Ho rivisto, dietro quel film, la nostra adolescenza, i dibattiti nelle radio libere, la lotta (nel nostro piccolo, è chiaro) per un piano regolatore decente, che non si inventasse le stesse curve di quelle raccontate da Peppino Impastato a proposito dell’autostrada. Ho appena finito di rivedere il film e ho pensato a quello che ha scritto proprio ieri Roberto Bolognesi, sul volantinaggio, sull’impegno politico dei nostri anni e su qualcuno che, invece di lottare, in quei giorni non c’era, pur essendo della nostra stessa generazione. Ho rivisto il film “i cento passi” e ho pensato che anche da noi, dalle nostre parti o meglio, in tutti i nostri paesi, in qualsiasi nostro paese c’era e c’è del marcio a cento passi da noi. Non troppo lontano, dunque. Ho lavorato in radio e ho parlato, ho detto, ho scritto e continuo a farlo. Ho rivisto il film su Peppino Impastato perché rappresentava la forza di volontà, la ricerca di un riscatto, la voglia di essere protagonista di una rinascita che non c’è stata. La mafia, qualsiasi mafia non vuole simboli. Non vuole che i ragazzi parlino “di politica” si informino sulle esercitazioni militari, sui giochetti di guerra, sulla divisione e sulla vendita della propria terra da parte di altri. Tutte cose molto vicino a noi. Intorno a cento passi. Cominciate a contarli. Che non è tardi.
Ho appena finito di rivedere il film “i cento passi” che, questo pomeriggio è passato su Rai 3. L’ho rivisto perché lo ricordavo molto bene e perché il 9 maggio 1978 tutti, me compreso, eravamo con il naso verso Roma, dove le brigate rosse avevano fatto ritrovare, in via Caetani, il corpo di Aldo Moro. L’ho rivisto perché, alla fine, ci ho scritto un libro su questi destini incrociati e su quel giorno, ricordato, da tutti e per sempre “il giorno di Moro”. Ho rivisto quel film con la rabbia addosso, ricordavo le parole di Impastato e ricordavo che sapeva leggere benissimo nel deserto che costruisce la mafia. Aveva capito prima degli altri, più degli altri che la vera forza sono le parole, la circolazione delle parole, dover scoprire cosa si nasconde dietro i conti bancari, le amicizie altolocate, su tutto quello che permette a persone pitturate di bianco di presentarsi al cospetto di altre persone che raccontano e salutano e mietono consensi politici.
Ho rivisto, dietro quel film, la nostra adolescenza, i dibattiti nelle radio libere, la lotta (nel nostro piccolo, è chiaro) per un piano regolatore decente, che non si inventasse le stesse curve di quelle raccontate da Peppino Impastato a proposito dell’autostrada. Ho appena finito di rivedere il film e ho pensato a quello che ha scritto proprio ieri Roberto Bolognesi, sul volantinaggio, sull’impegno politico dei nostri anni e su qualcuno che, invece di lottare, in quei giorni non c’era, pur essendo della nostra stessa generazione. Ho rivisto il film “i cento passi” e ho pensato che anche da noi, dalle nostre parti o meglio, in tutti i nostri paesi, in qualsiasi nostro paese c’era e c’è del marcio a cento passi da noi. Non troppo lontano, dunque. Ho lavorato in radio e ho parlato, ho detto, ho scritto e continuo a farlo. Ho rivisto il film su Peppino Impastato perché rappresentava la forza di volontà, la ricerca di un riscatto, la voglia di essere protagonista di una rinascita che non c’è stata. La mafia, qualsiasi mafia non vuole simboli. Non vuole che i ragazzi parlino “di politica” si informino sulle esercitazioni militari, sui giochetti di guerra, sulla divisione e sulla vendita della propria terra da parte di altri. Tutte cose molto vicino a noi. Intorno a cento passi. Cominciate a contarli. Che non è tardi.
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Alfano e Tavecchio: vu cumprà?
