I preti, a volte, sanno essere ingombranti perché scelgono strade difficili e con troppe salite o perché preferiscono discese ripide senza freni. I preti rispondono alla coscienza e al Dio che ha, comunque un disegno per tutti imperscrutabile e che non coincide il più delle volte con i disegni dell’uomo. Don Pierino Gelmini è stato un prete complesso e di difficile lettura, almeno a prima vista. Idolatrato da molti dei suoi ragazzi della comunità incontro, amato – a volte a denti stretti – da capi e capetti del vecchio centro destra, inviso dagli intellettuali di sinistra e radicale. Qualcuno lo ha definito un “furbo”, uno scaltro, un cialtrone, un pregiudicato che ha conosciuto il carcere, un miracolato che lo ha scampato negli ultimi attimi della sua vita conclusasi a 89 anni. Altri lo hanno ricordato invece come il precursore della lotta alla tossicodipendenza, il coraggioso che ha aperto le sue comunità in tutta Italia salvando migliaia di ragazzi. Non voglio (non è questo il contesto) discutere sui salvataggi “reali” della comunità, di tutte le comunità, voglio però restituirvi un mio personale ricordo di Don Pierino che ho conosciuto, per ragioni professionali nel 2000, ad Alghero. Era stato invitato nel carcere e dopo l’incontro con i detenuti (legato ad una serie di manifestazioni relative all’anno santo) fummo invitati ad un pranzo dove oltre agli invitati erano presenti anche i ragazzi delle sue comunità nel Nord Sardegna (oggi tutte chiuse). Eravamo tanti. Ci sedemmo io e Lucia Castellano (allora direttore del carcere di Alghero, oggi consigliere regionale del PD in Lombardia) nel tavolo insieme ai ragazzi. Gli antipasti erano sul tavolo ma nessuno osava toccarli. Si aspettava tutti il Don. Ovvero Don Pierino che arrivò, come le star, con qualche minuto di ritardo. Tutti si alzarono e noi con loro, tutti applaudirono e in un’atmosfera da stadio cominciarono le ovazioni per il Don. Si pranzò e don Pierino fu cordiale e dispensò molti aneddoti e qualche benedizione. Mi ritorna molto spesso in mente questa storia perché ho avuto modo, sempre per ragioni professionali, di conoscere molti responsabili di comunità di recupero per tossicodipendenti, molti di loro erano e sono preti. Ho compreso che al di la della buona volontà, dell’interesse sul recupero dei giovani ci sono altri interessi, non ultimo quella della notorietà, dell’essere protagonista più della droga stessa, più della solitudine, più della disperazione. Ho sempre pensato che lo sguardo di chi non ara la terra con la dovuta passione è smorto, uno sguardo in bianco e nero. Come le ovazioni, i rumori e le grandi promesse. I preti, a volte, sanno essere ingombranti. Quando partono, spero volgano lo sguardo indietro e, macinando gli ultimi chicchi della loro esistenza, si preparino qualche giustificazione per la loro vanagloria che, per san Francesco non era un peccato da poco. Caro Don Gelmini, la terra ti sarà sicuramente lieve e cara e saprà essere più silenziosa e intima di certe ovazioni che non aiutano la causa. A volte gli errori servono per dimostrare, una volta di più che siamo tutti peccatori. Nessuno escluso.
