dissenso. Ma sono sempre pochi quello che lo fanno. Discutere, argomentare costa. Meglio il semplice “mi piace”. Che seminiamo, a volte, giusto per compiacenza, per dimostrare che esistiamo, che facciamo parte del “gruppo”, che siamo all’interno di quella comunità virtuale che difficilmente si incontra. E’ anche vero però che FB ha fatto incontrare persone che non si conoscevano o che si erano perse di vista. Questa è la situazione decisamente più bella e intensa. Personalmente ho avuto modo di apprezzare moltissime persone che senza FB non avrei mai incontrato, seppure virtualmente. Alcune di loro le ho poi conosciute e, devo dire, che l’incontro è stato anche superiore alle attese. Con loro mantengo un rapporto “stretto” e ci incontriamo spesso nelle pagine dei nostri diari. Poi, però, tutti osservano dalla finestra i nostri gesti e non intervengono se non con sporadici “mi piace” o con gli auguri del compleanno. Tutto questo ha bisogno di una rivisitazione da parte di tutti. Dobbiamo riflettere su alcuni passaggi e dobbiamo capire se FB possa essere il nostro diario sul mondo, gonfio di cose che riguardano noi (foto, parole, video) o, piuttosto, debba diventare un semplice strumento per raccontare e raccontarsi ma anche per dissentire quando ne sentiamo la necessità. Sono figlio di una generazione perduta e, in qualche maniera dimenticata, quella che andava ai “cineforum” a dibattere sul film, a parlare di libertà e di giustizia, quella che volantinava davanti alle scuole, che diceva che questo mondo andava cambiato. Nelle manifestazioni, durante la proiezione dei film, nelle letture in piazza, nessuno diceva “Mi piace” e incontravamo anche quelli che non erano d’accordo con noi. Tutti, con il naso all’insù a osservare l’asticella del nostro futuro, a tentare di saltare senza l’aiuto di nessuno. Avevamo mezzi che erano le parole e le coniavamo in maniera funambolica, a volte ampollosa e pedante. Perché avevamo la necessità di spiegare, di capire e di farci capire. Quando Berlinguer annunciò il compromesso storico non ci furono le schiere dei mi piace e non mi piace. Ci furono furiosi dibattiti nelle radio libere e nelle sedi del PCI. Il lago di parole è divenuto, con l’avvento di Facebook, una semplice pozzanghera. E questo, prendetelo come il pensiero di un vecchio romantico, non mi piace. Non mi piace affatto. Ve lo volevo comunicare. Perché sul “non mi piace” non ci posso cliccare.
Il reading è una carrellata di canzoni degli anni 70, di parole e di racconti dove il protagonista del romanzo "IL PIANO ZERO", Claudio Marceddu, accompagnerà il pubblico in un viaggio nella memoria.Il reading è dedicato a:
A chi cantava nella spiagge
A chi si baciava nelle spiagge
A chi acquistava Lotta continuaA chi leggeva Doppiovu, Linus, Re Nudo, Eureka, Tex Willer e Alan Ford
A chi ha usato almeno un gettore per fare una dedica in una radio "libera"
A chi ha usato almeno un gettone per intervenire in un dibattito di una radio "libera"
A chi ha letto il capitale di Marx (Il titolo) e invece lecceva Jacula, Vartan, Lando, Kriminal e Lancio Story
A chi si ricorda dove si trovava il giorno che uccisero Aldo Moro e il giorno che scoppiò la bomba alla stazione di Bologna
A chi aveva a casa un disco di Baglioni e lo ascoltava in completa solitudine negando di conoscere a memoria "passerotto non andare via...."