Le parole hanno un peso, un rumore e un ricordo. A volte, si parla troppo velocemente, per essere addossati alla filosofia di internet dove tutto corre e si sfrutta in un attimo. A volte, invece, si rischia di non trovare le parole adatte e, proprio in quel momento, si scivola nell’ovvio e nella dissacrazione della parola e del concetto. E’ successo a Tavecchio, oggi incoronato Presidente del calcio italiano ed è successo ad Angelino Alfano uno che, a dire il vero e a differenza di Tavecchio con le parole ci sa fare, le sa ammaestrare da buon politico abbastanza navigato. E allora? Credo che, molto naturalmente il primo è scivolato nella classica buccia di “banana”, infagottato nella vecchia retorica brianzola e democristiana degli anni cinquanta (d’altronde il giovane Tavecchio ha solo 72 anni) mentre il secondo ha deciso di chiamare delle persone “vu cumprà” non per errore, ma per scelta etica e politica. Chiaramente la “sua” etica: quella lombrosiana e assolutamente superata ma che, a quanto pare funziona benissimo. Alfano ha definito “vu cumprà” i ragazzi che vendono frattaglie di una moda impazzita perché voleva definirli proprio in quel modo e ha confermato questo addirittura “scrivendolo” in un tweet e quindi quella parola ha un peso, un rumore e un ricordo. Il peso di chi non ha capito che non siamo noi a decidere dove dobbiamo nascere e dove possiamo sopravvivere, il rumore di chi non ha compreso quanto è irritante chiamare gli uomini con un modo di dire: “spaghetti”, “sequestratori” “camorristi” “polentoni”. Il ricordo di chi non riesce a spiegare che la colpa non è di chi vende le cianfrusaglie, ma di chi le produce e, guarda caso il problema diventa senza dubbio un altro. Vecchia storia tutta da verificare. Mi aspettavo da un Ministro un intervento serio, una campagna contro la delocalizzazione che genera disoccupazione e quindi sconcerto e dunque focolai di insoddisfazione e violenza. I poveri ragazzi che girano vestiti tra gli ombrelloni e i bagnanti incremati generano forse qualche fastidio, perché magari siamo costretti a dire “no grazie” a persone che cercano il modo per ritagliarsi un briciolo di dignità. Ecco, le parole sono importanti e anche i gesti. A volte dare qualche spicciolo a chi te lo chiede con un sorriso triste e aggiungere “buona fortuna” non sarebbe male. Poi, sulla contraffazione dovremmo ritornarci e su chi, davvero, muove quel gran business. Ma questo è un altro discorso e servono altre parole. Articolo apparso sulla Nuova Sardegna del 11 luglio 2014
diritti riservati © by giampaolo cassitta La speranza non si baratta ed è la sola che illumina le giornate nere, senza sogni, senza ponti da attraversare. La religione cattolica è un inno alla speranza, alla salvezza, alla possibilità di poter, un giorno, riconciliarsi con il proprio Dio disegnato e descritto da tutti come un padre paziente ma, in ogni caso, esigente. Affermare che la mafia, la camorra, la ndrangheta siano lontani da Dio, per quanto sia un messaggio forte è anche, per certi versi, piuttosto ovvio. Scomunicare chi vive di mafia, camorra e ndrangheta è quindi consequenziale. Il problema però diventa importante quando a dibattere della questione sono i detenuti, quelli condannati per questi reati e quindi considerati da sentenza dello Stato appartenenti alla criminalità organizzata. La religione è stata sempre un terreno molto delicato e il rispetto per i credenti e per i non credenti deve essere sempre al di sopra di tutto. Ognuno ha diritto di professare il proprio credo. Da questo diritto, particolarmente importante in carcere, nasce però la richiesta di chiarezza da parte di chi è stato condannato, magari all’ergastolo che, oltre a nutrire una flebile speranza di poter uscire un giorno dal carcere, si ritrova anche la saracinesca della sua religione, del suo credo, incredibilmente chiusa. Papa Francesco non ha però condannato l’uomo, ma ha condannato un aspetto, un comportamento, un vivere al di fuori della comunità che si è data regole diverse da quelle dei mafiosi. Per chi rifiuta un confronto con il proprio Dio, per chi non ha il coraggio di attraversare nel deserto, in