Il racconto è apparso sull'Unione Sarda del 20-12-2012
Ho aspettato che spiovesse. Perché sembrava brutto camminare per strada ad incrociare le gocce che lavano la faccia ma non fanno niente per ripulire i pensieri. Ho aspettato che diventasse verde.
Per sicurezza, perché non è facile guardare in molte direzioni e provare ad arrivare dall’altra parte con le auto che ti ronzano vicino e che ti suonano.
Non è facile.
Anche se non è la cosa peggiore.
Ho aspettato che quell’auto facesse la manovra per il parcheggio.
Lei, una donna corpulenta e molliccia, aveva la faccia di chi aveva atteso per ore quei pochi metri quadri che non avrebbe diviso con niente e con nessuno. Doveva assolutamente parcheggiare e aprire il cofano e infilare molti pacchi colorati in questa umida sera di fine dicembre.
Vigilia di Natale.
Ho aspettato che si spostasse.
Era in doppia fila, trafelato, quasi scivolava nell’asfalto viscido, aveva scarpe non abituate all’acqua e non abituate a sopravvivere.
Aveva belle scarpe.
Nere.
Come l’auto.
Nera e esagerata.
Poteva attraversare deserti e dune immense con quelle ruote. Ed invece stava lampeggiando in seconda fila. Quasi che quelle luci fossero lacrime di disperazione. Di solitudine. Ho aspettato che finisse di telefonare. La vedevo, giovane e agitata con il suo smart phone, ondulante e velocissima nelle parole e con le mani che disegnavano cerchi in mezzo ad una pioggia che, di tanto in tanto ritornava. Aveva l’aria di una ragazza sicura, certa, forte e regalava sguardi con occhi di una donna che sarebbe rimasta sola.
Ho aspettato che fischiasse.
Troppe auto in doppia fila e troppa confusione. Ma vedevo solo che parlava e rideva e smanettava con il suo cellulare e provava a riprendere in mano una situazione che poteva essere sua. Ma non c’era, nelle sue mosse, nessuna passione. Neppure una parola che riscaldasse l’anima.
Ho aspettato che si fermassero che provassero, almeno per un attimo, a regalare sguardi protesi in altri mondi e in altre situazioni.
Niente.
Sembrava che passassero sulla vita senza neppure respirare.
Ho aspettato, atteso, osservato.
Ho provato a non guardare l’orologio con la segreta speranza che il tempo non mi cercasse.
Ho messo le mani in tasca.
Il foglio c’era.
C’era la data e la firma e l’ora.
Ho passeggiato a lungo nel viale infinito e corto e ho riflettuto a lungo sul tempo e sulla lentezza delle cose.
Ho acceso una sigaretta e ho bussato. Ho aspettato, atteso il click del portone e l’ho guardato mentre lentamente si chiudeva dietro le mie spalle. Ho guardato tutto e mi son guardato dentro. Ci vuole molto coraggio a ritornare su questi passi. Ci vuole molto coraggio a rientrare alla vigilia di Natale.
Ma come potevo lasciare solo Mohamed, il giorno di Natale?
Lui è musulmano. Ha un’altra festa. Vero. Ma è il mio compagno di camera e non si lascia in una piccola camera un compagno di avventure.
C’è molta follia nelle mie scelte.
Vero.
Molta follia.
Ma anche molta coerenza.
Ho dato la parola. A molte persone. Mohamed compreso. Ecco perché ho deciso di passare in cella con lui il mio Natale. Di rientrare la vigilia di Natale dal permesso premio. Tanto, la fuori, sono tutti molto soli e non hanno un Mohamed con cui sorridere. Non hanno il calore delle piccole cose. Non sanno che Natale, in carcere, ha pochi colori. Ma un calore che riempie gli occhi di speranza. Che Mohamed chiama gocce di pioggia. E ci inzuppa il panettone.
Dedicato a tutti quelli che vivono quotidianamente la sofferenza del carcere, a quelli che la sfiorano e a quelli che non la conoscono. Buon Natale a tutti i detenuti, i familiari, gli operatori, i volontari. A quel mondo multiforme e colorato che riesce ancora a stringere le mani e sentirne il calore. E a confondere pioggia e lacrime. E speranze.
