Ci sono pallonetti così perfetti che, seppure non riescono a gonfiare la rete avversaria, si fanno applaudire per la grinta, l’impegno, la plasticità del gesto. Mica bisogna sempre segnare e vincere. A volte è necessario sognare e colorare gli attimi. Con un paio di laccetti arcobaleno per esempio. Quelli che Daniele Dessena, calciatore del Cagliari ha indossato durante la partita con l’Inter. Lo ha fatto per sostenere un’iniziativa realizzata da “Paddy Power” e dalle associazioni nazionali Arcigay e Arcilesbica, con la collaborazione della Fondazione dell’indimenticato e indimenticabile “Candido Cannavò”. Ecco, una cosa tutto sommato semplice, un gesto nobile, piccolissimo, di un giovane che prova a osservare il mondo dalla parte della gente. Dove si respira tutto e dove è possibile tutto. Alcuni tifosi della squadra hanno polemizzato sull’adesione del giocatore. Dessena ha però dichiarato che per lui, quel gesto era importante, perché ha potuto dare un contributo ad una causa importante e in cui crede. Mandare in fuorigioco gli omofobi, un gran bel risultato. Non ha segnato Dessena. Ma il suo pallonetto era terribilmente in sintonia con la vita reale. Un tiro verso la libertà. Quella vera, di tutti, senza distinzioni e con i colori degli uomini, delle donne e di una pacata e gioiosa umanità. Per dare un calcio all’omofobia e, per dirla con Lucio Dalla, ai cretini di ogni età.
Ho scoperto che stasera, in televisione, ci sarà una fiction su Alberto Manzi, il maestro di “non è mai troppo tardi”. Ero piccolo, avevo l’età giusta per ascoltare quello strano maestro, così diverso e così lontano. Mi piaceva come disegnava. La mia maestra, per esempio, faceva solo cerchi storti che una volta chiamava arance o mandarini o lumache o ruote, a seconda della lettera da imparare. Ma erano sempre uguali. Alberto Manzi, invece, scriveva e disegnava con quella calligrafia da “bella copia”. Io restavo ad osservarlo e sorridevo davanti a mio nonno che, invece era interessato solo a Mina o alle gemelle Kessler e per lui “non è mai troppo tardi” non era interessante. Coerentemente analfabeta conosceva tutte le poesie e le battorine in sardo-logudorese a memoria. A mio nonno questo bastava. Quel maestro in bianco e nero rappresentava per me il doposcuola, quello che una volta si chiamava “Cres”, acronimo di qualcosa che non ho mai compreso. Andare al cres significava giocare con la plastilina e stare insieme ai compagni. Era la fine degli anni sessanta. Avevo le figurine Panini in tasca, Alberto Manzi come maestro ideale e le puntate dell’Odissea come capolavoro cinematografico: lo sceneggiato della domenica. Erano anni in cui si poteva stare per strada l’intero pomeriggio per poi rientrare ad ascoltare quella strana trasmissione dove noi, piccoli scolaretti ripetevamo con gioia le lezioni di grammatica rudimentale di Alberto Manzi e guardavamo la sua mano disegnare benissimo piccoli alberi e case e animali. “Non è mai troppo tardi” è l’inno a non arrendersi, a non mollare, a provare e riprovarci. E’ un titolo sublime non tanto per una straordinaria trasmissione, quanto per la trama della vita. Ecco, con questo spirito, stasera, mi affaccerò curioso a guardare attraverso l’angolo della nostalgia questo sceneggiato, meglio, questa fiction su un maestro della parola, su un signore che non ha mai alzato la voce e ha provato, con squisita gentilezza e bellissima lentezza, a suggerire di provare e riprovare. In fondo, nella vita, nelle scelte, nei sogni quotidiani, non è mai troppo tardi. Proviamoci.