solitudine, in riflessione, per chi continua a mantenere quegli atteggiamenti, non può bussare alla porta della Chiesa proprio perché si è accasato da un’altra parte. E non valgono i santini bruciati, gli inchini di statue davanti a signorotti del paese (inchini che, beninteso, si ripetono da anni e solo una nuova presa di coscienza oggi ce li mette in mostra e ci fa gridare allo scandalo) non valgono i soldi ottenuti chiedendo il “pizzo” o vendendo sostanze stupefacenti e utilizzati per la festa del Santo. Papa Francesco ha semplicemente detto che tutto questo non può valere al cospetto di Dio perché manca, fondamentalmente, il passaggio del confronto, della riflessione. Manca, dunque, la disposizione al perdono che è chiaramente profondamente religiosa e lontana dalla laicità dello Stato. I detenuti si avvicinano al cappellano perché egli rappresenta un barlume di speranza e a volte confondono i piani tra Stato e chiesa. Su questo però occorre essere chiari e il buon Cavour lo ricordava alla fine del 1800: “libera chiesa in libero Stato” dove ognuno ha le sue prerogative e ognuno le sue strategie. Molti detenuti, a volte, ritengono di poter miscelare le due libertà, pensano di poter ottenere di più se ci si avvicina alla religione, se i loro passaggi si infarciscono di buone intenzioni. Tutto questo è un fatto assolutamente positivo e apprezzabile, ma non è il percorso richiesto dallo Stato che mantiene una visione assolutamente laica del comportamento all’interno degli istituti penitenziari e la religione è solo un elemento del trattamento che ha nella sua globalità interventi più complessi. “Lo sciopero della messa”, così come frettolosamente hanno titolato alcuni quotidiani, è un falso problema. Bisognerebbe domandarsi, invece, perché chi si ritiene quasi sempre estraneo ai reati come l’associazione per delinquere e nessuno di essi si dichiara “mafioso”, abbia richiesto un confronto. Semplicemente per paura di restare isolati, di non far parte più della comunità, quella costruita nei secoli attraverso le credenze religiose e non sulla “religione”. Uniti agli usi e alle tradizioni, non certo disposti all’analisi e all’esegesi cristiana. Hanno avuto paura che la religione, quella vera, le chiedesse uno sforzo cristiano e le chiedesse di abiurare un’altra religione, un altro credo: quello mafioso. Di questo hanno avuto terribilmente paura. Di restare soli e perdenti, quello che, laicamente, auspico da sempre. Un filo sottile unisce orrore e normalità (a proposito del triplice omicidio a Motta Visconti)17/6/2014 ARTICOLO APPARSO SULLA PRIMA PAGINA DEL QUOTIDIANO “LA NUOVA SARDEGNA” 17 GIUGNO 2014 - © by Giampaolo Cassitta
Ci sarà pure una linea sottile che unisce tutto e tutto spiega. Ci deve pur essere da qualche parte perché si rischia di rimanere sgomenti dentro un vortice che sembra non finire più, inghiottiti dalle atrocità degli uomini. Solo un mese è trascorso dalla notizia tragica di Tempio, dove ancora tutto è da sedimentare e comprendere, dove una famiglia è stata uccisa, una comunità distrutta, un uomo in carcere in attesa di raggomitolare la propria coscienza. Adesso, in un paesino del milanese, un altro uomo, un altro “normale” ha ucciso la moglie di 38 anni e i suoi due figli: Giulia di cinque anni e Gabriele di 20 mesi. Dopo aver confessato ha dichiarato di volere il massimo della pena. Qualcuno sui social network ha subito commentato: “sarai accontentato”. Eppure due triplici omicidi (e non sono gli unici e non saranno, purtroppo gli ultimi) così apparentemente lontani non possono continuare a rimanere solo nelle pagine di cronaca sui giornali per poi sparire dopo qualche giorno. La comunità deve cominciare a cercarla quella linea sottile che è nascosta nel sottosuolo della propria esistenza. Perché questi sono i nostri prodotti. Nostri e di nessun altro. Non ci sono commistioni con altre culture, non ci sono follie religiose, non ci sono spiegazioni psichiatriche. Tutto questo nasce nella nostra “normalità”. Si è ucciso, probabilmente, per un’automobile e neppure di grosso calibro e valore, si è ucciso perché la donna, sua moglie, la sua compagna