C’è qualcosa che mi ha sinceramente irritato nell’addio di Silvio Berlusconi al Senato. Non è stata la pantomina dell’Onorevole Bondi e neppure la “sciantoseria “ dell’Onorevole Mussolini, cose di ordinaria amministrazione. Non sono state le signore bardate a lutto in segno di “spregio” nei confronti del popolo italiano (ricordo che la sentenza, passata in giudicato, è stata pronunciata in nome di tutto il popolo italiano) e neppure la sua stanca litania, peraltro scontata, dove ha promesso di non andare via, di continuare ad occuparsi dell’Italia. Anche queste cose ampiamente prevedibil in linea con il personaggio. Non mi ha destato paura il ghigno feroce di Verdini e dei Capezzone e dei Ghedini o dei Brunetta. No, non è stato quello a produrmi l’irritazione anche se, devo ammetterlo, ne avrei fatto volentieri a meno. Quello che, invece, ha suonato come qualcosa di irrituale, inusuale e, lasciatemelo dire, di cattivo gusto, è stata la fotografia, mostrata nella piazza “urlante” che rappresentava il Cavaliere con dietro il drappo delle Brigate rosse e sotto la scritta “prigioniero politico”, quasi a voler ripercorrere, attraverso quella fotografia, la storia del presidente Aldo Moro, divenuta un’icona fortissima per quelli della mia generazione. Io nei 55 giorni di Moro c’ero. Li ho vissuti terribilmente tutti e ne sento ancora oggi le conseguenze e le paure. Ricordo i giorni e i personaggi. Ricordo gli umori, i depistaggi, gli errori di valutazione, le lotte intestine all’interno della democrazia cristiana, le trattative sottotraccia dei socialisti, l’impossibilità di trattare con i comunisti, quelli più disponibili, quelli più duri, un paese in apnea, un mondo nascosto fatto di servizi segreti e logge massoniche. Di P2. Questo ricordo. Ricordo soprattutto (rileggete il bellissimo libro La tela del Ragno di Sergio Flamigni, Kaos edizioni) che nelle prime ore convulse del sequestro, il 16 marzo 1978, rilasciarono interviste politici, economisti, banchieri, tutti iscritti alla Loggia massonica P2. Quei giorni dove hanno parlato i mistici, quelli che avevano trovato, tramite una seduta spiritica cui aveva partecipato Romano Prodi (ma tu guarda) il covo di via Gradoli, dove pullulavano gli scettici, quelli che non hanno mai creduto alle parole di Aldo Moro in prigione; i filo brigatisti pronti quasi a giustificare questa orribile mattanza. Sono stati giorni bui, densi, neri. Nerissimi per la mia tarda adolescenza. Giorni che mi hanno segnato. Ma ricordo – e ho un ricordo nitido – che Aldo Moro non si dichiarò mai un prigioniero politico. Quando ieri ho visto la foto di Silvio Berlusconi (non più Onorevole) con dietro la scritta “brigate rosse” ho avuto come un fremito e un piccolo motto di rabbia. Aldo Moro non è chiaramente Silvio Berlusconi e le storie non si sono neppure sfiorate (anche se, a pensarci bene, il Cavaliere risultava iscritto alla loggia P2 ma, come dire, lasciamo perdere). La visione politica di Aldo Moro, per quanto non condivisibile (e io, personalmente non la condividevo) era, appunto una “visione politica” perché Aldo Moro era, a suo modo, un visionario, uno che aveva capito l’importanza di aprire alla sinistra, di fare un passo in avanti rispetto al vecchio e ormai sorpassato consociativismo. Insomma, Aldo Moro non è Berlusconi e tantomeno la Magistratura può essere rappresentata dalle brigate rosse. Anzi, questa è pura blasfemia. Le brigate rosse, nella loro fulgida follia politica (e senza alcuna visione) hanno rapito i giudici, li hanno feriti e uccisi. E i giudici, con il solito indomito coraggio li hanno processati e condannati. Vorrei poterlo dire a chi teneva stretto ieri, in piazza, quel cartello raffigurante un Berlusconi con dietro la scritta “brigate rosse”. Vorrei poter ricordare che il processo di Aldo Moro fu quanto di più tirannico si potesse costruire: Nessun avvocato, nessuna prova. Il tribunale del popolo (un popolo molto ancestrale, a dire il vero e composto solo da pochi brigatisti) decise per la pena di morte, pena che non esiste per nostra grande fortuna all’interno del codice penale italiano. Vorrei poter ricordare che il processo di Silvio Berlusconi è stato tra i più democratici e garantisti che sono stati effettuati in questo paese: avvocati, testimoni, elementi probatori analizzati in tre gradi di giudizio. Questo vorrei ricordare a chi avvicina la figura martirizzata di Aldo Moro a quella di Silvio Berlusconi. Ognuno ha la sua storia e i suoi processi. Silvio Berlusconi e i suoi “fans” potevano lasciare la scena con dignità. Non sono riusciti a fare neppure questo e hanno imbrattato la storia di un paese segnato da tragedie vere e da altre abbastanza ridicole. Potevano dire, semplicemente, “lo spettacolo è finito”. Probabilmente si sarebbero beccati anche l’applauso. Ma da gente che confonde il dramma di Moro con una sentenza di condanna per frode fiscale non si può pretendere che comprenda l’importanza dei gesti.