Si può calpestare la sabbia del deserto e sentirsi terribilmente soli. Tra le dune e l’ignoto, tra lo sgomento e il terrore, tra la meraviglia e l’incoscienza. Marwan ha quattro anni e nel confine tra la Siria e la Giordania, ad un certo punto, mentre scappa con i genitori dall’atrocità della guerra, si è perduto, si è confuso, è rimasto indietro. E’ rimasto solo. Nella concitazione del momento, nell’orrore dell’attimo, Marwan ha camminato nel deserto. Da solo. Poi, per fortuna, dopo meno di un’ora ha trovato il respiro giusto: quello dei suoi genitori. Bella storia. Da scriverci per ore ho pensato. Poi, con la stessa lentezza del camminare di Marwan nel deserto, mi son voltato, a rivedere il film delle ultime ore. Noi, come Marwan, camminiamo tra la sabbia, senza scarpe e senza un’apparente meta. Tutti, oggi, nutrono speranze per il nostro futuro, tutti, oggi, cercano di costruire un’oasi nell’aridità di una terra dimenticata per molto tempo. Chissà se anche noi riusciremo a ritrovare il respiro giusto, la mano forte, decisa. Chissà se anche noi, come Marwan, potremmo guardarci indietro e sperare di avere superato il peggio. Per ora possiamo solo guardarci dentro. E stare ad ascoltare. Buone giornate Sardegna.
Ho osservato la città che, sorniona, si addolciva in un sole tiepido e dolcissimo. Ho ripreso tutti i pensieri di queste ultime settimane e li ho riportati dove tutto riesce ad appianarsi. Il mare. Lui attendeva con calma le parole e le impressioni di una campagna elettorale asfittica, lontana, metallica forse. Probabilmente acida. Il maggior partito, rappresentato dal 48% dei sardi ha camminato con le mani in tasca e il silenzio delle scelte. Non ha votato. Davanti a quest’acqua senza onde si ripropone - come un urlo mai ascoltato - quella visione antica di restare così, senza inghiottire né sputare, di restare così, a rimescolare frasi acute e vere, a cercare di calpestare acqua diventata, nel tempo, fango. Sono passato in via Bottego, lasciandomi il cimitero di San Benedetto e la basilica di Bonaria. Lasciandomi di lato quel silenzio, rotto solo dalle piccole voci di una vittoria senza enfasi, senza alcuna passione. Pigliaru era lì, con il maglioncino verde e un sorriso appena accennato. Tutti erano lì con le loro facce stanche, appisolate verso un futuro che nessuno riesce a disegnare. Non ha vinto nessuno e nessuno riesce ad ammetterlo. Ci sono pronti quelli del coro, quelli pronti ad ogni evenienza, facce lucide e proiettate verso qualsiasi orizzonte purché ci sia la loro ombra raffigurata. C’era Soru, quasi sorridente, la Barracciu quasi festante e tutti gli altri quasi contenti. Ho osservato con una certa tenerezza quel “quasi” che ritaglia la realtà dalla finzione. Non ha vinto nessuno mi sono detto, tanto vale osservare quel pezzo di mare. E ho attraversato Viale Diaz fino a giungere alla nuova passeggiata che dal molo Ichnusa arriva sino all’ex lazzaretto. Ho camminato con passi lievi e stanchi, a riordinare piccole parole da raccontare, per una campagna elettorale senza polmoni e senza neppure un cordone ombelicale. Ho scelto una panchina per far riposare quei pensieri di sardi ancora fuori, ancora soli e solitari, ancora senza un’idea chiara di Sardegna. Dal molo si intravvedeva la sagoma forte della Tirrenia. Attendeva, anch’essa, un ordine che nessuno sembra in grado di poter dare. Un mare lago mi accompagnava, acqua immensa e viva dentro una regione agonizzante. Nessuno ha vinto, ripetevo. Anche perché, in fondo, nessuno ha mai giocato, davvero, la partita. Il Consiglio Regionale oggi rappresenta solo una piccola percentuale di votanti. Quattro candidati e le loro liste spazzati da una legge elettorale assurda, fatta per gli interessi e non per il governo. Ho osservato con aria docile il pezzo di quel mare e, in un tramonto quasi regalato allo scetticismo di molti, ho ripreso la strada. Il mare, almeno quello non riusciranno a farlo a fette, non riusciranno a dividerlo. L’unica piccola consolazione è che Ugo Cappellacci non è più Presidente della Regione. Il resto è tutto da disegnare. Speriamo sappiano scegliere almeno i colori. Buon lavoro Presidente Pigliaru: dal piccolo consenso provi a restituire un’onda di normalità. Sappia accarezzare la battigia e si ricordi che sono gli scogli a delimitare il mondo. L’acqua li può solo levigare e consumarli. Ma ci vuole troppo tempo. E di tempo, da queste parti, non ne abbiamo più.