A chi copiava le poesie per fare le dichiarazioni alle ragazze
A chi fumava Marlboro e le nascondeva nel pacchetto delle MS per non offrirle (i più perfidi eliminavano il filro e le nascondevano nel pacchetto della Nazionali)
A chi era imbranato
A chi aspettava la rivoluzione
A chi credeva nella rivoluzione
A chi la rivoluzione la faceva fare agli altri
A chi è andato in India ed è ritornato arancione, èandato a Roma ed è diventato Comunista, a Milano Socialista poi socialdemocratico, PDS, DS, MARGHERITA, PD ed è ritornato in India con un magnifico viaggio a sua insaputa
A chi credeva negli idealiA
chi vendeva gli ideali
A chi cantava "bandiera rossa la trionferà" con il pugno chiuso contro il cielo e la lacrima che inumidiva il cuore
A chi voleva partire ed è rimasto
A chi puntualizzava nei dibattiti
A chi pensa che prima c'era l'ideologia
A chi ha rimosso tutto, anche le parole
Agli imbranati, ai pasticcioni, a quelli che non riuscivano a fidanzarsi con le ragazze
A chi aveva paura di di dare un bacio all'improvviso
A chi ha ancora voglia di avvolgere gli abbracci
A tutte le vittime delle stragi, per non dimenticare.
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Potete continuare voi. Aggiungerò le vostre frasi nello spettacolo.
In ogni caso il 24 agosto 2012 lo spettacolo sarà presentato a Stintino (Porto Vecchio) alle ore 19.30
La notizia rasenta l’incredibile ma è davvero interessante, almeno per chi si occupa di scrittura. Solitamente si scrive e si racconta quello che si è già vissuto o quello che si immagina di poter vivere. Oppure ci si inventano situazioni plausibili, luoghi più o meno conosciuti (oggi definite location) dove far muovere i propri personaggi. Scrittori maschi che personificano – e a volte benissimo – personaggi donna e viceversa. Il romanzo è, per definizione, un non luogo o il luogo dove tutto può accadere e dove ognuno decide di pitturare, disegnare, plasmare le storie. Lo scrittore e il lettore difficilmente si incontrano, anche quando chi scrive è minuzioso e descrive febbrilmente gli umori, le passioni, i colori e gli odori. Dall’altra parte (e per fortuna) c’è sempre chi scompone le frasi e le storie e se le disegna a suo piacimento. Scrivendo si costruiscono mondi, leggendo si interpretano quei mondi. C’è stato il periodo in cui molti personaggi “forti” che hanno conosciuto il carcere, hanno scritto le loro esperienze devianti: hanno raccontato le loro rapine, gli omicidi, i furti, aggiungendo luoghi e personaggi che sono divenuti, in alcuni casi mitici. Ci sono stati detenuti che son divenuti ottimi scrittori: penso, per esempio a Jack Abbot o a Edward Bunker (quello di “cane mangia cane” e “educazione di una canaglia”). Pensare però che la storia di un omicidio debba diventare un racconto e, a seguito della sua pubblicazione, qualcuno ci faccia le indagini e scopre che quelle pagine grondano di verità e arrivino ad arrestare lo scrittore è, davvero, da “romanzo”. Plampaschet, il presunto assassino, è l’autore del manoscritto “la rosa e il leone” inspirato ad un suo incontro con una nigeriana che si prostituiva tra Carignano e Torino. Viene raccontata (e pubblicata) una storia d’amore dove il protagonista del romanzo strangola la ragazza nigeriana in corso Regina Margherita ma che, nella realtà, l’omicidio davvero consumato finisce a coltellate e il cadavere viene gettato nel fiume (che ricorda, anche in questo caso l’incipt di un’altra vecchia storia che ha dato l’idea a De Andrè per scrivere la canzone di Marinella). Plampaschet, laureato in filosofia era ossessionato dall’Africa e dalle prostitute nigeriane (pare ne avesse salvate due o tre dal marciapiede) sarebbe accusato del delitto (e qui, davvero il colpo di scena non previsto nel noir) in base agli spostamenti rilevati dalle celle telefoniche la sera del 28 novembre 2011, il giorno in cui il delitto sarebbe stato commesso. La difesa ha chiaramente annunciato un ricorso al tribunale del riesame e chissà come andrà a finire. La piccola storia è degna comunque di un romanzo d’appendice. Un romanzone, si direbbe oggi. Di quelli strappalacrime con un finale cattivo e dark. C’è una storia che mi ha sempre inquietato ed è una storia scritta in maniera sublime da Sthephen King: “Misery”. Quello che potrebbe accadere ad uno scrittore è divenire vittima di un lettore. Che potesse capitare il contrario sembrava davvero inverosimile. Plampaschet sembra esserci riuscito, salvo, chiaramente, eventuale processo e conferma della condanna. Mai come In questo caso però, la sentenza rischia di essere già scritta.