Buon Natale. Semplicemente. Come questa piccola storia complicata. E vera
Ho aspettato che spiovesse. Perché sembrava brutto camminare per strada ad incrociare le gocce che lavano la faccia ma non fanno niente per ripulire i pensieri. Ho aspettato che diventasse verde.
Per sicurezza, perché non è facile guardare in molte direzioni e provare ad arrivare dall’altra parte con le auto che ti ronzano vicino e che ti suonano.
Non è facile.
Anche se non è la cosa peggiore.
Ho aspettato che quell’auto facesse la manovra per il parcheggio.
Lei, una donna corpulenta e molliccia, aveva la faccia di chi aveva atteso per ore quei pochi metri quadri che non avrebbe diviso con niente e con nessuno. Doveva assolutamente parcheggiare e aprire il cofano e infilare molti pacchi colorati in questa umida sera di fine dicembre.
Vigilia di Natale.
Ho aspettato che si spostasse.
Era in doppia fila, trafelato, quasi scivolava nell’asfalto viscido, aveva scarpe non abituate all’acqua e non abituate a sopravvivere.
Aveva belle scarpe.
Nere.
Come l’auto.
Nera e esagerata.
Poteva attraversare deserti e dune immense con quelle ruote. Ed invece stava lampeggiando in seconda fila. Quasi che quelle luci fossero lacrime di disperazione. Di solitudine. Ho aspettato che finisse di telefonare. La vedevo, giovane e agitata con il suo smart phone, ondulante e velocissima nelle parole e con le mani che disegnavano cerchi in mezzo ad una pioggia che, di tanto in tanto ritornava. Aveva l’aria di una ragazza sicura, certa, forte e regalava sguardi con occhi di una donna che sarebbe rimasta sola.
Ho aspettato che fischiasse.
Troppe auto in doppia fila e troppa confusione. Ma vedevo solo che parlava e rideva e smanettava con il suo cellulare e provava a riprendere in mano una situazione che poteva essere sua. Ma non c’era, nelle sue mosse, nessuna passione. Neppure una parola che riscaldasse l’anima.
Ho aspettato che si fermassero che provassero, almeno per un attimo, a regalare sguardi protesi in altri mondi e in altre situazioni.
Niente.
Sembrava che passassero sulla vita senza neppure respirare.
Ho aspettato, atteso, osservato.
Ho provato a non guardare l’orologio con la segreta speranza che il tempo non mi cercasse.
Ho messo le mani in tasca.
Il foglio c’era.
C’era la data e la firma e l’ora.
Ho passeggiato a lungo nel viale infinito e corto e ho riflettuto a lungo sul tempo e sulla lentezza delle cose.
Ho acceso una sigaretta e ho bussato. Ho aspettato, atteso il click del portone e l’ho guardato mentre lentamente si chiudeva dietro le mie spalle. Ho guardato tutto e mi son guardato dentro. Ci vuole molto coraggio a ritornare su questi passi. Ci vuole molto coraggio a rientrare alla vigilia di Natale.
Ma come potevo lasciare solo Mohamed, il giorno di Natale?
Lui è musulmano. Ha un’altra festa. Vero. Ma è il mio compagno di camera e non si lascia in una piccola camera un compagno di avventure.
C’è molta follia nelle mie scelte.
Vero.
Molta follia.
Ma anche molta coerenza.
Ho dato la parola. A molte persone. Mohamed compreso. Ecco perché ho deciso di passare in cella con lui il mio Natale. Di rientrare la vigilia di Natale dal permesso premio. Tanto, la fuori, sono tutti molto soli e non hanno un Mohamed con cui sorridere. Non hanno il calore delle piccole cose. Non sanno che Natale, in carcere, ha pochi colori. Ma un calore che riempie gli occhi di speranza. Che Mohamed chiama gocce di pioggia. E ci inzuppa il panettone.
Dedicato a tutti quelli che vivono quotidianamente la sofferenza del carcere, a quelli che la sfiorano e a quelli che non la conoscono. Buon Natale a tutti i detenuti, i familiari, gli operatori, i volontari. A quel mondo multiforme e colorato che riesce ancora a stringere le mani e sentirne il calore. E a confondere pioggia e lacrime. E speranze.
Buon Natale. Semplicemente. Come questa piccola storia complicata. E vera