I preti, a volte, sanno essere ingombranti perché scelgono strade difficili e con troppe salite o perché preferiscono discese ripide senza freni. I preti rispondono alla coscienza e al Dio che ha, comunque un disegno per tutti imperscrutabile e che non coincide il più delle volte con i disegni dell’uomo. Don Pierino Gelmini è stato un prete complesso e di difficile lettura, almeno a prima vista. Idolatrato da molti dei suoi ragazzi della comunità incontro, amato – a volte a denti stretti – da capi e capetti del vecchio centro destra, inviso dagli intellettuali di sinistra e radicale. Qualcuno lo ha definito un “furbo”, uno scaltro, un cialtrone, un pregiudicato che ha conosciuto il carcere, un miracolato che lo ha scampato negli ultimi attimi della sua vita conclusasi a 89 anni. Altri lo hanno ricordato invece come il precursore della lotta alla tossicodipendenza, il coraggioso che ha aperto le sue comunità in tutta Italia salvando migliaia di ragazzi. Non voglio (non è questo il contesto) discutere sui salvataggi “reali” della comunità, di tutte le comunità, voglio però restituirvi un mio personale ricordo di Don Pierino che ho conosciuto, per ragioni professionali nel 2000, ad Alghero. Era stato invitato nel carcere e dopo l’incontro con i detenuti (legato ad una serie di manifestazioni relative all’anno santo) fummo invitati ad un pranzo dove oltre agli invitati erano presenti anche i ragazzi delle sue comunità nel Nord Sardegna (oggi tutte chiuse). Eravamo tanti. Ci sedemmo io e Lucia Castellano (allora direttore del carcere di Alghero, oggi consigliere regionale del PD in Lombardia) nel tavolo insieme ai ragazzi. Gli antipasti erano sul tavolo ma nessuno osava toccarli. Si aspettava tutti il Don. Ovvero Don Pierino che arrivò, come le star, con qualche minuto di ritardo. Tutti si alzarono e noi con loro, tutti applaudirono e in un’atmosfera da stadio cominciarono le ovazioni per il Don. Si pranzò e don Pierino fu cordiale e dispensò molti aneddoti e qualche benedizione. Mi ritorna molto spesso in mente questa storia perché ho avuto modo, sempre per ragioni professionali, di conoscere molti responsabili di comunità di recupero per tossicodipendenti, molti di loro erano e sono preti. Ho compreso che al di la della buona volontà, dell’interesse sul recupero dei giovani ci sono altri interessi, non ultimo quella della notorietà, dell’essere protagonista più della droga stessa, più della solitudine, più della disperazione. Ho sempre pensato che lo sguardo di chi non ara la terra con la dovuta passione è smorto, uno sguardo in bianco e nero. Come le ovazioni, i rumori e le grandi promesse. I preti, a volte, sanno essere ingombranti. Quando partono, spero volgano lo sguardo indietro e, macinando gli ultimi chicchi della loro esistenza, si preparino qualche giustificazione per la loro vanagloria che, per san Francesco non era un peccato da poco. Caro Don Gelmini, la terra ti sarà sicuramente lieve e cara e saprà essere più silenziosa e intima di certe ovazioni che non aiutano la causa. A volte gli errori servono per dimostrare, una volta di più che siamo tutti peccatori. Nessuno escluso.
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Ricomincio da tre l’ho visto troppe volte. Ne conosco i passaggi essenziali, le battute fulminee, gli sguardi di Gaetano /Troisi, quel suo napoletano incomprensibile e poeticamente illuminante, le battute, i silenzi, gli spazi fatti di piccole cose, quelle frasi divenuti proverbi, modi di dire: “Massimiliano, troppa libertà. Meglio Ugo, perchè con quel nome il bambino non fugge oppure, se non lo vogliamo far diventare troppo represso, lo chiameremo Ciro.” C’è quella Napoli che ho amato da sempre, nel teatro di Eduardo, nei vicoli di Spaccanapoli, nelle serate passate in una lunghissima estate del 1978 a Fuorigrotta dove imparai la bellezza di una città incredibile da amare e impossibile da odiare. Napoli ha gli occhi Massimo Troisi, la sua esilarante tristezza, un ossimoro perfetto. Massimo Troisi ci ha lasciato il 4 giugno del 1994. Aveva 41 anni. Ne avrebbe 61 e molte cose da raccontare. Ci ha lasciato camminando sulla terra molto leggero, con orme quasi impalpabili. Ci ha lasciato con pezzi memorabile che, almeno una volta al mese riguardo. Provo ad immaginare cosa sarebbe oggi Massimo, dentro questo mondo complicato più delle sue parole, in questa Napoli meno colorata e più arroccata dentro una tristezza dilagante. Mi chiedo sempre: ma perché uno si costruisce il suo Pantheon, perché ha l’atroce necessità di abbracciare persone mai viste e mai conosciute: un attore, uno scrittore, un musicista, un poeta. Perché insieme a loro si sta bene. Io, con Massimo Troisi, ci ho convissuto per anni e ancora bussa alla mia porta con quei suoi riccioli pasticciati, quelle frasi terribilmente incomprensibili, quella faccia dolce e intensa di Ricomincio da tre, di scusate il ritardo, di pensavo fosse amore, di Non ci resta che piangere, del Postino. Mi guarda sempre con quella buona dose di malinconia e con un lieve sorriso mi sussurra: “Ricordati che devi morire. ‘Mo me lo scrivo, Massimo. Mo me lo scrivo”. C’erano molte cose da raccontare in queste giornate livide ma stasera sto con Massimo. E con il suo pazzo e incandescente cuore.