Perché prima o poi il cuore comincia a ridimensionarsi. E le lacrime si riposano. E la rabbia comincia a riprendere il letto di un fiume mai dimenticato. Perché gli sciacalli stasera non passeranno a calpestare le nostre storie e perché gli orchi non troveranno il cammino nella girandola delle parole. Noi siamo qui. Ad osservare, muti, la vostra terribile evanescenza, la vostra orribile faccia tosta, quella che sapete usare sempre. Tra matrimoni e funerali. Quella. Noi siamo qui. Per provare a ripartire, a rimetterci le scarpe e saggiare il nostro cammino. Pochi passi. Ma sinceri. Noi siamo qui. A dimostrare l’avversità per chi vede negativo, per chi non sa dipingere la tela del futuro. Noi siamo qui. E non chiediamo. E non piangiamo. E non parliamo. Abbiamo mani dure, nodose e bianche. Abbiamo forza e speranza. Abbiamo una valigia di desideri ma non vogliamo condividerla con chi non sa mantenere lo sguardo davanti alla nostra sofferenza. I giorni passano e le ferite si rimarginano. E il sole asciuga e il vento trasporta le nostre vite. I giorni passano e il sale di un mare forte non riesce a solidificare un domani con risvolti di tranquillità. Noi siamo qui. E ci saremo sempre. Tra le onde e le colline, tra il cisto e l’infinito. Non abbiamo niente da chiedere a chi non riesce a stringere le mani in maniera decisa e forte. Noi non dimentichiamo. Sappiatelo. Noi siamo l’onda spumeggiante di una memoria forte e indefinita. Noi siamo. Quell’acqua che ci ha inzuppato il cuore non ha cancellato le nostre storie, le nostre vite, le nostre forti ramificazioni ad una vita maestosa e degna. Noi siamo, ci siamo e ci saremo. A testimoniare. Per le nostre colline, il nostro mare, i nostri alberi e i nostri figli. Per la nostra terra. Sappiatelo.
Le parole hanno un senso. Di questo ne era profondamente consapevole un intellettuale lucidissimo , forse il più grande del novecento: Pier Paolo Pasolini. In un articolo contenuto su “scritti corsari” , nel 1974 (uno dei miei libri sul comodino) Pasolini si sofferma su due parole, apparentemente vicine e, come dire, ottimistiche e positive: Sviluppo e progresso. Si chiede, in premessa, se le due parole siano da considerare dei sinonimi o se siano due fenomeni diversi che si integrano necessariamente fra di loro o, ancora, se indicano due fenomeni “opposti” che, solo apparentemente, coincidono e si integrano. Da queste premesse Pasolini ci accompagna in un viaggio molto interessante che seppure dobbiamo filtrare con gli occhi dei giorni nostri (sono passati quasi quarant’anni) ci porterà a comprendere alcune prese di posizione e polemiche che hanno alimentato la politica di questi giorni, soprattutto la politica sarda, alla luce della recente alluvione e conseguente disastro dovuto, essenzialmente alle scelte scellerate degli uomini (uomini, ahimè, comunque sardi). La parola “sviluppo” - secondo Pasolini - ha una rete di riferimenti che riguardano un contesto di “destra”. Pasolini sostiene, infatti, che a volere lo “sviluppo” è colui che ha ragioni di un immediato interesse economico e quindi ha interesse a produrre beni “superflui” da immettere sul mercato e rivenderli e chi acquista questi beni è un “consumatore d’accordo nel volere lo sviluppo perché per essi significa promozione sociale e liberazione”. Il progresso, invece, lo vogliono - sempre secondo Pasolini - “coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare” e lo vuole quindi, chi lavora e dunque è sfruttato.” Il progresso è una “nozione ideale là dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico.” Ricordo queste cose perché sono importante anche se, lo capisco, rischiano di essere complesse nei passaggi e nei ragionamenti, ma necessarie per comprendere quello che oggi è accaduto e che nasce dalle parole che divengono scelte politiche. Perché di questo si tratta: si può sostenere lo sviluppo a tutti i costi o, come si dice oggi, con una correzione ideologica quasi naturalistica “sostenibile”, oppure si può scommettere tutto sul “progresso” anche se (e lo ricorda sempre Pasolini) a quanto pare non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo. Subito qualcuno potrebbe obbiettare che questa differenziazione oltre ad essere ideologica e di parte è superata dagli eventi. Ne è convinto anche Pasolini nell’articolo del 1974, cancellando le false ideologie e schieramenti e mettendoci davanti ad un’atroce realtà: la destra sostiene lo sviluppo e lo mantiene ogni qual volta è al potere. Oggi si direbbe che fa cose di destra, lecite per carità, ma di destra. Il problema è però un altro: la sinistra che vuole il ”progresso” per governare accetta “lo sviluppo” e, soprattutto accetta questo tipo di sviluppo stigmatizzato da Pasolini come industrializzazione totale. Certo, le cose sono cambiate, i muri sono crollati e parlare di tecnologia borghese oggi fa senz’altro sorridere ed è sicuramente un modo di vedere le cose probabilmente superato. Ma non è superata l’analisi lucida dell’articolo dell’intellettuale scritto - lo ricordo - nel 1974. Da anni, in qualche modo, soprattutto nelle realtà locali abbiamo assistito a governi di destra o di sinistra (meglio: di centro destra e centro sinistra) ed ognuno di essi ha parlato di sviluppo del territorio. Magari qualcuno di sinistra si è soffermato sul progresso e sull’essere progressista e non conservatore. Di fatto però, quello di sinistra (o di centro sinistra) quando ha potuto governare si è comportato proprio nello stesso modo di Lenin che, dopo una campagna all’insegna del progresso, una volta ottenuta la vittoria nella rivoluzione, ha cominciato a parlare di grandioso “sviluppo” di un paese sottosviluppato. Insomma, ho letto e riletto le parole scritte da Pier Paolo Pasolini e mi è sembrato giusto parlare da queste premesse per poter concludere un semplice ragionamento perpetrato da tutti in questi anni nel nostro paese, nella nostra regione, nei nostri comuni: si è parlato di sviluppo e in nome di questa parola si è costruito dove non si doveva e poteva costruire, ci sono stati i condoni per permettere lo sviluppo del paese, abbiamo privatizzato (e continuiamo a farlo) per ottenere lo sviluppo, continuiamo a discutere di sottosviluppo e contrapponiamo lo sviluppo equo, sostenibile (a mio parere, sviluppo sostenibile è un ossimoro). Nessuno, insomma, parla più di progresso, del concetto di progresso, di quel voler progredire partendo dalle cose costruite in precedenza. Noi, confondiamo le parole e anziché provare a comprenderle e soffermarci, ci riempiamo la bocca di concetti poco conosciuti e deleteri: in nome dello sviluppo abbiamo costruito nei fiumi, abbiamo allargato le città abbandonando i centri storici, abbiamo costruito sulle spiagge, sui fiumi, abbiamo elevato autostrade deturpando il paesaggio, tutto per rincorrere uno sviluppo che oggi si scopre insostenibile. Abbandonando quel progresso fatto di piccoli passi, di attenzione alle cose. Si progredisce se si conosce, e si mantiene se si è progrediti in maniera dolce e non selvaggia. Il progresso è dedicato al futuro con gli occhi del passato, lo sviluppo è la velocità senza radici. Dovremmo cominciare a soffermarci sulle parole e sui concetti. Dovremmo cominciare a chiedere a chi ci governa cosa intende fare di noi, del futuro dei nostri figli: vuole lo sviluppo o vuole il progresso? E in base a questo dovremmo cominciare a scegliere. Dovremmo ritornare alla politica, a quella seria. Non è più il tempo degli slogan o delle parole macinate e rigettate in un palco. Non è più il tempo dei sorrisi e degli imbonitori. Le parole hanno un peso e determinano le scelte e il futuro e decidono il colore del nostro orizzonte. Non dimentichiamolo.