rappresentava un intralcio ad un suo futuro di libertà. Fateci caso: in entrambi i casi non c’è la ricerca del castigo, la paure folle di aver compiuto un gesto osceno. In entrambi i casi si assiste alla mancanza assoluta di emozioni: si va a scrutare, come attore non protagonista il luogo del delitto (nel caso di Tempio Pausania) oppure – ed è ancora più atroce – si rimuove totalmente il delitto andando a guardare, con amici in un bar, la partita dell’Italia, gioire dei gol, fare rientro a casa, in quella casa gonfia di sangue rappreso, parlare con la polizia urlando di aver scoperto l’orrendo delitto: il suo. Come un film, come un’orrenda commedia, come un fumetto. Non è cronaca dunque, non è solo cronaca. Non è neppure la trama di un giallo splatter. Questa – dobbiamo provare a dircelo, anche sottovoce – è la vita, la nostra vita. Loro, gli assassini (o presunti tali, posto che nel caso di Tempio Pausania i contorni sono ancora da disegnare) sono seduti sul nostro stesso tavolo e amano le nostre stesse cose, osservano nello stesso nostro modo un mondo che, a quanto pare, non ha gli stessi orizzonti. Dicono la mancanza di valori, eppure in quest’ultimo caso parliamo di un giovane ragazzo, padre attento e premuroso, senza nessun problema apparente che sgozza la moglie e soffoca i figli. Dicono la velocità dei tempi. Una volta il mondo era più riflessivo. Oggi, invece tutto va bruciato in giornata, per poi ricominciare. E’ la tragedia del benessere, dell’avere tutto e subito, del volere tutto e subito, dell’impossibilità di potersi accontentare perché non si è in grado di saper ascoltare il rumore della vita. Ci sarà pure una linea sottile che unisce l’inverosimile che possa, in qualche modo, far incontrare queste parallele apparentemente lontane e indecifrabili. E’ solo una questione legata ai tempi moderni? E’ solo qualcosa di “folle” che non ci appartiene? Quante volte abbiamo urlato e inveito contro l’altro, contro l’orco cattivo che giungeva da lontano, contro lo straniero? Ci sarà pure una linea sottile che unisce l’orrore e la vergogna e quella linea parte proprio da casa nostra, dal nostro orto, dalle nostre famiglie. L’aggettivo sospeso restituisce un’idea di precarietà. Come i nostri tempi. Da anche l’idea di una certa “napoletanità” nel senso più verace del termine: “un caffè sospeso” è una sorta di mancia lasciata da qualcuno in un bar, pagata da uno sconosciuto per chi magari quel caffè non si può permettere di pagarlo. Ne parlava Eduardo e ne parlava, soprattutto De Crescenzo nella sua “Napoli di Bellavista” dove le sospensioni era anche momenti sublimi. Dunque, si entrava in un bar e gentilmente si chiedeva al proprietario: “C’è per caso un sospeso?” Alla risposta affermativa il cliente entrava beveva il caffè e ringraziava qualcuno che non c’era. Era un gesto piccolo, simpatico, dolce, che presupponeva la lealtà di due persone: il barista che non doveva barare e il cliente che doveva, davvero, essere senza soldi. Intorno tanta piccola sociologia napoletana: quella di Eduardo ma anche quella timida e bellissima di Massimo Troisi; quel sospeso rappresentava un incontro candido tra il benefattore sconosciuto e il beneficiario leale. Poi, probabilmente, l’ingranaggio in qualche bar si “ingrippava” ma questo gioco è una forma di gentilezza d’altri tempi, un voler offrire con una certa grazie qualcosa di piccolo, infinitesimale ma che riconcilia con la vita. A Oristano, Tiziana Figus, che gestisce una pizzeria al taglio in via De Castro, ha pensato all’idea del caffè sospeso e ha deciso di rimodularla con la “pizzetta”. Il cliente arriva e ordina una pizza per lui e ne paga due. La seconda è “sospesa”, in attesa di un cliente che si affacci alla pizzeria, qualcuno che quella pizzetta, per quanto di poco conto, non se la può permettere. Brava Tiziana. Sono tempi ingiusti questi. Ma giusti, giustissimi per un “sospeso” o, meglio per una “sospesa”. Ha solo un dubbio la nostra simpatica Tiziana, quello di trovare le persone con il “giusto coraggio per varcare la soglia”. Lei ha promesso un silenzio assoluto e sono certo riuscirà a mantenere questo piccolo segreto. Una