Ps. La notizia è stata pubblicata, tra gli altri da repubblica.it e la potete trovare seguendo il link:
Il mare va sempre raccontato. Perché ogni onda, ogni goccia che raggiunge la riva o che rasenta lo scoglio è diversa. Nel colore, nel sapore e nel rumore. I mari vanno raccontati. E vissuti. Come i luoghi di mare. Da piccolo, ad Alghero non concepivo l’idea che potesse esistere un luogo senza il mare. Senza quell’acqua che rasentasse i piedi. D’inverno, nelle giornate cupe e gonfie di vento, arrivavo in bicicletta sino a Maria Pia e , tutto infagottato, arrivavo sulla spiaggia e raccoglievo la sabbia umida e fresca. E guardavo il mare. Aveva un’intensità più densa, era una conchiglia che raggrumava l’infinito in un attimo. Quando pioveva. Vedere l’acqua che si scontrava con altra acqua, amiche e non sorelle. Dolce e salate. Piccole gocce che ferivano le onde, che lacrimavano negli spazi infiniti di un mare che raccoglieva tutto. Acqua e vento. E desideri. Bisogna viverlo il mare per graffiare nella sua incosciente vitalità. Poi ho scoperto luoghi senza azzurro e senza bianco e senza celeste. E senza mare. Ho calpestato lievemente quell’erba di svariati spazi che non raggiungeva mai nessuna onda. Ho pensato che in quei luoghi si poteva, al massimo, sopravvivere. E ho cercato mare in tutte le mie storie, negli abbracci fugaci e nelle notti senza luna. Quando il mare non si vedeva io ugualmente lo sentivo, forte e scuro. Permeabile al mio olfatto. Lo abbracciavo con gli occhi e me lo portavo a spasso, per non essere solo. Non ho mai detto nella mia vita “andiamo al mare”. Non vi è stato mai bisogno. Ho sempre avuto il mare come fratello, amante, figlio legittimo, compagno di viaggio. Dicevo "andiamo in spiaggia" o "sugli scogli". Almare non ci andavo. Io, al mare ci sono sempre stato. Ho vissuto nelle intersecazioni di molte onde e ho provato a calvacarle tutte. Per amore e perché al mare non si fugge. Semmai si ritorna a cercare telline e pietre e coralli, nella battigia della nostra anima. Ho vissuto in un mare prigione, più duro di quello della Sardegna da dove, in qualche modo possiamo fuggire. Ho vissuto nel perimetro di un muro altissimo dove mare significava evadere, fuggire, autostrada della vita. Il mare dell’Asinara. Invalicabile e gonfio di storie e di silenzi. Ho visitato il mare del Venezuela, del bianco come la neve appena caduta, poi Santiago di Cuba e L’Avana, con colori sgargianti e rumori del sud del mondo, ma sapori dolcissimi. Ho pestato l’acqua di Bali e dell’isola di Gili dove il rumore erano i bambini che spruzzavano acqua ed era il più grande divertimento. E ancora Lisbona, Porto, Barcellona e il Messico, lo Yucatan, sempre a respirare mare. Vanno vissuti i mari. Per poterli raccontare. E vanno raccontati. Perché il mare non si racchiude in un bicchiere o in un catino. Il mare non è un concetto egoistico. Troppo grande e troppo libero per incatenarlo. Il mare va assaggiato. Assaporarlo lentamente, da lontano. Avvicinarsi e accarezzarlo. Questo mare che accompagna gli occhi e li stravolge. Questo mare mai cattivo ma non compreso. Siamo noi che non lo sappiamo usare e che non capiamo quando è il caso di lasciar perdere, di non macinare la sua acqua. Questo mare che ci avvolge e ci regala un sapore indimenticabile. Perché il mare te lo porti in tasca. Per sempre. E quando lo vedi lo saluti e capisci perché non potrai mai dimenticare quell’acqua che si muove e che regala infinite percezioni. Il mare va sempre raccontato. E abbracciato. Occorre correre e guardare il mare. Da quelle parti nasce il giorno e sempre da quelle parti muore. Quando il mare ingoia il sole capisci che sta succhiando tutta la vita, come una cannuccia. Ma lo fa per mischiare gli attimi e farla rinascere. Sempre dal suo orizzonte. E tu, sulla spiaggia, a osservare quella palla che velocemente scompare. Bisogna avvicinarsi con decisione al mare. Ed accarezzarlo. Osservare in silenzio i colori, gli odori, i rumori. E percepirne l’anima. Poi, provare ad addormentarsi, con quella radiosa e impercettibile concezione che modella la tranquillità e la passione. Questo e altro ancora è il mare.