Ciao Massimo, non ci resta che ricordarti. Ho annusato il cielo prima di scrivere queste parole. E ho controllato che il silenzio fosse univoco, che tutto ricominciasse lentamente a ripartire. Perchè probabilmente era quello che si aspettava ed è la cosa giusta. Tito Villanova era un allenatore di calcio. Tentava di unire con un pallone il filo della passione. Mestiere complicato. E bellissimo. Lavorava con Pep Guardiola in un Barcellona irripetibile, come sono inarrivabili certi versi di grandi poeti. Quel gioco, quella visione così geometrica e così anarchica della sfida rimarrà per sempre nella storia del calcio. E’ morto a 45 anni. Di tumore. Non si è mai arreso e ha provato ad aggrapparsi alla vita anche nei tempi supplementari. Non ce l’ha fatta. Il cielo, probabilmente non poteva attendere. Magari da quelle parti giocavano una finale importante. E uno come Tito Villanova, magari serviva. Per segnare un gol alla vita. O meglio, all’eternità. Ciao Tito. E grazie.
Ho incontrato l’altra sera un conoscente che mi ha lasciato il suo indirizzo: “Abito in via Alagon”. “Ah, una via nobile, il marchese di Oristano e conte del Goceano”. Mi ha guardato come si osserva un giapponese alla ricerca di un ristorante francese tra le vie del quartiere Marina di Cagliari. Con una certa riluttanza. Non lo conosceva. Come pochi conoscono Ramon Cravellet, Mons. Cappai, Cocco Ortu, Giovanbattista Tuveri. Solo per ricordarne alcuni. Viviamo intorno a nomi che non conosciamo. Oppure sono dei “classici”: da Deledda a Manzoni, a Mazzini a Garibaldi. Vie che esistono praticamente in tutte le città. Lo studio della toponomastica di una città ha qualcosa di molto interessante. Si scoprono stratificazioni antropologiche, sociologiche e politiche. Ci sono città, Bologna, per esempio, che ha un connotato legato alla sinistra “ortodossa” con vie di altri tempi “via Stalingrado”, ci ricorda quel periodo storico ormai appartenente al secolo scorso. Ci sono poi città che utilizzano nomi di fantasia: Via delle nasse, via del Corallo o personaggi che c’entrano molto poco con la nostra storia: Via fondazione Rockfeller è, indubbiamente un ringraziamento ad un ricco signore che potevamo sicuramente evitare. Poi ci sono le vie e le piazze del dolore che delimitano un ricordo e un pezzo di storia: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Via Fani, Via Caetani, Via d’Amelio. Le vie raccontano la storia, le geografia e l’antropologia di un popolo. Ma, molte volte, non raccontano il popolo. Ad Alghero, le vecchie vie ricordavano i mestieri: Carrer de la pretura, Carrer del Buttaiu, a Oristano la conformazione della strada stessa: Via Dritta. Ci sono poi i luoghi con nomi ufficiali e rinominati dagli stessi abitanti: la piazzetta ad Alghero non ha un nome, ma tutti sanno dove si trova, Montecitorio è la piazza centrale di Siligo, dove i vecchi si riuniscono per discutere e che in dialetto è comunemente chiamata “carrela e piatza”, unendo quasi antropologicamente i due concetti vicini ma non uguali: la piazza e la via. Mi sono ricordato di un vecchio episodio di quando, da ragazzino, mi recavo all’ufficio anagrafe per dei documenti. A quei tempi non esisteva l’autocertificazione e anche per dimostrare di essere al mondo era necessario, perché qualche ufficio lo chiedeva, il certificato di “esistenza in vita”. Ad Alghero, presso l’ufficio anagrafe c’era il Signor