pizzetta sospesa è solo un frammento di abbraccio verso un mondo con solchi di dolore molto grandi. Ma la vita ha bisogno di piccoli segni e ha la necessità, qualche volta, respirare piano. Regalandosi una piccola sospensione. Qual è il colore vero del buio? Una volta, un detenuto mi rispose: l’ergastolo è il giusto orizzonte al buio infinito, all’impossibilità di esistere. Probabilmente aveva ragione. Dunque, se fosse davvero così noi quel colore non lo conosciamo, lo possiamo soltanto immaginare. C’è poi un altra strada difficile e impervia, probabilmente ancora più buia: quella del 41 bis, quella del carcere duro, durissimo. Lentissimo. Gli attimi dentro quel budello non esistono e, a volte, non esistono neppure le ore, i giorni, gli anni. Sono solo supposizioni. Deve averla pensata in questo modo anche Antonio Iovine che da qualche giorno prova a collaborare con gli inquirenti, prova a camminare un po’ a tentoni in una strada ancora senza uscita. Non so cosa stia raccontando e non è questo il punto della mia riflessione: voglio solo provare a capire il colore del buio. Io quelle sezioni le conosco. Quelle di Fornelli, all’Asinara, oggi consegnate al parco e alla gente. Io le conosco bene perché ci ho lavorato in quel budello quando il sangue si raffermò, nel 1992, quando i pensieri furono solidi e gli occhi liquidi. Quando si cominciò a prevedere per chi si era reso protagonista delle varie mattanze il carcere duro, vero. Il buio. Quell’assenza di possibilità, quell’abbraccio asfissiante che toglie il respiro e prova a ridisegnare, in peggio, le esistenze di chi ha ucciso uomini, donne e bambini. Di chi ha calpestato la dignità di migliaia di persone. Loro il vero colore del buio lo hanno conosciuto. Li osservavo senza regalare parole. Capivo che per loro rappresentavo lo Stato, quello che avevano sfidato. Lo sapevo e capivo la difficoltà a stringere una mano, a dare una risposta, a dire, semplicemente: “me ne occupo”. Eppure lo facevo. Perchè credevo e credo che il colore del buio sia terribile. Occorre provare a segnare una strada diversa. Dopo quel non-colore, quell’orribile discesa nell’inferno dei vivi, dopo che i pensieri ti logorano negli anni, dopo i silenzi e gli sguardi che osservano solo una cella, provi a sederti sull’orlo della vita insieme alla tua coscienza e ti chiedi: che cosa c’è oltre il buio? Ecco, in quel momento è possibile provare a ripartire, bussare timidamente la porta di quello Stato che un giorno hai colpito barbaramente. Antonio Iovine ha cominciato questo percorso. Il 41 bis è dunque servito. Perché chi conosce il vero colore del buio non può dipingere il proprio futuro.
L’articolo lo dedico, idealmente, ai ragazzi di cinque stelle che, anziché ammettere normalmente di avere perso, hanno diramato un comunicato nel quale dicono che, in realtà, non hanno perso due milioni e mezzo di voti ma, considerando le astensioni, sono molti di meno. E dire che queste cose (il preambolo) le dicevano nel secolo scorso i democristiani. Ecco, insomma, anche loro l’hanno buttata in politichese. In ogni caso l’articolo è solo ironico e leggero. Il Malox, tutto sommato, in questo caso non serve. Buona lettura. C’è un’indimenticabile canzone di Francesco De Gregori che ha segnato una generazione, tratta da un album fortunatissimo: “Titanic”. La canzone ha un incipt bellissimo e ispirato: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento”. Si trattava del transatlantico che apponeva prezzi differenziati: per classi. Anche in treno esisteva la prima e la seconda classe. In aereo quella turistica e quella business. Dal Titanic ad oggi non è cambiato moltissimo: le classi, quel concetto tanto trattato dalla fine del 1800 esistono ancora. La notizia è stata ripresa dai maggiori quotidiani e ha destato un piccolo scalpore perché tratta di bambini e della scuola. In una città laziale, Pomezia per la precisione, è iniziata la “guerra delle merendine”. Pare infatti che un sindaco, appartenente al movimento Cinque stelle abbia deciso, con la sua giunta, che dal prossimo anno nelle scuole materne saranno presenti due menù: uno con il dolce, al costo di 4 euro e 