L’ho sempre fatto e sono anche soddisfatto di aver scelto qualcosa o qualcuno. E’ bello poter essere, anche se per un attimo, protagonisti della vita del paese. Del tuo paese. E’ bello poter pensare di poter contribuire, con il tuo voto, alla crescita di un progetto, di un’idea, di una visione, di una speranza. Il voto non è solo per qualcosa. E’ anche contro qualcosa. Io voto uno piuttosto che un altro. E mi schiero. Mettendo una croce su un simbolo decido da che parte stare, almeno quel giorno, almeno in quell’attimo ma non solo, perché quella scelta rappresenta comunque la mia idea di futuro. Io voto perché ne sono profondamente convinto. Sono cresciuto in una famiglia dove le elezioni venivano soprattutto “sentite” come senso civico. Sono cresciuto in una famiglia dove non votare era il sinonimo di vigliaccheria, di volersi sottrarre ad un impegno. Mi è rimasta questa idea cavalleresca del voto, questo senso del dovere e del piacere. Perché votare è poter dire “io esisto” io mi occupo della cosa di tutti e spero che il mio eletto faccia altrettanto. Il mio voto non serve “per me” in quanto persona, sarebbe sciocco e minimalista. Il mio voto serve agli altri in quanto “forza” per raggiungere un obiettivo comune. Io voto per tradizione ma non sono un tradizionalista. Non nel senso puro. Io voto perché credo in quell’atto, credo sia un bel momento di democrazia. Ho sempre pensato che il miglior modo di protestare è votare contro chi non giudichi all’altezza, contro chi non fa parte della tua visione del mondo. Non votare significa lasciarsi trasportare dall’onda che non hai potuto produrre. E l’onda avanza, non si ferma. Io voto perché ci sono, perché vivo e respiro i profumi e i colori di questa terra, perché sento i lamenti di molti, le disperazioni di tanti, gli abbandoni dei politici. Il mio voto serve a chi ci vorrebbe dimenticare mentre invece io ci sono e come me ci sono tutti quelli che useranno la matita per esprimere una visione di Sardegna diversa da altre visioni di Sardegne e diversa da chi, invece, ha deciso di non votare. Io voto anche perché, come dice Gaber “quando ci sono le elezioni non piove mai”. Buon voto a tutti.
E’ difficile poter scegliere. Si ha sempre la paura di sbagliare. Di pentirsene e di rimpiangere per anni quell’errore. Può capitare con la scuola, nella scelta della compagna o del compagno, capita di sbagliare strada, di confidare certe cose segretissime al proprio amico del cuore e scoprire di essere stato tradito. Si sbaglia anche lavoro, scelta ormai residuale perché i giovani – e non solo – sono purtroppo disposti a tutto. Non si scelgono i genitori e, quasi mai la religione e non si sceglie lo Stato in cui si nasce. Si sceglie però di voler vivere da altre parti e in altri luoghi. Per poi, magari, pentirsene. Insomma, domenica si vota e per i sardi che hanno deciso di esprimere la propria scelta sarà una giornata speciale. Perché non è vero che sono tutti uguali e non è neppure vero che sono tutti lontani. Gaber, in una famosissima canzone degli anni ottanta ricordava che non erano gli uomini a cambiare idea, ma i partiti che, lentamente, scivolavano da sinistra al centro e poi, magari a destra. Questo accade ancora oggi, in tempi dove l’ideologia è largamente superata dalle frasi ad effetto, dagli slogan mirabolanti, dall’apparire più sicuri e rassicuranti. C’era un giornale, in carcere, stampato nella Casa Reclusione di Porto Azzurro: si chiamava “la grande promessa” e il titolo – lungimirante