l buon Putin, che è uomo di mondo (come direbbero Totò e Berlusconi) ha capito che allearsi con la chiesa ortodossa, una volta vituperata da lui stesso in qualità di capo della KGB, conviene. Perché l’ortodossia fa il lavoro sporco che lui chiaramente non può fare. Conscio di essere stato eletto in maniera decisamente non “cristallina” ha cercato alleanze tra chi intende ritornare nel buio e nell’ostracismo del medio-evo. Conservare quello che si conosce, d’altronde, è sempre molto rassicurante rispetto a navigare a vista nell’oceano del confronto e della democrazia che, vista da queste parti, quella russa qualche piccolo problema ce l’ha. Il buon Putin, che ha il sorriso contratto e falsamente costruito non poteva dire che quattro ragazze con il cappuccio colorato rappresentassero un pericolo per il paese. Non sarebbe stato credibile. Ha deciso, quindi, di giocare la partita in un altro modo (e, a proposito di partite, il grande giocatore di scacchi Garry Kasparov, pare sia stato malmenato dalla polizia perché manifestava a favore delle Pussy Riot e, successivamente, arrestato) mettendo il gioco la religione, il sacro, la profanazione. Quello che il potere non può e non riesce a fare lo demanda alla religione. Vecchia storia. E pericolosa. Questa vicenda, che riporta la Russia in pieno medio Evo, non è molto lontana dai tempi in cui viviamo. C’è sempre un tabù che non si può infrangere in quasi tutti i luoghi del mondo. Compreso il nostro. Guardavo qualche sera fa, il film documentario Videocrazy dove imperava il potere della televisione e dove, con quel potere si potevano costruire miti o distruggere uomini. Il potere, il palazzo, ha questo di terribile: ha paura del dissenso, ha paura di mostrare le rughe e allora usa il sacro per debellare “chi rema contro” e la cipria per nascondere le rughe. Tre ragazze sono state condannate per aver cantato una canzone contro un uomo di potere all’interno di una chiesa. Probabilmente la location non era tra le migliori e bene avrebbero fatto a cantarla all’esterno, in un parco. Ma non avrebbero sortito lo stesso effetto. Ci hanno insegnato, invece, che graffiando le pareti giuste il muro dell’arroganza crolla. Dovremmo cominciare ad imparare queste piccole lezioni sparse per il mondo e cominciare a cantare, con forza, il nostro dissenso. Il palazzo ha paura delle parole. Non a caso i potenti bruciano i libri e le biblioteche. Dovremmo tornare alla parola, non stancarci di denunciare allargando gli orizzonti e i nostri occhi troppo innamorati del cortile sotto casa dove, ormai, ci sono solo vecchie oche spaurite con tacco dodici. C'è una grande diferenza tra due anni di carcere per aver cantato contro il potere e dieci minuti di notorietà per aver partecipato all'isola dei famosi. Anche su questo dovremmo essere capaci di riflettere.