Sechi. Si facevano delle file immense, dopo aver depositato la propria richiesta in un cestino di vimini che veniva svuotato di tanto in tanto. La gente sbuffava, parlava, rideva e fumava. Perché ai quei tempi nei locali pubblici era consentito fumare (sino al 1975, per la verità). Il signor Sechi, serafico, inflessibile, chiamava la persona depositaria del foglietto, controllava, pigiava dei pulsanti di un’ enorme macchina dove rumoreggiavano delle piccole targhette che prendeva in mano e cominciava a chiedere: Nascita per te? E quello rispondeva affermativamente. Bastava allora solo una targhetta di metallo che si infilava sotto una macchina che pressava il foglio e il certificato era pronto. Bollino e duecento lire. Stato di famiglia? Allora le targhette erano tante quante i componenti della famiglia. Tutti sentivano il rumore delle targhette e il signor Sechi conosceva tutti. Chiedeva del fratello, della sorella, sapeva che qualcuno aveva cambiato domicilio, conosceva chi si era sposato, i figli appena nati. Alghero, per lui era una grande famiglia. E aveva un sorriso docile per tutti. E’ da una vita che non vado in un ufficio anagrafe. Non è più quasi necessario. Non so neppure se ad Alghero quell’ufficio sia ancora in via Marconi e immagino, comunque, che le targhette metalliche non esistano più surclassate da moderni computer. Non ho più visto il signor Sechi. Sicuramente sarà in pensione e si ricorderà di molti algheresi che teneva in mano per “la targhetta”. Ecco, fra tanti anni, dopo la sua morte, sarebbe bello titolare una via di Alghero al signor Sechi: Via Signor sechi, ufficiale anagrafe, piccolo antropologo, profondo conoscitore di molti cittadini algheresi”. Così le città rivivrebbero con chi, davvero le ha calpestate.
la mia grande ora di libertà - dedicato a Fabrizio De André, a quindici anni dalla sua morte.10/1/2014 .La vita, poi, gira come una canzone e ti trasporta nelle arterie dei ricordi, dove il sangue circola e ritorna. Perché le canzoni ricompaiono per saltellarti dentro e ti accompagnano negli scenari della tua esistenza ormai dimenticati. Ci sono musiche e suoni indelebili e ci sono movimenti intorno a quei suoni e a quelle parole che riescono a dipingere di verde anche il deserto più triste. Una canzone, su tutte, la trasporto da anni nella mia particolare saccoccia della memoria. Domani ricorre l’anniversario della morte di Fabrizio De Andrè. (sono, ormai, quindici lunghissimi anni). Le canzoni però girano sempre e restano, come i libri, le fotografie, i sospiri e gli amori. Quelli veri. Quelli che disegnano ferite e le rimarginano con le lacrime dell’affronto. Io amo, terribilmente, Nella mia ora di libertà, la canzone che chiude l’album più bello (a mio parere, certo) di Faber: “Storia di un impiegato”. Mi piace perché è la sceneggiatura di un film. Di un film che io, paradossalmente, ho visto e rivisto nei miei trentuno anni di “galera”. Quella canzone cammina all’interno di ogni carcere da me visitato per lavoro (e ne ho, davvero visitati tanti e non solo in Italia) quella canzone è la colonna sonora all’interno dei passeggi dove vedo spesso detenuti intenti a parlare fitto e camminare velocemente, nella loro ora di libertà. E mi piace l’idea, assurda, fuori misura e dunque bellissima, di uno sciopero da parte dei detenuti, di voler rinchiudere gli agenti nell’ora di libertà. Quella canzone è una