40 centesimi, un altro senza il dessert, da 4 euro. Dopo la protesta di genitori piuttosto agitati e indignati, i rimbrotti del presidente della Regione Lazio Zingaretti che ha definito la scelta “immorale, in quanto si nega il dolce ai piccoli meno abbienti” , alle parole del sindaco di Torino Fassino il quale stigmatizza la scelta come “ridicola e umiliante” per i bambini sono arrivate anche le parole del segretario di Fratelli d’Italia Meloni che ritiene questa scelta una “follia amministrativa”. Una desolante Caporetto per il sindaco che però si è difeso. “ E’ solo un complotto del Pd ordito alla vigilia delle elezioni europee” e ha aggiunto: “il bando comunale con i due menù era stato approvato a Dicembre scorso all’unanimità, e comunque il Comune di Pomezia aiuterà le famiglie che non possono pagare il dolce ai propri bambini”. Tutto rientrato? Probabilmente si. Con qualche piccola considerazione utile per comprendere le stratificazioni del nostro strano paese. C’è sempre una contrapposizione politica votata allo scontro e la risposta di chi in quel momento è al governo è sempre la stessa: “Un complotto”. Che non regge. E fa sorridere. Si grida al complotto per qualsiasi cosa, si vede un complotto in qualsiasi scelta. C’è poi chi spara più alto e aggiunge: è stato un colpo di Stato. A queste esilaranti iperbole linguistiche si aggiungono però le scelte goffe di chi l’errore lo ha commesso e rischia di peggiorare, con le spiegazioni, ciò che è accaduto. In questo caso, per esempio, bastava ammettere semplicemente di non aver considerato che i due menù avrebbero comportato una sorta di selezione, peraltro antipatica. Poteva benissimo eliminare il famoso dessert e sostituirlo con un frutto di stagione e provare a contenere i prezzi eliminando i grassi saturi. Poteva raccontare che il suo partito, dove uno vale uno, voleva appunto dimostrare quanto è semplice creare diseguaglianze e che questa scelta voleva essere solo una dimostrazione per costringerci a riflettere. Invece si è giocato la parola “complotto”. Come tutti. Senza nessuna fantasia. Allora, messa in questi termini, non ci rimane che la solita e terribile frase “sono tutti uguali” ma, in questo caso suona male. E’ vero, magari sono tutti uguali ma tendono ad insegnare, da subito, che esistono le differenze. Quello che non si vuole capire è nascosto nella bellissima canzone di Francesco De Gregori, in quel suo inizio: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento”. Queste classi sono ampiamente superate, siamo giunti ormai alla terza quella del “dolore e spavento”. Navighiamo in questo grande transatlantico molto simile al Titanic e ci affidiamo di volta in volta a dei capitani senza rotta che gridano “andiamo avanti tranquillamente”. Per poi difendersi, quando beccano l’iceberg, con l’unica frase che in politica è diventata bipartisan: “E’ stato un complotto”. La mia classe. Svolgimento
La mia classe è fatta di molti bambini dove ci sono anche io. Io sono al terzo banco e la maestra mi ha messo con Gianluca. Non sono molto contento di questo Gianluca perché tifa la Juve e a me gli juventini non mi piacciono perché sono barrosi e si vantano che vincono sempre. Poi quando perdono, anche se perdono poco ma buscano da quelle squadre estere che sono più forti Gianluca si mette in silenzio tutto il giorno e non presta più niente. Dietro di noi ci sono due femmine che sono Manuela e Silvana. Sono abbastanza simpatiche ma quando ridono non si possono vedere perché non hanno denti dritti e portano la macchinetta quella che si mischia con il pane e loro non lo mangiano. Degli altri ne parlo poco perché siamo amici ma non troppo. Voglio parlare di Mirko e della sua mamma, una signora bionda con la macchina gialla molto grande. La mamma di Mirko sta sempre parlando e dice sempre che ha molte cose da fare e gira parecchio il mondo con gli aerei e porta molti regali a Mirko. Mirko con altri sette bambini che non metto i nomi perché sennò la maestra mi dice che allungo il brodo, a pranzo quando c’è la mensa si siedono tutti in un bancone vicino alla cucina. A loro dopo che tutti finiamo prima il primo e dopo il