e pieno di buona retorica – era legato ad una proposta di Legge per l’abolizione dell’ergastolo. Correva l’anno 1972. Sono passati oltre quarant’anni, la grande promessa non si pubblica più e l’ergastolo, in questo paese, non è stato abolito. Ecco, a sentire i candidati tutti sono in grado di promettere una Sardegna più vera (come se questa fosse tutta falsa) più pulita, più ecologica, senza amianto, più “green”. Tutti puntano sulla scuola, sulla formazione, sulla lingua, sull’autodeterminazione, sulla vera autonomia. Si sogna la nuova ricchezza, la corsa all’oro, nuovi trasporti sempre più veloci, autostrade con molte corsie e spruzzi mirabolanti di felicità. A nessuno viene in mente che l’iperbole di questi giorni potrebbe essere rinfacciata tra qualche mese. Ma hanno ragione. Le promesse mica si mantengono. E’ bello farle per poi poter dire: «Non è colpa mia, le congetture internazionali, i risvolti nazionali, non sono stato compreso, sono stato frainteso, sono gli altri che non seguono» e, quando proprio si è davanti al baratro, si usa l’arma più fantasiosa: «E’ un complotto». Io credo sia difficile scegliere, come è difficile governare. Alcuni candidati hanno dimostrato più serietà di altri, hanno creato meno aspettative di altri, hanno giocato sui microprogetti e non hanno dipinto la Sardegna come un grande campo da golf. Eppure nessuno tra loro, ci dirà di aver commesso un errore. Mi chiedo, a questo punto, se ci sia un luogo per rottamare gli errori, un piccolo posto per poter gettare le cose sbagliate. Dove ognuno di noi si può recare e dire: «questo è lo scarto delle mie idee. Ho sbagliato, può capitare.» Nello stesso luogo occorrerebbe costituire un registro, con tanto di firma, dove ognuno di noi possa certificare le sue cose sbagliate o quelle dette in un momento di sconforto. O quelle che non direbbe mai più. Insomma, dovrebbe esistere un luogo per poter ripulire il campo dalle sterpaglie, dalle sciocchezze, dalle cose dette e ridette, da chi usa dire tutto e il contrario di tutto. Ci dovrà pur essere un momento per arare, per appianare, per ripartire. Ci dovrà pur essere un luogo dove qualcuno, quando cercheremo di dire «questo non l'ho mai detto», ci presenti quel famoso registro firmato e controfirmato e pacatamente risponda:«Non puoi continuare a dire fesserie». Tutto certificato. Ecco, quel luogo dovrebbe essere frequentato soprattutto da chi, in questi giorni ci regala “grandi promesse”.
E’ inutile. Il mare e non la notte porta consiglio. Quel suo osservare senza emettere nessun rumore o quell’urlare con la consapevolezza di essere temuto. Quel suo affondare dentro gli occhi, quel suo disegnare l’orizzonte e renderlo più denso, più lontano. Il mare è la trasposizione degli eventi. E’ il nostro limite, il nostro essere piccoli e grandi nello stesso modo. E’ una barca da costruire, sabbia da toccare, scoglio da accarezzare. E’ rabbia accumulata nei giorni, negli anni, nei millenni. Con il mare si fugge ma dal mare non si fugge. Chi è salito su una nave per il continente quel viaggio se lo porta dentro. Tutta la vita. Ecco perché ci si trova sempre davanti al mare a fare i conti con la storia ma anche con l’essenza delle piccole cose. Ci si ritrova a cercare le onde in una serata piatta, senza sussulti. E se per caso, solo per caso ti avvicini, se raccogli il rumore del mare, ti rendi subito conto degli altri strani frastuoni così diversi, così lontani, così senza azzurro, senza blu, senza verde. Così senza amore.