sconfitta atroce. Lo so. E’ l’inno di un perdente, ma di un perdente che ha compreso fino in fondo la sua sconfitta: dal suo sogno politico al suo sogno d’amore, in anticipo su ogni stupore. Dentro questa canzone io ci vedo tutto il De Andrè del mondo. Tutto. La sua analisi lucida sui fatti, il suo mescolare politica e poesia, e se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone ecco, spartiamoci la prigione: il non luogo, il non rumore. La non vita. Perché di questo si tratta: saper spartire, saper dividere, saper chiedere una polemica di dignità. Ma c’è, davvero, tutto l’amore del mondo condensato in poche frasi, c’è tutto l’amore del mondo tra un uomo e la sua compagna: “da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio”. C’è tutta la bellezza del mondo, l’accettazione, il rispetto, l’abbraccio di due persone in queste poche e struggenti parole. E quella frase dura, durissima, a disegnare le verità che oggi tutti vediamo, ma dovevamo scriverle nel 1972 per essere oggi credibili. E lo facevano, tra i pochi, De Andrè e Pasolini. Per dire. Quella frase a rappresentare tutta la verità del mondo: non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni. Quella frase finale a rappresentare tutte le frasi del mondo, tutte le vite del mondo, le passioni, gli impegni, le urla del mondo: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.
Ecco. La mia canzone. La ferita che ritorna a ricordare le vecchie cose: le bandiere, le lotte, i sogni, gli scazzi, la voglia di, la voglia per, quel “pagherete caro, pagherete tutto” e tra tutte le grinte, le ghigne e i musi, poche le facce e tra loro lei. Ecco. La mia canzone. Partita dall’adolescenza mi ha accompagnato anche tra le sezioni fredde e buie di un carcere a provare a regalare a qualcuno almeno un’ora di libertà. E di dignità. Ciao Fabrizio. Mi manchi. Maledizione. Però ci sei. Con tutto l’amore che hai potuto, fatto di rabbia e di forza a camminare sempre con destinazione ostinata e contraria. Ho provato a fare questo mestiere anche per colpa di questa canzone. Sono profondamente convinto (ancora, dopo 31 anni) che non possiamo togliere la primavera a chi in galera ci passa giorni duri e solitari. Dovremmo, invece, provare a fargli respirare quell’area leggera, di libertà e di coraggio. Ciao Fabrizio. E grazie. Per la tua grande ora di libertà. Che da tempo è anche mia. Sono quasi convinto che Dio abbia una tavolozza in grado di dipingere la pelle di tutti. Anche perché ha interessi diversi dagli uomini Dio. Non divide, per esempio, il mondo tra bianchi e neri. O gialli, verdi. No. Lui mischia divinamente le tempere, riesce a pasticciare le anime, a mescolare i contorni di tutte le esistenze. Ha le idee chiare, Dio. Non metterebbe in carcere, per esempio, un signore che si batte per la libertà contro la supremazia di una razza, qualsiasi razza, non permetterebbe, nella maniera più assoluta che nessun uomo di nessun colore possa essere buttato in una cella, in un’isola deserta, per ventisette anni. Dio, questo, non lo farebbe. Lo lascerebbe agli uomini che, per sfortuna hanno le idee piuttosto confuse sulla libertà sugli spazi e sul tempo. E sulla dignità. E certi uomini sanno essere terribilmente stupidi, cattivi, insipidi, cinici, ciechi, tanto da confondere i colori con le passioni, le razze con le intelligenze, i pensieri con le apparenze, le convinzioni con le ottusità.