secondo gli tocca il dolce. A noi seduti di fronte no. La mamma di Mirko che parla sempre ha detto : ” quanto mi dispiace poverini “ ma lei non può fare nulla perché il dolce si paga e mica può pagarlo a tutti. Mia mamma quando ho detto questa cosa a casa non ha parlato molto e ha detto che lo diceva a mio padre. La sera dopo la cena mio babbo mi ha detto che io sono fortunato perché lui ha combattuto per me per salvarmi da una malattia brutta che ti fa venire una pancia grande e non puoi giocare più a pallone. Questa malattia mi ha detto mio babbo viene a chi mangia il dolce nella mensa della scuola perché quella tortina contiene una cosa tipo grasso che si attacca alla pelle e non si stacca più. Io guardo tutti i giorni Mirko e gli altri sette ragazzi. A parte Valeria che era cicciotta dalla prima elementare gli altri mi sembrano uguali e continuano a giocare a pallone. Io però sono convinto di quello che mi dice babbo e aspetto che alla fine della scuola quelli che mangiano il dolce diventano palle di lardo e noi riusciamo a vincere a calcio o fuggiamo a acchiaperllo che non ci prendono mai. La mia classe mi piace molto anche se è divisa in due per colpa del dolce. Mia madre quando mio padre non c’era mi ha detto che quando divento grande capirò. Che devo cominciare ad imparare dove sedermi che mi serve più avanti. Mi ha anche detto che anche i grandi vivono in tante classi diverse ma senza maestre e che ci sono uomini che hanno il dolce e altri uomini no. Ho capito che forse quella cosa di babbo non era molto vera, ma io lo perdono perché ha il nervoso che ha perso il lavoro e i dolci non gli sono mai piaciuti. Devo finire dicendo che il dolce non piace neanche a me. Come gli juventini barrosi. Luca. Quinta B. Dedicato a tutti i bambini delle scuole elementari di Pomezia che, grazie ad una decisione della giunta (sindaco cinque stelle, ma è un caso, chiaramente) saranno divisi per merendine: i genitori che pagano 40 centesimi in più daranno la possibilità ai loro figli di poter avere, dopo il pranzo, una merendina. Gli altri bambini staranno a guardare. Ma questo non significa che non possano capire. Questa storia dei comunisti non l’ho mai capita. Una volta mangiavano i bambini, poi mangiavano a sbafo, poi non avevano voglia di lavorare, poi ce l’avevano un po’ con tutti. Insomma: i comunisti non erano propriamente delle belle persone. E io, quando tornavo a casa ne soffrivo. Mi piazzavo sul mio vecchio Teac L60 il disco di Claudio Lolli “Io ti racconto” e piangevo. Poi, se volevo dare una svolta di allegria a quegli attimi facevo girare sul piatto “la locomotiva” di Guccini. Per far trionfare la giustizia proletaria.
Io, questa storia dei comunisti l’ho vissuta intensamente. Ci ho provato a dire che non era solo ideologia, ma serietà e sacrifici. Studiare, imparare, ricordare, stare attenti, saper citare Gramsci, affermare che anche Berlinguer era una persona solare. Ci ho provato a dire che io, Magistrato per vocazione e per amore, ero anche profondamente comunista. Sinceramente comunista. Quando tutti gli altri si vestivano da John Travolta io ero un comunista che suonava la chitarra in spiaggia e strimpellava De Gregori, Dalla, De André e, seppure fossimo in numero dispari, rimanevo sempre solo: io e la mia chitarra. Gli altri a pomiciare. Io ad ascoltare il mare e le onde. Ero un comunista contemplativo. E coglione. Son passati gli anni e di comunisti, di quelli veri, non ce ne sono più. Gianvittorio, il mio carissimo e stronzo amico, dice che son rimasto solo io. A continuare a credere nella legalità, nell’etica, nella giustizia. Senza il proletariato. Anche lui ormai dissolto. Questa storia dei comunisti mica l’ho capita. Del processo mediatico grillino. Che durerà un anno e forse più: trionfi la giustizia cinquestelle. Continuo a fare il magistrato e provo a mettere ordine in un disordine catastrofico. Ho ancora i miei vecchi dischi e gli antichi libri. Ogni tanto suono la chitarra sul terrazzo davanti al mare. E mi sento un po’ coglione. Ma colpevole di essere comunista no. Quel piccolo vezzo mi è rimasto. E me ne vanto. (Claudio Marceddu, Magistrato inventato, protagonista di due libri e del prossimo, in uscita a settembre, sempre che Grillo sia d’accordo) (articolo apparso sulla Nuova Sardegna del 13 maggio 2014 © giampaolo cassitta