Ho letto con un certo interesse l’articolo apparso sulla Nuova Sardegna di oggi, a firma di Eugenia Tognotti, dal titolo inequivocabilmente intrigante: “In balìa dei rumori nell’isola del silenzio”. Tognotti rimpiange, soprattutto in questi giorni, la mancanza dei dolci e soavi rumori che erano il cantare dei grilli e il frinire delle cicale che hanno lasciato il posto al diluvio dei decibel, ai motorini a tutto gas, agli hi-fi a pieno volume, alle chiacchiere e al vociare scomposto. Insomma, il vecchio dilemma: le vacanze servono per riposare o per meditare? L’autrice si lamenta che manchi dentro quest’isola il silenzio e che il non rumore, l’assenza di perturbazioni sonore, debba essere un bene tutelato, una sorta di marchio di fabbrica dell’isola Sardegna. Sul rumore del silenzio ci ho scritto il mio primo libro che, liricamente, cammina dentro tutte le pause contemplative che regala il mare, e sono davvero tante. Ho, come dire, il diritto di replica o, comunque, posso aggiungere qualcosa. La discussione è importante e mi dispiace che nessuno l’abbia mai affrontata in maniera seria ed è legata, principalmente, a quello che dovrebbe essere (e non è) la vocazione di quest’isola, a quello che dovrebbe diventare (e non diventa) in un immediato futuro. C’è stata, negli anni 60, una rincorsa ad un turismo nuovo, patinato e il silenzio dei monti di Mola (quelli della Costa Smeralda) è stato plasmato da ruspe, camion che hanno modificato i luoghi e hanno inventato il luogo dei “ricchi” e all’interno di quel “non-luogo” hanno anche prodotto il silenzio irreale delle ville, delle barche a vela con alberi giganteschi ma senza motore. Da altre parti, invece, dopo le ville monofamiliari, hanno costruito discoteche, porti turistici per motoscafi e passeggiate chiassose e leggiadre dove la piccola borghesia (oggi scomparsa) poteva trascorrere le vacanze catapultandosi con ombrelloni e sdraio (e producendo quindi molto rumore) nelle libere spiagge del continente Sardegna. Si è assistito, ad un certo punto, al tentativo di fare incontrare questi strani mondi. Infatti (è memorabile e sociologicamente rilevante un documentario di Sciuscià) la piccola borghesia, chiassosa, casinara, con macchine fotografiche, bambini urlanti, patatine fritte, Lacoste nuove fiammanti, si adagiava davanti al silenzioso porto di Porto Cervo a guardare i ricchi che salutavano, in silenzio e che vestivano Lacoste sbiadite che faceva più snob. Tognotti ha scritto un bell’articolo che nei principi generali è assolutamente condivisibile. Si dimentica che, al di la della crisi imperante e dove il caro traghetti (che colpisce, guarda caso i vocianti della piccola borghesia) ha sfoltito le truppe camellate che raggiungevano con festante baldoria la Sardegna, il problema principale è che si ha un’idea di turismo completamente pasticciata e a volte non risponde alle richieste. L’isola del silenzio è un assioma poeticamente alto da sottoscrivere e condividere, ma il rumore del silenzio che impera in questi mesi è quello delle risposte dei politici che non arrivano e mi preoccupa molto di più il frastuono sordo dei caschi protettivi sbattuti con forza e disperazione sull’asfalto dagli operai dell’Alcoa. Mi preoccupa il silenzio delle fabbriche oggi divenute cattedrali abbandonate in un deserto che aspettava altro. Mi preoccupa il silenzio che è calato sulle richieste dei pastori e sull’aumento del prezzo del latte, mi preoccupa il silenzio di Cappellacci alle miriadi di risposte che con una certa insistenza i sardi chiedono da tempo. C’è un brutto silenzio da queste parti che non mi piace per niente e che i vacanzieri non riescono a riempire. Non ne faccio una questione di decibel. Penso sia possibile convivere con tutto. Con qualche settimana di musica alta e con villeggianti rumorosi e festanti. Con i ricchi silenziosi e con il loro mondo di plastica. Con i silenzi del Gennargentu e con le passeggiate verso Tiscali (visita che suggerisco alla Tognotti) possiamo convivere e ci aggiungo, campanilisticamente anche con il silenzio dell’Asinara che ho amato e che amo, ma non produce lo stesso antico silenzio di una volta. Oggi quel deserto di rumori è il risultato della distruzione dell’isola. Ci sono silenzi che non amo e sui quali dovremmo cominciare a discutere. Tognotti suggerisce un turismo tutto grilli e cicale. Piacerebbe anche a me. Se solo ce lo potessimo permettere. Le cicale sono rimaste e sono purtroppo rappresentate dai commercianti e dagli operatori turistici che cantano, ahinoi, meno di un’estate. Il problema, semmai sarà la gestione del silenzio che dopo ferragosto ci attanaglierà e che farà di quest’isola un cimitero di silenzi. E aspetteremo urlando nel silenzio la prossima stagione, senza costruire nessuna idea sul futuro.
