Il mare va sempre raccontato.
Perché ogni onda, ogni goccia che raggiunge la riva o che rasenta lo scoglio è diversa. Nel colore, nel sapore e nel rumore. I mari vanno raccontati.
E vissuti.
Come i luoghi di mare.
Da piccolo, ad Alghero non concepivo l’idea che potesse esistere un luogo senza il mare. Senza quell’acqua che rasentasse i piedi. D’inverno, nelle giornate cupe e gonfie di vento, arrivavo in bicicletta sino a Maria Pia e , tutto infagottato, arrivavo sulla spiaggia e raccoglievo la sabbia umida e fresca.
E guardavo il mare.
Aveva un’intensità più densa, era una conchiglia che raggrumava l’infinito in un attimo. Quando pioveva. Vedere l’acqua che si scontrava con altra acqua, amiche e non sorelle. Dolce e salate. Piccole gocce che ferivano le onde, che lacrimavano negli spazi infiniti di un mare che raccoglieva tutto. Acqua e vento.
E desideri.
Bisogna viverlo il mare per graffiare nella sua incosciente vitalità. Poi ho scoperto luoghi senza azzurro e senza bianco e senza celeste. E senza mare. Ho calpestato lievemente quell’erba di svariati spazi che non raggiungeva mai nessuna onda. Ho pensato che in quei luoghi si poteva, al massimo, sopravvivere. E ho cercato mare in tutte le mie storie, negli abbracci fugaci e nelle notti senza luna. Quando il mare non si vedeva io ugualmente lo sentivo, forte e scuro.
Permeabile al mio olfatto.
Lo abbracciavo con gli occhi e me lo portavo a spasso, per non essere solo. Non ho mai detto nella mia vita “andiamo al mare”. Non vi è stato mai bisogno. Ho sempre avuto il mare come fratello, amante, figlio legittimo, compagno di viaggio. Dicevo "andiamo in spiaggia" o "sugli scogli". Almare non ci andavo.
Io, al mare ci sono sempre stato.
Ho vissuto nelle intersecazioni di molte onde e ho provato a calvacarle tutte. Per amore e perché al mare non si fugge. Semmai si ritorna a cercare telline e pietre e coralli, nella battigia della nostra anima.
Ho vissuto in un mare prigione, più duro di quello della Sardegna da dove, in qualche modo possiamo fuggire.
Ho vissuto nel perimetro di un muro altissimo dove mare significava evadere, fuggire, autostrada della vita.
Il mare dell’Asinara.
Invalicabile e gonfio di storie e di silenzi.
Ho visitato il mare del Venezuela, del bianco come la neve appena caduta, poi Santiago di Cuba e L’Avana, con colori sgargianti e rumori del sud del mondo, ma sapori dolcissimi. Ho pestato l’acqua di Bali e dell’isola di Gili dove il rumore erano i bambini che spruzzavano acqua ed era il più grande divertimento. E ancora Lisbona, Porto, Barcellona e il Messico, lo Yucatan, sempre a respirare mare.
Vanno vissuti i mari.
Per poterli raccontare.
E vanno raccontati.
Perché il mare non si racchiude in un bicchiere o in un catino. Il mare non è un concetto egoistico. Troppo grande e troppo libero per incatenarlo. Il mare va assaggiato. Assaporarlo lentamente, da lontano. Avvicinarsi e accarezzarlo. Questo mare che accompagna gli occhi e li stravolge. Questo mare mai cattivo ma non compreso. Siamo noi che non lo sappiamo usare e che non capiamo quando è il caso di lasciar perdere, di non macinare la sua acqua. Questo mare che ci avvolge e ci regala un sapore indimenticabile. Perché il mare te lo porti in tasca.
Per sempre. E quando lo vedi lo saluti e capisci perché non potrai mai dimenticare
quell’acqua che si muove e che regala infinite percezioni. Il mare va sempre raccontato.
E abbracciato.
Occorre correre e guardare il mare. Da quelle parti nasce il giorno e sempre da quelle parti muore. Quando il mare ingoia il sole capisci che sta succhiando tutta la vita, come una cannuccia. Ma lo fa per mischiare gli attimi e farla rinascere. Sempre dal suo orizzonte.
E tu, sulla spiaggia, a osservare quella palla che velocemente scompare.
Bisogna avvicinarsi con decisione al mare.
Ed accarezzarlo.
Osservare in silenzio i colori, gli odori, i rumori. E percepirne l’anima. Poi, provare ad addormentarsi, con quella radiosa e impercettibile concezione che modella la tranquillità e la passione.