Acqua. Per chi ha sete e non arriva. Per chi ascolta quel rumore sordo, di pioggia e di dolore, quasi fossero tutte le lacrime del mondo a cadere sulla nostra terra, arida e silenziosa, oggi inzuppata di angoscia e di tristezza. Acqua. Sembra il mare conosciuto, onde di acqua dolce, spruzzi che non chiedevi ad avvolgere ogni cosa, a diventare strade e a schiumare la speranza. Acqua che la senti, dalle montagne sbattere sugli alberi e sul cisto e sul mirto e sulle case e sulle colline e sulle spiagge e sugli arenili e sul cemento, quasi a voler cancellare quello che l’uomo, negli anni ha disegnato, quasi a voler riportare, attraverso la purificazione dell’acqua, quello che c’era stato. E sono piccoli lamenti nel grigiore di un cielo denso, sono autoarticolati a pestare tutta l’acqua riversa sulla strada, mentre le auto, mute e con lampeggianti accesi osservano quell’onda che cammina. Ed è vena rigogliosa, ricerca una via d’uscita e dobbiamo spiegarlo a quest’acqua e a queste nuvole che non lo faremo mai più, lo avevamo giurato a Capoterra quando, anche quel giorno, contavamo i morti e mischiavamo le nostre lacrime ad un acqua diventata fango. Dobbiamo spiegarli i nostri errori, le nostre cantine, i fiumi sotterrati, le nostre case vista mare e vista cielo e vista acqua e vista morte. Dobbiamo provare a spiegare che le radici tengono e raccolgono e mantengono, ma noi le radici non le abbiamo più e quelle poche che ci rimangono riusciamo a mangiarcele con il fuoco. Siamo acqua e fuoco, fango e solitudine e ci accasciamo in questo terribile silenzio funebre a contare e ricontare i morti. I bambini, gli operai, le donne. Urla in un deserto di facce lavate da lacrime e dall’acqua, di facce con troppe rughe, segnate dall’indifferenza di tutti. Non provateci, non provateci ad essere contriti, ad essere falsamente tristi voi, con le lacrime acquistate a basso prezzo, con quelle frasi di circostanza, con quell’essere in prima fila davanti a tutte le bare per poi dimenticarne anche il colore di quel legno. Non provateci e non permettetevi di affermare che è stato il fato, un Dio cattivo o un disegno divino. Non provateci. Osservate le mani nodose di tutti i sardi, osservate i nostri occhi, osservatene il dolore. Oggi non è tempo per la pietà, per le parole di circostanza. Oggi, son rimasti i nuraghi a contemplare tutto il misfatto e una ragione ci deve pur essere se queste pietre senza cemento continuano a osservare silenti i nostri errori. Oggi è tempo di pesare i cuori pesanti e assorti, feriti e addolorati ma pulsanti. Altre rughe sulla nostra pelle riarsa dai fuochi e affogata nell’acqua e nel fango. Rughe composte e profonde che non si lavano con l’acqua. Perché la memoria ha un peso specifico, perché la sofferenza ha un diametro largo che ci abbraccia tutti. Almeno per oggi.
Il rosso. E’ un non colore. O meglio, un colore misto. Misto al giallo della polvere del deserto, finissima, all’azzurro del cielo che si catapulta dentro nuovi colori. Il rumore che prima appariva deciso, fortissimo, adesso è lieve quasi a scomparire. Trucioli di pensieri che si sovrappongono a respirare questo rosso che non è dolce e non è amore, ma turgido, quel rosso sangue: l’orrore. Lontano, molto lontano spari vacui, quasi a ripristinare il silenzio. Non c’è mai silenzio dentro questo posto. Non c’è mai uno sputo di attimo senza niente, dentro questo cazzo di bastardo posto. Uno da Andromeda, uno da Andromeda, perché non rispondi, perché, perché. Io ho visto il vuoto che si creava davanti a me, che muoveva la polvere che saliva e che abbracciava il palazzo. Ho visto per un attimo, un attimo soltanto il colore che si solidificava. Ho sentito le urla che erano parole che erano voci che si solidificavano, erano voci senza rumore. Ecco vedevo le labbra muoversi che volevano dire qualcosa, disegnavano qualcosa, ma non riuscivano a colorare. Sordo. Un tonfo sordo. Come un televisore che vomita solo immagini. In bianco e nero. Questa è la nostra vita signor Colonnello. Anima che osserva altre vite respirare orrore.