il mio giorno di Moro (a 36 anni dalla vicenda). Il 9 maggio era una giornata apparentemente uguale a tutte le altre. Apparentemente. Come ogni giorno, la mattina studiavo per l’Università e il pomeriggio mi recavo in radio. Alghero aveva sguardi sterili e la stagione turistica non era ancora cominciata. Quel giorno, di primo mattino, decisi per una passeggiata. Non c’era vento e, passando davanti al mare, non contai neppure un’onda. Il 9 maggio era una giornata piatta come acqua che non sospira, come parole naufragate nella memoria. Il 9 maggio 1978 lavoravo - senza stipendio - in radio. Una radio libera: Teleradio Alghero 101. Curavo il radiogiornale. Era un anno cominciato quasi in sordina, rispetto a quello precedente. Sino al 16 marzo 1978. Quando il rumore delle armi sovrastò tutto il paese. Il giorno del sequestro dell’Onorevole Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta. Cominciai a leggere furiosamente tutto. Volevo capire, volevo analizzare, avevo intuito che quell’ attualità un giorno sarebbe divenuta storia e noi la stavamo cavalcando quasi senza rendercene conto. C’era stato un grande dibattito in quei giorni. Ma c’era stata anche molta paura. Che tutto non reggesse: il Governo di unità nazionale appoggiato, per la prima volta, dal Partito Comunista Italiano, i servizi segreti, i depistaggi, la chiesa che con Paolo VI tentava una mediazione. La segreta speranza di poter imbastire una trattativa con gli uomini delle brigate rosse. In radio si ascoltavano, soprattutto, le canzoni di Antonello Venditti e del suo album “sotto il segno dei pesci” uscito l’8 marzo 1978. Sotto il segno delle donne. Il 9 maggio 1978 nessuno attendeva risposte. La vita era come sospesa. Da qualche giorno. Venerdi 5 maggio le brigate rosse avevano diffuso il comunicato numero 9, quello in cui annunciavano che stavano “eseguendo la sentenza” e il tempo era scaduto. Quel pomeriggio mi sarei dovuto occupare della lettura dei quotidiani. Avevo scritto qualcosa sull’ultimatum. Ero per la trattativa e non comprendevo la chiusura totale della Democrazia Cristiana e del Partito comunista. Nei miei diciannove anni non c’erano finestre così chiare e nitide. Qualcuno telefonò. “Hanno ucciso Moro” dissero, “c’è Paolo Frajese in diretta, su Rai Uno.” Non avevamo la televisione in radio. Telefonai, a mia volta ad un amico e cominciai con la diretta radiofonica. Praticamente lui raccontava della telefonata al Dr. Niccolai da parte delle brigate rosse e dell’ambasciata alla famiglia. Adempivano alle ultime volontà del presidente comunicando il luogo dove era stato rilasciato il corpo. In via Caetani. Cominciò così, in quel pomeriggio del 9 maggio 1978, la più lunga diretta della nostra radio. Il telefono non smetteva di squillare. La gente voleva intervenire, voleva sottolineare la drammaticità dell’evento. In radio io ed Enzo, con Martino alla regia. Ad ascoltare quel pezzo d’Italia che ci passava accanto. Il 9 maggio 1978 divenne per quelli della nostra generazione il giorno della memoria, un po’ come per i ragazzi di oggi l’undici settembre del 2001. Ancora oggi quando parlo di quel giorno, del “giorno di Moro” con persone della mia età tutte, nitidamente, ricordano dov’erano e cosa stavano facendo. Quel giorno. Tra la storia e l’orrore. A contare gli attimi e a soppesarli. A ricercare abbracci e non trovare nessun perché, nessun nesso collegabile alla realtà. Quell’omicidio costruito in nome di un popolo che non rappresentavano. Lo fecero perché Moro rappresentava un simbolo. Volevano colpire il cuore dello Stato. Uccisero uomini e ferirono il solco delle nostre vite. Per sempre. Oggi, dopo trentasei anni, dopo l’orrore e la sedimentazione di tutto quel male, possiamo affermare di essere sopravvissuti alla follia, di esserci aggrappati alla storia e di aver rimesso nelle nostre antiche tasche i sacchetti di parole. Che servono a comprendere anche quel maledetto giorno: il 9 maggio 1978. Il giorno di Moro. |