Io conosco il carcere. E conosco il peso di ventisette anni di galera. Ho la consapevolezza del tempo che non scorre e della vita che si consuma senza sforzi. Lo so perché ci ho lavorato e ci lavoro. Perché quel tempo non ha scansioni, non ha termine. So anche che un uomo condannato all’ergastolo ha davanti un lungo calendario dove l’anno non cambia mai, dove non c’è quel dicembre liberatorio, quel dicembre che ci porta alle soglie del nuovo anno, alla speranza. Mandela, per ventisette anni ha contato e ricontato gli attimi, ha rendicontato la sua vita, ha scandagliato le sue parole e le sue convinzioni. Per ventisette anni ha provato a costruire il suo futuro da dentro un carcere, dalla cella 466. Non cerco la retorica dei gesti. Sarebbe semplice. Non ricerco le grandi parole o i magnifici ricordi. Sarebbe logico. Lui, Mandela è stato uomo ed è stato tempo, tavolozza di colori, intensità di sensazioni. Lui, Mandela è stato uomo. Soprattutto. Ha ricercato l’unione dove stagnava l’odio, ha cercato il confronto dove esisteva il contrasto. Mandela ci ha ricodato che occorre una visione, una certezza, una possibilità. Per ventisette anni ha osservato il sole nascere e morire. Lo ha osservato da una cella. In carcere. Per ventisette anni ha capito che il colore del sole è sempre giallo. Anche se visto da dietro una grata. Per ventisette anni ha atteso, ha rimescolato, ha pasticciato il futuro. Un po’ come Dio che si è divertito a costruire un mondo a colori e li ha usati tutti. Ciao Mandela, e scusaci per molte cose, per non aver compreso, per non aver ascoltato, per esserci voltati, come sempre, da altri parti. Però tu c’eri e solo oggi, che non ci sei più, ne sentiamo terribilmente la mancanza. La terra ti accarezzi e il sole ti riscaldi. Noi, proveremo a ripartire. Dai tuoi ricordi, da quei ventisette anni e dalla tua consapevolezza di provarci, sempre, a qualsiasi età. Preferisco un ciao ad un addio definitivo perché così rimani, con quel tuo sorriso e con quelle tue bellissime camicie colorate, vicino al mio orizzonte. Dove non potrai mai scomparire. Poi ci troviamo a contare le foglie. Che cadono. Con un silenzio lieve, sulla panchina della vita. Ad osservare con gli occhi lucidi quel lieve movimento, silenzioso, fermo, risoluto. Le foglie in mezzo ad un vento tiepido a rumoreggiare tra i silenzi che ci avvolgono. Sono questi i momenti in cui ci sentiamo inutili, antichi, sorpassati. Ci troviamo a ricordare, a sorridere dei vecchi ricordi, a rincorrere le antiche facce, i sorrisi e le piccole giravolte di una vita che, inesorabilmente, come un cerino ci consuma. Quando cominciamo a salutare con la mano dove si intravvedono le vene, l’autunno è arrivato. Così, dopo Don Gallo anche Franca Rame a giocare nelle scene dell’infinito. Quando ci rendiamo conto che lo spettacolo, ormai, è in paradiso, significa che stiamo irrimediabilmente invecchiando. Ciao Franca, scintilla di passione, voce forte regolata su chi non aveva voce. Ciao. Lo spettacolo della vita continua anche se davanti alla panchina vedo troppe foglie. Ormai.