12 novembre 2003 ore 10.39 ora locale. Ore 8:39 in Italia.
Come un latrato. Lontano. Come quando zio Bachisio andava a caccia delle lepri. Un latrato. erano i suoi cani. Lui non li sentiva. Li annusava nell’area. Sono Leka, Mingi e Perras. Loro sono. Non li sento. Ma ci sono. Lontani. Molto lontani arrivavano quei piccoli mugolii. Erano loro. Davvero. io sopra una pietra dall’alto di Lu lamaddioni li vedevo. Anch’io non sentivo il rumore. Erano loro. Piccoli ticchettii, tamburellavano sulla terra dura, mai arata, dove solo le lepri potevano passare. E Leka, Mingi e Perras. Aspettava zio Bachisio. Aspettava un rumore, che non arrivava. Ma lo sentiva. Lontano, un sibilo nel silenzio, un canto dolce, quello di leka soprattutto. Passava la lepre e passava dove doveva passare. Nel posto scelto da zio Bachisio e da Leka. Zio Bachisio non sbagliava col fucile malanno. Un colpo, un colpo secco senza produrre neppure rumore e la lepre che prima zampettava felice, ansimante ma sicura di riuscire a sfuggire a quel cazzo di cane, si fermava, come a rallentatore, le zampe di dietro si bloccavano, e il muso si rimpiccioliva, aveva pochi spazi prima di cadere definitivamente nelle macchie di chessa. La lepre. Senza rumore tutto accadeva. Leika che sopraggiungeva e decideva di non lasciare a nessuno il trofeo. La leccava, la povera lepre, la guardava e quasi sorrideva. Zio Bachisio aspettava. Senza nessun frastuono. La lepre non aveva più respiri. Tutto era successo in un attimo eppure si poteva raccontare. Era una lepre. Una piccola lepre senza neppure un nome. Qui il discorso era diverso, dannatamente diverso, c’era lo stesso silenzio ma non c ‘erano i latrati dei cani che ci perseguitavano, non c’era nessuna lepre ansimante. Niente. Non c’era assolutamente niente. Non c’era un cazzo di merda di niente. Non c’era neppure la remota possibilità di poter urlare, di poter commercializzare la rabbia, il disincanto, la preghiera, la voglia di fuggire, di pisciare su tutti quei cazzo di discorsi che aveva imbastito il colonnello o in quelli che avrebbe disegnato il generale. Non c’erano lepri e non si capiva che cosa ci potesse essere dentro questo fumo denso che ci rincorreva, che sguainava, che ansimava, che non si addolciva che urlava parole che sentivo mie e non erano di altre lingue ma italiane, proprio mie, allora dico, allora cazzo è successo qualcosa. Andromeda da uno rispondete, Andromeda da uno, dove siete sono dentro questo colore che non è mio, dentro questa storia che non è mia, che nessuno ci ha mai raccontato. Che cosa dobbiamo sapere che ancora non sappiamo, che cosa dobbiamo aspettare che ancora non conosciamo., Dove è il mio maresciallo, il mio colonnello il mio generale dove cazzo sono questi signori che dovevano dipingere occhi di bambini che ci avevano inviato dentro questa terra per costruire montagne di pace e sorrisi e nuovi orizzonti che non c’è proprio niente da vedere solo ponti e armi e nessuna conquista. Dove siete non vi sento io ho dentro mille rumori che non sono i nostri non possono essere i nostri, non riescono a localizzarci, a districarsi dentro questa terra che non è nostra che siamo venuti a costruire la democrazia che aveva ragione Margherita che cazzo porca puttana aiuto io non riesco ad urlare e saltano gambe e occhi e gambe e si colorano di giallo ocra e spruzzano di rosso e non sono scintille cazzo signor maresciallo io non riesco a capire perché tutto intorno salta e gioca e distrugge e urla che non sono urla che sembra di essere in apnea e non vedo più zio Bachisio e la lepre e i suoi cani. Non vedo più niente e non riesco più a sedermi a stare in piedi e non riesco più a capire cosa cazzo devo fare che deve essere importante quello che dovremmo realizzare in questo momento e dovremmo capirlo da soli perché un soldato queste cose le capisce al volo ma ci ha ragione Margherita che non sono un soldato e che non valgo niente. Cristo possibile che non si possa urlare dentro questo deserto di coscienze?
Il 12 novembre 2003 avviene il primo grave attentato di Nasiriyya. Alle ore 10:40 ora locale (UTC +03:00), le 08:40 in Italia, un camion cisterna pieno di esplosivo scoppiò davanti la base MSU (Multinational Specialized Unit) italiana dei Carabinieri, provocando l'esplosione del deposito munizioni della base e la morte di diverse persone tra Carabinieri, militari e civili. Il tentativo del Carabiniere Andrea Filippa, di guardia all'ingresso della base "Maestrale", di fermare con il fucile AR 70/90 in dotazione i due attentatori suicidi riesce, tant'è che il camion non esplode all'interno della caserma ma sul cancello di entrata, altrimenti la strage sarebbe stata di ben più ampie dimensioni. I primi soccorsi furono prestati dai Carabinieri stessi, dalla nuova polizia irachena e dai civili del luogo. Nell'esplosione rimase coinvolta anche la troupe del regista Stefano Rolla che si trovava sul luogo per girare uno sceneggiato sulla ricostruzione a Nasiriyya da parte dei soldati italiani, nonché i militari dell'esercito italiano di scorta alla troupe che si erano fermati lì per una sosta logistica.