Questo e altro ancora è il mare.
Perché ogni onda, ogni goccia che raggiunge la riva o che rasenta lo scoglio è diversa. Nel colore, nel sapore e nel rumore. I mari vanno raccontati.
E vissuti.
Come i luoghi di mare.
Da piccolo, ad Alghero non concepivo l’idea che potesse esistere un luogo senza il mare. Senza quell’acqua che rasentasse i piedi. D’inverno, nelle giornate cupe e gonfie di vento, arrivavo in bicicletta sino a Maria Pia e , tutto infagottato, arrivavo sulla spiaggia e raccoglievo la sabbia umida e fresca.
E guardavo il mare.
Aveva un’intensità più densa, era una conchiglia che raggrumava l’infinito in un attimo. Quando pioveva. Vedere l’acqua che si scontrava con altra acqua, amiche e non sorelle. Dolce e salate. Piccole gocce che ferivano le onde, che lacrimavano negli spazi infiniti di un mare che raccoglieva tutto. Acqua e vento.
E desideri.
Bisogna viverlo il mare per graffiare nella sua incosciente vitalità. Poi ho scoperto luoghi senza azzurro e senza bianco e senza celeste. E senza mare. Ho calpestato lievemente quell’erba di svariati spazi che non raggiungeva mai nessuna onda. Ho pensato che in quei luoghi si poteva, al massimo, sopravvivere. E ho cercato mare in tutte le mie storie, negli abbracci fugaci e nelle notti senza luna. Quando il mare non si vedeva io ugualmente lo sentivo, forte e scuro.
Permeabile al mio olfatto.
Lo abbracciavo con gli occhi e me lo portavo a spasso, per non essere solo. Non ho mai detto nella mia vita “andiamo al mare”. Non vi è stato mai bisogno. Ho sempre avuto il mare come fratello, amante, figlio legittimo, compagno di viaggio. Dicevo "andiamo in spiaggia" o "sugli scogli". Almare non ci andavo.
Io, al mare ci sono sempre stato.
Ho vissuto nelle intersecazioni di molte onde e ho provato a calvacarle tutte. Per amore e perché al mare non si fugge. Semmai si ritorna a cercare telline e pietre e coralli, nella battigia della nostra anima.
Ho vissuto in un mare prigione, più duro di quello della Sardegna da dove, in qualche modo possiamo fuggire.
Ho vissuto nel perimetro di un muro altissimo dove mare significava evadere, fuggire, autostrada della vita.
Il mare dell’Asinara.
Invalicabile e gonfio di storie e di silenzi.
Ho visitato il mare del Venezuela, del bianco come la neve appena caduta, poi Santiago di Cuba e L’Avana, con colori sgargianti e rumori del sud del mondo, ma sapori dolcissimi. Ho pestato l’acqua di Bali e dell’isola di Gili dove il rumore erano i bambini che spruzzavano acqua ed era il più grande divertimento. E ancora Lisbona, Porto, Barcellona e il Messico, lo Yucatan, sempre a respirare mare.
Vanno vissuti i mari.
Per poterli raccontare.
E vanno raccontati.
Perché il mare non si racchiude in un bicchiere o in un catino. Il mare non è un concetto egoistico. Troppo grande e troppo libero per incatenarlo. Il mare va assaggiato. Assaporarlo lentamente, da lontano. Avvicinarsi e accarezzarlo. Questo mare che accompagna gli occhi e li stravolge. Questo mare mai cattivo ma non compreso. Siamo noi che non lo sappiamo usare e che non capiamo quando è il caso di lasciar perdere, di non macinare la sua acqua. Questo mare che ci avvolge e ci regala un sapore indimenticabile. Perché il mare te lo porti in tasca.
Per sempre. E quando lo vedi lo saluti e capisci perché non potrai mai dimenticare
quell’acqua che si muove e che regala infinite percezioni. Il mare va sempre raccontato.
E abbracciato.
Occorre correre e guardare il mare. Da quelle parti nasce il giorno e sempre da quelle parti muore. Quando il mare ingoia il sole capisci che sta succhiando tutta la vita, come una cannuccia. Ma lo fa per mischiare gli attimi e farla rinascere. Sempre dal suo orizzonte.
E tu, sulla spiaggia, a osservare quella palla che velocemente scompare.
Bisogna avvicinarsi con decisione al mare.
Ed accarezzarlo.
Osservare in silenzio i colori, gli odori, i rumori. E percepirne l’anima. Poi, provare ad addormentarsi, con quella radiosa e impercettibile concezione che modella la tranquillità e la passione.
Questo e altro ancora è il mare.