Mettiamola così: Andreotti è stata la colonna sonora di gran parte del nostro percorso terreno. Nel senso che c’è sempre stato e sorprende, adesso, la sua dipartita. Credevo non dovesse morire, credevo avesse fatto un patto con qualcuno e non con il Diavolo visto che tutti lo chiamavano Belzebù. Ma lui, imperterrito , continuava a giocare nell’agone politico, continuava a dire che la politica era una malattia e non aveva nessuna intenzione di curarsi. Per me, Andreotti ha rappresentato ciò che ho sempre combattuto ideologicamente in politica: era pragmatico laddove io cercavo l’approfondimento, era complesso dove io volevo semplicità, era cinico mentre io mi innamoravo di tutto. Insomma, non potevamo avere niente in comune. E non lo abbiamo mai avuto. Lui ha rappresentato il potere, quello vero, quello forte, quello nascosto. Era la maschera di Cuccia, di Sindona, di Calvi, del Vaticano, era olio denso che non si spargeva, era odore acre, forte, intenso, un misto tra incenso e ricino, era Evangelisti, Forlani, Moro. Era la democrazia cristiana. Meglio: la democrazia cristiana era, probabilmente, Giulio Andreotti. Non ho mai capito il suo atteggiamento falsamente remissivo, furbescamente adatto a tutte le occasioni. E’ stato filo americano, filo cinese, filo islamico, filo palestinese. Ha fatto, politicamente il filo a tutti. E’ stato per sette volte presidente del consiglio e ha preferito, sempre, tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia. Fino ad oggi. Ha presieduto governi balneari, invernali, della non sfiducia. E’ stato ministro per ventidue volte. Ha conosciuto i segreti del paese, ha contribuito a costruire i segreti. Condannato e assolto ma non in maniera così definitiva e definita. Ha chiesto alla futura moglie di sposarlo in un cimitero. Per dire.
Non ho apprezzato Giulio Andreotti. Era uno che non amava i colori e quindi, non saremmo mai potuti andare d’accordo. Non mi piace chi dice che c’è del buono in ognuno di noi. Significa quindi che c’è anche del cattivo. Non mi piacciono gli addii pilotati, pieni di buone intenzioni. E’ stato un uomo che ha segnato questo paese, che ha contribuito a costruire. Non benissimo. Su una cosa però aveva ragione: il potere logora chi non ce l’ha. Ebbene, bussate alle porte di molti suoi amici democristiani ma, in tempi moderni , bussate alla porta di Occhetto, Veltroni, Bersani. Vi diranno che il divo Giulio in fondo, aveva ragione. Non ci sono epitaffi da regalare. Ideologicamente agli antipodi. E ne sono politicamente soddisfatto. Il divo lascia le scene. Così, con un certo silenzio. Mi son piaciuti i titoli di coda: niente funerali di Stato. In fondo, lui sapeva di essere un uomo di parte, di una certa parte. E non di tutti. Che la terra, in ogni caso, gli sia lieve. Non ci sono ricordi particolari. L’unico potrebbe essere legato alla clessidra della mia vita: altra polvere che passa e l’adolescenza che terribilmente muore. Come quella cena, promessa a Martino da quasi trent'anni. Ci troveremo a rammentare e a camminare sulle vecchie vie della memoria. 11 gennaio 2013) Aveva occhi e voce che riportavano alla riconciliazione. Quegli occhi azzurri e quella voce roca, profonda, intensa, quello sguardo che ricercava sempre l’orizzonte di ogni anima che si trovava davanti. Che fosse un collega o fosse il semplice spettatore che la osservava. Al cinema come in teatro. Una maschera perfetta. Un’attrice completa. L’icona della mia adolescenza. Mariangela Melato era così. Il ricordo dei miei anni ruggenti, la buttana milanese di travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, la maestra elementare che vuole fortemente un figlio che non arriverà in Lo chiameremo Andrea, una metafora degli anni settanta del Grande Vittorio De Sica, ma anche l’intensa interpretazione in Saxofone, un film diretto nel 1978 da Renato Pozzetto, quasi sconosciuto ma che per me, rappresentò la fine dell’adolescenza. Quel corpo solido e soave che si spogliava, quella Melato fuori dagli schemi, quello strano rapporto tra la fantasia e la realtà mi aveva catapultato irrimediabilmente nel mondo dei grandi. L’ho osservata nei suoi piccoli grandi ruoli in tanti film e in pezzi di teatro o in televisione, fino all’ultima e bellissima interpretazione di una grande Filumena Marturano vicino a Massimo Ranieri, ripassato proprio nei giorni di questo ultimo natale. Mariangela Melato era, per me, l’adultità, la certezza che la donna sapeva essere dolce, aggressiva, furba, romantica, gonfia di lacrime che non regalava al primo che passava, modulatrice di voci forte ed impetuose. Mariangela era, più o meno sorella e madre, forse amante e sogno proibito per chi sapeva innamorarsi degli occhi e della voce. E della sensibilità. Ai miei tempi questi erano i canoni della passione. Mariangela Melato quando passava in televisione, nella mia televisione era sempre presente e io ero lì a guardarla, osservarla, a farmi trasportare dalla sua splendida signorilità. Se la classe operaia va in paradiso è giusto riservare un posto anche a lei, ai suoi occhi, al suo sorriso immenso e alla sua classe. Buona strada Mariangela. E grazie.