Uno la sabbia se la sogna anche d’inverno. Soprattutto d’inverno. La tocca con le mani e la stringe, aspettando che le scappi e arrivi sui piedi, a formare quasi una piccola piramide. Sabbia soffice dove si può correre e sdraiarsi, dove si può stare insieme a suonare la chitarra, intorno ad un falò, vicino al mare. Perché la sabbia addensa molte cose, si unisce ai nostri capelli, ai appiccica ai peli delle braccia e delle gambe dei maschietti. E qualche granello arriva sino alla nostra doccia. La sabbia è leggerezza, estate, è acqua che ci incanta, bambini che corrono e urlano parole incomprensibili, sono castelli, sono buchi a cercare acqua con le mani e piccoli secchielli. Sono il torneo di bocce in plastica, le sfide infinte dopo pranzo, la crema protezione quindici o venti o, addirittura cinquanta, che ai tempi nostri non c’era e si tornava a casa con le bolle ma felici. La sabbia è calore, è il primo bacio o il secondo, ma anche il terzo e ha il sapore di quei giorni, di quel mare, di quel sale, di quella spiaggia. Adesso, qualcuno ha deciso che tutto questo si può vendere, come si vende un gelato, un chilo di pomodori, un telefonino. Ci devono essere geni incompresi dalle nostre parti, gente che non dorme la notte e davanti ai problemi risponde tranquillo: “Ci sono qua io, vendiamo qualcosa e tutto è risolto”. Mi fanno paura questi geni, questi coltivatori di pragmaticità, questi cultori del “tutto e sempre”, questi violentatori di ricordi e di emozioni. Mio nonno – ed era analfabeta – aveva dodici figli. Non ha mai pensato di vendere o affittare un figlio, mio nonno. Da antifascista non aveva diritto ad avere la cartella del pane. Si mangiavano meloni e fichi e mia madre ricorda che quei meloni erano buonissimi e dolci ma, soprattutto, bagnati. Acqua delle proprie lacrime e della disperazione. Ma non ha mai pensato, mio nonno, di vendere il cane da caccia o la gallina o il suo asino. E non ha pensato, mio nonno, di vendere il giogo dei buoi o la frusta o la bisaccia. Si è messo a vendere meloni in mezzo alla strada, aspettava che qualcuno passasse e barattasse i meloni con qualcos’altro. E mia nonna andava a lavorare il formaggio e i miei zii erano servi pastori o lavoravano in vigna. Nessuno vendeva la propria dignità a quei tempi. Ed erano tempi duri, di guerra e di fame. Adesso gli scienziati dell’economia, i “problem solver” di ultima generazione ci raccontano che tutto è in movimento, tutto è acquistabile e quindi tutto è vendibile. Possiamo acquistare il quadro di Picasso, è vero, ma non acquisteremo mai l’emozione del pittore, la sua forza nel dipingerlo. Non sopporto chi acquista qualcosa di importante e se lo tiene per se. Non ha senso. Certe cose sono per tutti e sono di tutti e sono lì per chè tutti possano guardarle. Ma sono, come dire, cose costruite dagli uomini e ci sta che possano anche essere vendute. E’ il mercato. Lo so. Ma a nessuno è venuto in mente di vendere un panorama, un orizzonte, una spiaggia. Le spiagge, qualcuno obbietta sono state “privatizzate” e molte sono “a pagamento”. La realtà è diversa: è a pagamento il servizio offerto, ma la spiaggia è un bene demaniale, è dello Stato, ovvero di tutti. Infatti, qualcuno di quei “tutti”, pensando di esserne padrone, seppure in comproprietà, di tanto in tanto pensa di venderla. Ho sempre pensato sia un personaggio molto triste quello con questi conturbanti pensieri: immagino che da bambino gli tirassero la sabbia negli occhi, oppure si bruciasse perché la mamma non aveva l’ombrellone oppure era un bambino solo. Con molti giocattoli, formine, secchielli, rastrelli, ma nessuno si avvicinava a lui. D’altronde chi non capisce l’entità di un sogno non riesce a raccontarlo. Chi non comprende il calore di un abbraccio non riesce a contraccambiarlo. Noi, in Sardegna siamo vissuti con la sabbia di contorno. E con il mare. Abbiamo camminato e baciato e pianto e sorriso sulle spiagge della nostra isola. Siamo stati accarezzati nella nostra infanzia da quel sole torrido e dolce e abbiamo camminato, per ore, sulla battigia, l’orizzonte delle nostre anime. Perché di questo, si tratta, per noi sardi: le spiagge sono il limite fisico dove possiamo arrivare e, guardando il mare, cominciare a sognare. Chi vuole vendere le spiagge sta vendendo il molo del nostro orizzonte, delle nostre emozioni. E tutto questo non è possibile. Davvero. Ci sono altre possibilità per sopravvivere direbbe nonno. Lasciate le spiagge ai nostri figli affinché possano sporcarsi di sabbia e ritornare a casa e raccontare quegli attimi, tra la spiaggia e il mare. Trovate altre soluzioni tra le pieghe dei nostri allegri bilanci e del nostro curioso modo di spendere e sprecare e lasciate le spiagge, a dipingere un pezzo di vita, come tavolozze sottili nell’acquarello della nostra esistenza.