Dovrebbero obbligare a fare la campagna elettorale sulla battigia. Ad osservare i movimenti fluidi di un acqua che non tradisce e si indispone quando le parole si appiattiscono e diventano nenia, cantilena inutile. Di tutti e per tutti. Un’overdose di cose dette e ripetute. Siamo sardi, la zona franca, la lingua, la formazione, la scuola, la chimica, il lavoro, i minatori. Bravi scolari con l’ansia da prestazione. Poi ci sono i sorrisi e le stoccate e le toccate di mano e i pensieri che non camminano sopra zattere alla deriva. Dovrebbero conoscere il rumore del mare. E il suo silenzio avvolgente. Dovrebbero passarci, accarezzare quell’acqua che non è buona perché è salata, ma è altrettanto vera perché non è dolce. Questo noi siamo. Corpi avvolti dal sale forte di un mare immenso. Non ci avvolge dolcezza. Il mare porta consiglio e ritaglia orizzonti più lontani e probabilmente più veri. Questo m’illumina assaggiando il mio forte mare. Musica senza pentagramma. Musica che sa andare solitaria e forte. Il mare è un rumore lento, vigoroso, energia che ti assale. Il mare per i sardi è il limite dei propri desideri. Ed è il desiderio di cavalcare quel limite che ci sovrasta. E ci stringe da troppo tempo. Bisognerebbe partire dal mare, ma non per toccare altra terra. Semplicemente per comprendere quanto è bello rimanere in viaggio sull’acqua. Il mare non è mai definitivo e non è mai una cosa già vista. E’ vita sdrucciola che sciacqua l’anima e dipinge l’esistenza. Questo noi siamo: mare e tempesta, acqua e silenzio, sale e ricordo, ginepro e mirto, onda che non fugge ma, come tutto, lentamente ritorna.
La fotografia è stata scattata stasera, a Cagliari dalla nuova passeggiata che, dal Molo Ichnusa arriva sino a Sant’Elia. Un grande rumore di mare.
Io, da piccolo compravo la mortadella da Marantona, così la chiamavamo noi ragazzi di via Cravellet ad Alghero, sempre pronti a giocare tra la polvere con le biglie e le figurine in mezzo ad una strada orfana di auto. Marantona aveva il negozio in un piccolo magazzeno del mio palazzo e, oltre la mortadella, tagliata con l’affettatrice rossa, con una grande manovella e un rumore assordante e stridente, vendeva i succhi di frutta, la nutella e la crema rosa. Quest’ultima la riversava sulla carta oleata. Era dolcissima e quando riuscivo a convincere mia madre ad acquistarla, nel piccolo tragitto dal negozietto a casa, aprivo il cartoccio oleato e, con il dito, riuscivo ad arrivare alla crema consumandone più della metà. Mia madre controllava il peso specifico del pacchetto e, ritenendolo non conforme alle lire consegnate, mi accusava di aver mangiato la crema ma io, sorridendo dicevo: “Marantona mi ha dato questa. Forse è aumentata”. Poi, c’era il negozio di signora Luigina, più avanti e quello di Di Napoli, novello sposo. In poche strade impolverate di un quartiere che ancora doveva nascere c’erano ben tre negozi di alimentari. Per non parlare della latteria di signora Maria dove ci si recava con la bottiglia di plastica rossa ad acquistare il latte sfuso che veniva giù da un bidone d’acciaio con un rubinetto enorme. E signora Maria usava, per tutti, il solito imbuto. Senza risciacquo. I negozi non ci sono più. Spariti, ingoiati da garage per automobili. Nel quartiere non ci sono più neppure i bambini che giocano per strada. Si va a città mercato, da Tanit, alle Vele e si acquistano gli alimentari con grandi carrelli in questi terribili “non luoghi” tutti spaventosamente e tristemente uguali. Ne ha parlato, su Repubblica, Carlo Petrini raccontando in un bellissimo e struggente articolo di come, in pochi anni, le botteghe alimentari siano sparite dalle vetrine delle città le quali sono diventate dei grandi deserti per far posto a quelle lande desolate che tutti chiamano “i nuovi luoghi di incontro”. Non mi piacciono. Non mi sono mai piaciuti. Una volta, proprio a Città mercato, a Sassari, ho visto una fila lunghissima davanti al tabaccaio. Giocavano al superenalotto. Una tristezza infinita. Non ci sono più gli alimentari e neppure i profumi e gli odori di una città pulsante. Si chiama “globalizzazione” quella che permette di acquistare una maglietta di una nota marca internazionale in qualsiasi aeroporto del mondo. Tanto i non luoghi son tutti uguali. Marantona, di questi tempi non avrebbe senso. Parlava con noi ragazzini. Ci chiedeva della scuola, ci domandava cosa facevamo il pomeriggio. Era una splendida impicciona ma emanava vita, raccoglieva parole e le restituiva. Oggi, nelle casse delle città mercato fuori della città, ci sono solo cassiere in attesa di concludere quel turno massacrante ed alienante che ti chiedono sempre e soltanto: “tessera?” e al mio solito “no” (non riesco a capirne l’importanza di queste tessere) ti guardano con compassione, ma non sorridono. Non c’è più Marantona e neppure gli altri piccoli negozi, luci soffuse, dove il fare la fila era una scusa per chiedere, informarsi, conoscere. Era anche provare con la furbizia dei ragazzini a prendere una caramella in più, una mentina colorata, quelle da una lira, o provare a farsi regalare da qualche signora amica di tua mamma il gelato di zucchero. Altri tempi. Certo. Altri tempi. Lenti e tortuosi. Il problema però è lo sventramento della città che, lentamente scivola verso una periferia ruvida, con colori acidi e veloci. Dove tutti si incontrano e nessuno parla. In qualsiasi “non luogo”, dentro ogni mega center , l’unica cosa importante è “avere la tessera”. Ma per parlare con Marantona bastavano gli sguardi, piccoli sorrisi e fugace speranza che sbagliasse il conto delle mentine. Impossibile nei mercati di oggi dove tutto è terribilmente contato, misurato, costruito, impacchettato. Dove, per sopravvivere mica ci vogliono gambe veloci e disposte al gioco. In questi silenzi pieni di gente basta una stupida e inutile tessera.