L’abbiamo puntato tutti il nostro nasino all’insù a guardare la luna. A cercare la luce opaca che rischiarava la selva e a ricordare insieme a Leopardi, le passate cose. Gli amori, i sospiri, le emozioni si buttavano da quelle parti. Sulla luna. Perché nessuno le avrebbe raccolte. La luna era la cassaforte dei nostri desideri. Il 20 luglio 1969 avevo ancora nove anni e la luna rappresentava per me una palla bianca in mezzo al cielo dove, per amiche, vi erano le stelle. I miei interessi, a quei tempi erano minimali: pallone, amici, figurine panini, nutella e cartoni animati solo la domenica, quando c’era Braccobaldo Show. I miei punti fermi erano Gigi Riva, Mazzola, Rin tin tin e il teleromanzo “ e le stelle stanno a guardare” che non capivo molto ma che aveva una bella storia, piena di tensione. La domenica, poi, si andava al cinema S. Francesco a vedere per tre volte di fila i film western (Dio perdona, io no era uno dei cult). Fu mia madre che quella sera mi raccolse dalla strada dove giocavo a “pola ci sto” (abitavo in periferia e le strade non erano asfaltate. Per noi bambini una fortuna. Si potevano scavare piccole buche e giocare con le biglie….) e mi disse che l’uomo stava atterrando sulla luna. Credo disse proprio atterrando perché io, per giorni, mi chiesi se anche noi, da grandi, potessimo arrivare e atterrare sulla luna. Guardai quella trasmissione insieme a mio nonno che, da buon sardo diffidente, non credette mai che quell’avvenimento fosse reale (mio nonno non credeva in ciò che vedeva in televisione e amava solo le canzoni di Mina e stravedeva per Mike Bongiorno) mentre io, rapito dalla strada e dagli amici, diedi un peso molto leggero a quel vociare in televisione, a quel Tito Stagno che si agitava. Però mi sedetti. Aspettai che Neil Armstrong toccasse piede e vidi le righe striate che le scarpe lasciavano sulla polvere della luna. Uscii in cortile e cercai sul cielo ormai nero la luna. Mi sembrò di vedere il lem atterrato e chiamai mia madre per comunicarle che Armstrong lo si poteva vedere ad occhio nudo e a scuola, quando ci ritornammo, ad Ottobre, scrissi un tema sull’argomento affermando, tra l’altro , che io Armstrong che passeggiava sulla luna l’avevo visto davvero. Ero un visionario fin da tenera età. Questo lo penso oggi però, oggi che Neil Armstrong ci ha lasciato per andare oltre la luna. Quell’ammaraggio è stata la fine delle favole, la realizzazione di un sogno di una generazione, la forza della volontà dell’uomo che ha fatto del viaggio il suo punto di partenza e non quello di arrivo. Perché un viaggio, come diceva Saramago, non è mai definitivo. Quando guarderemo la luna, stasera, non potremmo non ricordare quell’estate magica del 1969 e nel buio più assoluto, proverò a vedere se ancora Neil Armstrong passeggia sopra l’oceano della tranquillità saltellando leggermente. Secondo me si.
Ciao Neil Armstrong, piccona icona che mi accompagnato nell'infanzia. E che mi ha regalato un modo nuovo per raccontare storie. |