articolo apparso sul quotidiano “La Nuova Sardegna” 12 novembre 2013
Chi collezionava le figurine panini lo sapeva: Luigi Riva, nato a Leggiuno il 7 novembre 1944. Io avevo dieci anni nel 1969 e quasi undici quando il Cagliari di Giggiriva conquistò il suo primo e unico scudetto. Collezionavo figurine e trotterellavo nella fantasia infantile con gaiezza e solide convinzioni: a me, giggiriva mi piaceva. Perché era uno del Nord ma giocava in una squadra del Sud, era uno che alzava le mani al cielo, perché segnava di testa tuffandosi, perché aveva un tiro portentoso, perché Gianni Brera lo aveva chiamato Rombo di tuono. Ma, soprattutto, perché era in campo il giorno di Italia-Germania 4 a 3, una delle poche partite che quasi ricordo a memoria. Un’impresa epica, una sorta di rivincita contro i tedeschi, nostri alleati e poi nemici, con i quali eravamo affondati nella polvere solo pochi anni prima e ci eravamo macchiati di terribili nefandezze. Io, tutto questo, chiaramente mica lo sapevo. Avevo giggiriva e Mazzola, Domenghini e Albertosi nel cuore. Questa era la mia poesia, insieme al Carducci dell’albero cui tendevo la pargoletta mano. I gol di giggiriva, gli abbracci ai suoi compagni, la maglia azzurra con dietro il solo numero: undici. Perché ai miei tempi i giocatori li riconoscevi senza doverti stropicciare gli occhi per leggere il nome sulla maglia. Li riconoscevi da come si muovevano in campo, da come correvano e da come segnavano. E giggiriva lo riconoscevi sempre. Anche alla radio. Perché Ameri cambiava tono di voce quando giggigheddu prendeva il pallone e, senza accarezzarlo, lo buttava dentro, per segnare, per gioire, per sognare. E, come tutti gli eroi tristi, ha vinto poco giggiriva. E’ diventato campione d’Italia una sola volta, campione d’Europa in un campionato non proprio memorabile e capocannoniere. Poi vice campione del mondo e altre piccole cose. Non ha vinto altro. Il problema è che tutti gli eroi tristi rimangono eroi. E lo rimangono per sempre. Probabilmente perché, ai nostri tempi, gli eroi si costruivano con poco o meglio, non si costruivano proprio. Giggiriva era immortale, doveva esserlo. Ed era l’orgoglio della Sardegna, quando l’orgoglio aveva un suo peso specifico, era riscatto verso tutti e contro tutti. Poi, da grande le cose le vedi da un altro orizzonte e capisci che per vincere gli scudetti non bastava giggiriva. Però aiutava. Io me lo ricordo Riva, come ricordo gli altri che fecero l’impresa: Albertosi, Martiradonna, Cera e Greatti, Domenghini e Gori, un giuramento eterno c’è nei nostri cuori. Avevo il disco e lo avevo imparato a memoria. Riva era il cannoniere: quando tira il rigore fa tremare il portiere. Scorrono come lente immagini ossidate e lontane quelle dove Giggiriva segnava ed esultava, al Sant’Elia come in Messico, in Austria come in Francia e io a guardare e sistemare le figurine. Quelle doppie da scambiare, quelle triple da giocarcele a “creus e crastu”. Gigi Riva da Leggiuno ha compiuto sessantanove anni. Che sono, in fondo solo quindici più dei miei. Auguri. Io me lo ricordo ancora quando correva all’ala sinistra e prendeva la mira e non guardava e tirava e segnava ed esultava. Non aveva neppure un tatuaggio Giggiriva. Non ne aveva bisogno. Aveva molti segni d’affetto tra la pelle e il cuore. Auguri Gigi, cassetto dolce della mia infanzia. Auguri architetto, costruttore di traiettorie tra il pallone e l’emozione.
Gentile Signor Stefano Lubrano, capisco che potrà sembrare imbarazzante ricevere una lettera da un cittadino algherese non più residente nella città catalana perché in trasferta per lavoro. Sono, probabilmente, la persona meno adatta per chiedergli alcune cose ma, seppure non chiamato in causa come residente, mi chiamo in causa come algherese in quanto, l’origine è come un tatuaggio che ci portiamo sulla pelle e resta come segno indelebile. Sono algherese. Come lei. Lo sono per circostanze complicate ma lo sono, sopratuttto perché mi sento profondamente algherese. Ho dentro il rumore del maestrale, diverso da quello di Cagliari – città dove adesso risiedo – ho nel mio orizzonte Capo Caccia e non la sella del diavolo, porto in tasca tutti i miei ricordi che mi costringono a pensare e sentire Alghero dentro. Pensi, ci ho ambientato anche i miei due libri e il mio personaggio, il Magistrato Claudio Marceddu è un algherese convinto. Un po’ come me. Signor Lubrano, questa lunga premessa per fargli capire il mio amore per la città, per la gente, per le vie, per il mare, per tutto ciò che rappresenta Alghero. E per provare a spiegare la sua disattenzione alle cose, la sua totale mancanza di rispetto per la gente e per i problemi della nostra città. Non è il solo. E’ vero. Sedici mesi fa era stato presentato come il nuovo (parola di cui francamente diffido: nuovo di che e rispetto a chi e a che cosa?) come la soluzione a tutti i problemi, come la possibilità di portare una ventata diversa ad un comune (meglio, a “la comune” come si dice in maniera bellissima ad Alghero) travagliato e “alljuato” (locuzione intraducibile ma rende l’idea di una città totalmente innamorata del suo lezioso e dolcissimo far niente, se non prendersi il sole e alljuarsi). Insomma, questo era stato detto e, detto fra noi, non ci avevo creduto. Queste operazioni strane di persone che, come lei aveva dichiarato di aver votato – da giovane, per carità – per Berlusconi mi aveva sinceramente spiazzato. Mario Bruno però garantiva per lei e il PD per tutti. Già, il PD che, ad Alghero non mi sembra, almano in questi ultimi tempi, una grandissima garanzia. Ci si doveva occupare del palazzo dei congressi, della marea gialla, del nuovo modo di fare “turismo”, nel dover dare risposte ad una città sempre più avvitata nella crisi e nei ricordi di “porta sarda del turismo”. Ci si doveva occupare del META, del parco di Porto Conte (in questo caso se ne è occupato, eleggendosi presidente, carica a cui, non mi pare abbia rinunciato), della green