Si è sentito il rumore netto, un tintinnio lento di qualcosa che rotolava sempre più velocemente sino a raggiungere il tombino. Dong. Un rumore sordo, insignificante. Ma che fa male. Molto male. Quella che sembrava una grande moneta è scomparsa. Inghiottita dalle fogne e dall’onta che l’ha travolta. Quella che sembrava una moneta solo sino a qualche giorno prima era una medaglia. Medaglia d’oro. Vinta a dispetto di tutte le forze, al di la del bene e del male. Perché per vincere quella medaglia nei 50 Km. di marcia ci vuole bravura, certo, ma ci vuole anche coraggio e rabbia e follia.
Si è sentito il rumore netto anche se tutto è apparso visivo più che sonoro. Perché le lacrime, almeno così sembra, non fanno rumore. Ma le lacrime di un sognatore che ha distrutto tutto in un attimo hanno un fragore particolare, che muovono un oceano e che costringono alle parole di modellare periodi, pensieri, pagine. Di provare a capire. Di provare a comprendere perché un ragazzo che passeggiava sulle nuvole un bel giorno decide che tutto questo andava rimodulato, che non bastava la fama, la gloria, la pubblicità, la fidanzata bella e sublime pattinatrice, che non bastava questo orizzonte limpido, che occorreva, per qualche oscura ragione, abbassare la serranda alla vita.
Si è sentito il rumore netto del silenzio di tutti noi. Dello sbigottimento complessivo, del non riuscire a decifrare i passaggi e le scelte sbagliate di un campione che decide di cadere. Per sempre. E quando cadono gli Dei il rumore sulla terra calpesta gli animi e rende tutti più soli.
Alex Schwazer, marciatore italiano, dopo la medaglia di Pechino si era come svuotato. Succede. Può capitare. Capita a chi vince tutto e lo vince subito. Ci si svuota, si sgombra il campo e non si trovano nuovi obiettivi. Perché tutto è apparentemente raggiunto. Alex non sa che occorre camminare e marciare tutti i giorni dentro le intersecazioni e le curve della vita. Alex non ce la fa e prova con le medicine, con l’aiuto, con quelle cambiali che saranno mandate in protesto dopo la scadenza. Sa che è un debito difficile da saldare e che, prima o poi qualcuno gli presenta il conto. E’ un carabiniere e certe cose deve pur saperle. E le sa. “Ho sbagliato perché volevo tutto” ha detto. E sapeva anche questo. Che tutto non si può pretendere. E che occorrerebbe sapersi accontentare. Perché poi, lo sport regala gesti inconsueti che non appartengono alla vittoria ma alla vita: come il pettorale richiesto con amore dal vincitore della semifinale a Pistorius, quella semifinale che Pistorius perde ma che grazie a quel gesto diventa una vittoria sul mondo. Come le lacrime della Cagnotto e della Ferrari che sono fuori dal podio e si capisce che è difficile rialzarsi da quella polvere di centesimi dettati da arbitri insindacabili ma dediti all’errore, come tutti gli uomini.
Alex è un atleta finito. Ha chiuso. Lascerà anche l’arma dei Carabinieri. Proverà a fare l’uomo. Dovrà marciare in un deserto tutto in salita. Ma ce la farà. Mi auguro sia di fulgido esempio (come si direbbe tra i gloriosi carabinieri) per qualcun altro che ancora non ha capito che quando si sbaglia lo si ammette e ci si ritira.
Ciao Alex, che la nuova strada, per quanto ruvida, ti sia amica.