Ho sempre sognato e disegnato i colori di Mirò. Nella mia gioventù algherese, nelle curve della maturità, nelle notti morbide tra le “rambals” di Barcellona, nell’azzurro acquerello di Barceloneta, tra le colline del Logudoro e tra le piccole punte del Gennargentu. Ho sempre utilizzato Mirò come tavolozza della mia esistenza. Il suo giallo, il suo rosso, la sua falsa sovrapposizione, i suoi svolazzi di poesia pura, rarefatta. Perché se a colorarti la vita ti scegli Mirò, potrai sempre rimanere tra l’allegria e l’inconsapevolezza di un’adolescenza tardiva, ritagliata tra le favole e le stelle. Quelle di Mirò.
Scoprire che stasera, lo stato portoghese ha dato il via libera per vendere 85 opere dell’artista catalano, è come ritornare alla televisione in bianco e nero. I Mirò, gli spruzzi dell’incoscienza messi all’incanto per recuperare parte dei fondi persi con il fallimento del banco Portogues del Negocios, avvenuta nel 2008. Quelle opere passeranno al migliore offerente. Basta avere i soldi e ti porti a casa una tela, un acrilico, un disegno, una scultura di Juan Mirò. Ma non puoi portarti il colore della vita. Requisisci agli occhi di tutti un pezzo di allegria e libertà. Nascondi l’orizzonte colorato della poesia dentro qualche stanza di un magnate russo, cinese, giapponese. Chissà. Si porteranno quelle tele per racchiuderle dentro case senza nessun senso, nessun sorriso. E quei Mirò non parleranno più, quelle stelle, quegli schizzi, quel nero immenso e quel blu avvolgente non potranno mai riempire il vuoto della tracotanza e dell’ostentazione. Non comprerei mai un Mirò, non potrei mai condividere solo con i miei occhi ciò che è nato per essere amato da tutti. Non si nasconde la tavolozza dei colori. Stasera, il mio mare è un più solitario, con poche linee argentate e gialle e verdi e rosse e magenta e viola e verdi. Anche le stelle non sono apparse. Chiudo gli occhi e riappare quell’occhio che sembra un naso e un sorriso e una lacrima e un ricordo. Il mio bellissimo e immenso Mirò, pentagramma colorato della mia esistenza. La mia favola da vivere e abbracciare, il mio salire e scendere per molte scale, il mio punto di vista, il mio piccolo gioco da restituire al mondo. Perché quelle linee, quei cerchi, quei rettangoli, quegli spicchi di vitalità sono di tutti. Io sono un pezzo di Mirò, solo un pezzo. Il resto è il mare e il lago e la donna e il bambino e l’aquilone e il cavallo e gli uccelli e quel mondo colorato che ci gira intorno. Non si vendono le favole al miglior offerente. Le favole si disegnano, si raccontano, si musicano, si vivono. Si annusano. Mirò esiste perché la poesia dei gesti nobili supera quella della solitudine. Chi acquisterà stasera un Mirò per tenerlo nella sua stanza spegnerà una stella. E il mondo sarà un po’ più in penombra. E più triste.