economy, dei giovani, di Surigheddu. Niente. Signor Lubrano. Non è successo niente. Si è assistito, invece, ad una girandola sensazionale di parole, di richieste, di rifacimenti, di presentazioni di nuove giunte con nuovi nomi (la parola nuovo continua a non convincermi) e, da Cagliari, dove vivo, quelle parole giungevano vuote, inutili, lontane. Abbiamo perso. Tutti. Gli algheresi che hanno creduto in lei, quelli che lo hanno indotto a candidarsi nel centro sinistra, quelli che lo hanno votato, quelli che hanno aspettato un posto di assessore e non lo hanno avuto, quelli che non hanno votato e per rinuncia hanno determinato la sua vittoria, quelli che dicono – adesso – lo avevamo previsto (come me). Insomma, sconfitta generale. Signor Lubrano, le chiedo, gentilmente, di provare a ritornare cittadino e chiedersi, lei insieme a tutti i consiglieri di questa città silente, rattrappita, piccola, incapace di disegnare orizzonti, se tutto questo ha un senso, se è lecito non riuscire a pianificare e portare avanti un progetto, se è lecito chiudersi ostinatamente in scelte che tutti reputavano sbagliate, se è lecito essere giunti a questa conclusione. Capisco, dirà che la colpa non è sua. E gli altri diranno il contrario ed altri ancora ed altri ed altri. Quanto mi rattrista questo nuovo modo di fare politica che in sedici mesi diventa vecchio e stantio. Credo che lei, signor Lubrano sia una persona stimabilissima, gentile, pacata, onesta. Ma, a quanto pare non è bastato. E’ mancata, probabilmente la passione per un mestiere complesso e difficile che dovrebbe essere gestito come un capo operaio in una grande officina. Un’officina dove bisogna saper riconoscere tutti i motori del motore. Ma non solo: bisogna saper riconoscere gli odori e avere le mani sporche di grasso. Lei, in questo, ha fallito. Mi rammarica, davvero, dover scrivergli questa lettera che giro anche a qualche algherese per eventuali riflessioni. A meno che tutti gli algheresi, per colpa di questa estate quasi infinita, siano ancora terribilmente e felicemente “alljuati”. Con pacata tristezza idonea alla mediocrità, Giampaolo Cassitta
Le canzoni servono. A miscelare i ricordi, a catapultarci negli occhi di altri, a disegnare oceani e mille lune del nostro immaginario infinito, ludico, onirico. Le canzoni raccontano. Si ascoltano e si riascoltano. E riportano sempre elementi nuovi. I ritornelli si imparano e si cantano e si strimpellano. Le canzoni si amano. Perché sono la scenografia della nostra vita. Il contorno ai nostri attimi, le parole dei nostri silenzi. Ecco perché provare a raccontare canzoni ha il senso di poter ripercorrere il solco dei pensieri. Le canzone sono il seme dei nostri sogni.
Le canzoni si costruiscono. Probabilmente prima si intagliano le parole e poi, probabilmente, ci si mette la musica. Oppure il contrario. Oppure insieme. Questa canzone è il risultato felice di parole apparentemente incomprensibili “io con le mani di giunco nella mia verginità”. Ma, al di la dell’ermetismo degregoriano, soprattutto di questo album uscito nel 1974, questa è una canzone sublime. E’ una canzone di viaggio: “io sono stato dove tu mai” con l’aureola incestuosa delle chitarre classiche con un giro armonico inconsueto, dolcissimo e terribile, e con piccoli bonghi sottotraccia. Nient’altro. E la voce quasi stridula di un giovanissimo Francesco De Gregori. Questa è una canzone di lotta. Almeno per me. Quando l’ho sentita, per la prima volta era a casa di Francesco. Barba incolta e con poche speranze. Sapeva scrivere e disegnare molto bene Francesco. Ed era fissato con le scritte sui muri. Voleva, a tutti i costi colorare di rosso tutti i palazzi di Alghero. Me lo diceva quasi tutti i giorni. Ma quel giorno, a casa sua, si era fissato: quella notte si doveva dipingere il muro di via Carducci, dove abitava un fascista e scriverci “Almirante Boia”. Io ci ridevo e affermavo che non l’avrei mai fatto. Non era per me. E poi, non mi sembrava un’impresa così mirabile. Per Francesco era un urlo sguaiato, una forza sublime per dire che noi c’eravamo. Era il 1975. Avevo sedici anni, barba improbabile e occhi già in comproprietà con degli occhiali a goccia. Terribili. Sul letto un LP. Osservai quella copertina. La pecora. Una pecora cattolica pensai. De Gregori. Mai sentito. Francesco continuava a parlare della rivoluzionaria forza dello scritto su Almirante. Le masse sarebbero state felici. Le masse. Misi sul piatto del suo stereo “reader’s digest” per il quale aveva pagato solo la prima rata e si vantava di questo esproprio proletario, e io che mi vergognavo di aver pagato tutte le rate. Poi dopo Niente da capire, cercando un altro Egitto, arrivò Dolce amore del Bahia. Quel titolo, quelle chitarre, quelle parole: ieri ho incontrato la mia formica, mi ha detto che sono pazzo. Bella pensai, belle parole. Soprattutto incomprensibili. Io non ricordo che occhi avevi l’ultima volta che ti ho insultato. La mia canzone, mi dissi. La mia terribile canzone. Cominciai a toccare il mondo con quelle mani di giunco, cominciai a ricercare quegli occhi, a provare ad annusare quel dolce amore del Bahia. Francesco continuava a parlare di Almirante boia. Dolce amore del bahia. “Almirante Bahia” dissi. “Ecco la vera rivoluzione”. Francesco mi guardò e mi disse che ero pazzo. Certo. Ero pazzo ma io sono stato dove tu mai. Così è accaduto. Francesco quella notte passò per via Carducci e scrisse sul muro paglierino “Alimante Boia”. Ci passai la mattina successiva. Mi guardai attorno. Leggevo e rileggevo. E mi veniva in mente Almirante Bahia. Dolce amore del Bahia me la porto ancora dentro, insieme a Francesco che oggi non c’è più e non c’è più neppure quella sua scritta così lontana e superata. E’ rimasta la canzone che gira molto spesso dentro le mie orecchie. Quella musica, quelle chitarre, quei bonghetti. Sinceramente non ricordo che occhi aveva l’ultima volta che l’avevo incastrata, ma sono stato in luoghi dove lei mai.
Ho lavorato, nel 1978, a Baia Sardinia in un albergo dove mi occupavo, da bagnino, della spiaggia e della piscina. Avevo diciannove anni e spensieratezza da vendere. Lavoravo tutto il giorno in un contesto ameno e decisamente con più opportunità rispetto ai miei colleghi cuochi, camerieri al ristorante o al piano. Acquistavo, tutti i giorni Il Manifesto, ogni settimana l’Espresso e anche Panorama (a quei tempi Panorama era un altro settimanale). Avevo, inoltre molti libri sul bancone del piccolo bar, in piscina. Tra questi, scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Era un periodo molto contestatore e tosto. Lavoravo in radio, mi occupavo di inchieste e di contro-informazione. Amavo i poeti maledetti e come Faber, mi innamoravo di tutto. Quel lavoro estivo – da giugno a settembre inoltrato – era utile per potermi pagare la retta all’Università. Questo mi faceva sorridere e inorgoglire. Da buon gramsciano mi piaceva l’idea che, in fondo, la cultura era a carico dei ricchi, erano loro, con i loro vizi, a pagare la mia laurea. Almeno così pensavo dentro le idee confuse di quegli anni. Era l’anno dei mondiali, quelli dell’Argentina e nel mio albergo c’erano Pruzzo e Zoff, reduce da due pappine prese contro l’Olanda e considerato da tutti un portiere sul viale del tramonto. Nel 1982, a quarant’anni , vinse il mondiale, da capitano. Baia Sardinia era un fritto misto. Di giorno i turisti ad abbronzarsi, nel primo pomeriggio e a notte ormai inoltrata, i lavoratori “sardi” a bere birrette nel bar della piazzetta. Giri, peraltro, che costavano abbastanza. Mi innamorai di Fabrizia. Di Milano, figlia di un piccolo imprenditore con una Maserati verde cristallo e una madre stronza al punto giusto. Una sera mi invitarono a casa, per cena. Ero titubante, i padroni, quelli che combattevo, mi accoglievano a casa loro. Il Paolo mi chiamavano. E non mi piaceva. Ma Fabrizia era carina, molto carina per i miei diciannove anni e il colore dell’amore è un arcobaleno variopinto tutto da interpretare. Insomma, ci andai a quella cena. Nonostante fossi comunista e, probabilmente, perché ero comunista. Mi posero molte domande alle quali garbatamente risposi. Ero un comunista molto educato, fin da piccolo non mi piaceva urlare. Loro, i ricchi, usavano invece le parolacce, ridevano sguaiatamente, erano “rozzi”, ma ci tenevano a costruire le distanze tra me e loro. Io, a dire il vero, cercavo di accorciare le distanze tra me e Fabrizia. Il resto mi interessava relativamente. Quando il padre, ad un certo punto, con un bicchiere di bourbon (beveva molto, il padre) con occhi lucidi, piccoli e inclini alla cattiveria disse: “Ma sai, siete fortunati che arriviamo noi. Voi avete il lavoro, fate i soldi, almeno per qualche mese vi divertite. Poi, andiamo via e cala il sipario e ritornate al vostro mortorio di sempre”. Siamo un teatro, pensai in quel momento. Ma non siamo attori che recitano una parte. O forse si. Lo osservai come si guarda uno scoglio in attesa di un’onda che lo sciacqui: con serena contemplazione. “Non siamo fortunati”, dissi ad un tratto. “Noi siamo i figli di questa terra dove è possibile trascorrere le vacanze. Le vostre vacanze. Vede, il rispetto è fondamentale nei rapporti tra le persone. Rispetto le sue vacanze e le sue idee, rispetto il suo atroce sorriso e il suo bourbon, rispetto le parole i contorni delle frasi ma non accetto di essere una comparsa delle sue commedie. Quando cala il sipario, come dice lei, noi restiamo. E’ lei che parte e ritorna ai suoi grigi tramonti.” Mi alzai e salutando, sempre con molta delicatezza , aggiunsi: “Questa terra è la mia terra. Voi siete gli ospiti. Noi siamo gli attori principali e voi le comparse. Sono cresciuto dentro questi monti e questo mare e continuerò a viverci. Studierò affinché tutto questo venga preservato e condiviso con voi. Il suo modo di parlare, il suo linguaggio da azienda prevede un semplice uso delle cose e delle persone. Lei è una persona inespressiva come uno slogan stantìo.” Me ne andai. Neppure un bacio a Fabrizia. Niente. Tornai nella mia stanza a leggere e attendere. Non ci sarà nel futuro della nostra terra nessuno che verrà, la userà, la stringerà senza amarla e poi la abbandonerà. Questo mi dicevo pensando agli occhi di Fabrizia. Quel mondo era un abbraccio non dato, un sorriso mai condiviso, un amore mai sbocciato. Un mondo lontano. Da rispettare, con circospezione e senso del distacco.
Dedicato a chi, nei giorni scorsi, ha ben pensato di insultare la terra e gli uomini dove, per due mesi all’anno lavora, grazie alla posizione, alla bellezza che gli altri, prima di lei, hanno preservato. Quando si rispetterà il suolo si comprenderanno gli uomini, le storie e i solchi di vita che quei luoghi hanno rappresentato e rappresentano per tutti. La Sardegna è un’isola, uno scoglio dell’Anima. Preservarlo è un dovere, anche per chi questo scoglio non lo merita."