Il caso di Francesca Barracciu me lo ricordo bene. Ricordo anche una lettera aperta in cui si chiedeva all’allora europarlamentare un passo indietro nonostante fosse uscita vittoriosa dalle primarie. Nella lettera si chiedeva un segnale per azzerare tutto, sedersi al tavolo e ricominciare. L’obiettivo, si scriveva nella lettera «è di avere una squadra di Governo nuova, esperta, capace, non compromessa e riconosciuta come di alto valore anche sul piano etico. Alla guida della quale non può che essere candidato chi questi requisti non solo li possiede, ma soprattutto gli sono riconosciuti dal popolo elettore. (...) Pensiamo, anche se ciò provoca in noi un profondo disagio personale, che vada tracciata una linea netta tra le vicende che hanno screditato il Parlamento dei sardi e il futuro dell’istituzione autonomistica». Anche questa bella lettera contribuì a bloccare la candidatura della Barracciu e spianare la strada a Francesco Pigliaru che poi avrebbe vinto le elezioni. Ritengo fu una cosa eticamente valida nonostante la Barracciu – lo ricordo ancora – è tuttora solo indagata, accusata di peculato per uso improprio per i fondi destinati all’attività dei gruppi consiliari della Regione Sardegna. Va tutto bene allora? Certo. Benissimo. Peccato che uno dei firmatari di questa lettera pubblicata dai quotidiani nel dicembre 2013 fosse il senatore di Rifondazione Luciano Uras, oggi indagato per lo stesso reato e anche lui dovrà giustificare la spesa di 70 mila euro. Perché nessuno ricorda questo passaggio? L’etica ha un diverso peso nella sinistra? Non credo e non lo spero. Mi auguro, invece, che l’Onorevole Uras riesca brillantemente a spiegare come abbia speso 70.000 euro, così come argomenterà anche Francesca Barracciu. Il problema però è un altro: ma l’onorevole Uras, a dicembre 2013, quando scrisse la lettera insieme a Cappelli non ricordava di aver usato anche lui fondi destinati all’attività dei gruppi? Non sapeva che, prima o poi sarebbe accaduto anche a lui dover giustificare? Se la storia fosse accaduta prima delle votazioni al Parlamento avrebbe fatto il giusto e sacrosanto passo indietro? E adesso? Adesso non ci rimane che provare a scrivere la morale di questa favola per niente a lieto fine: “Su boe narat corrudu a s’ainu”.
Avevo un compagno, alle scuole elementari, che non scambiava mai le sue figurine, non divideva i pastelli e a pallone voleva solo vincere. Aveva un bel sorriso da smorfioso e sapeva fare l’occhiolino con entrambi gli occhi, cosa che a me non riusciva. La maestra diceva sempre: “in fondo, è simpatico.” Anche alle scuole medie un mio compagno di classe voleva primeggiare. Era uno più “ricco” di noi: portava i pantaloni lunghi a zampa di elefante e tirava le trecce alle ragazzine. Qualcuna la palpeggiava. Si beccava qualche rimbrotto ma ricordo che una mia “fiamma”, alla quale scrivevo frasi mielose e stupide, al tocco del mio compagno diceva: “è maleducato ma, in fondo, è simpatico”. Così sono cresciuto e ho visto alle scuole superiori altri ragazzi che non studiavano, copiavano i compiti ma non li passavano, sorridevano e inventavano scuse. In fondo, erano simpatici. Nel mondo dei grandi però ho cominciato a diffidare di questa strana locuzione. Dipingevano come simpatico, per esempio Giulio Andreotti quando faceva le battute sagaci, era simpatico Pinochet, Videla, era molto simpatico Gheddafi con quel suo strano modo di presentarsi, un po’ cafone. Era simpatico Nixon che giocava a ping-pong con Mao Tse Tung – lui un po’ meno simpatico, a dire il vero - . Poi divenne simpatico Bossi perché portava la canottiera in costa Smeralda, Borghezio con le sue battute tanto ma tanto simpatiche che riuscì a scatenare una guerriglia per una maglietta contro i musulmani esibita in pubblico. Poi, ad un certo punto, nel magnifico mondo della simpatia il più simpatico, autoproclamatosi da subito e osannato per anni, fu Silvio Berlusconi. Con lui divennero “in fondo simpatici” moltissimi personaggi: Putin tra tutti; Scajola, Fitto, Toti, Previti (che con quel ghigno farlo passare per simpatico ce ne voleva). Ma anche il simpatico show era sull’orlo del tramonto. “Vuoi vedere”, ho pensato, “che si comincia a rivalutare quelli che, magari non sono simpatici e hanno qualcosa di sostanzioso da raccontare?”. Ed invece, Grillo, non propriamente “in fondo simpatico”, ci ha raccontato che anche Nigel Farage ha il senso dell’humour e dell’ironia. Le dichiarazioni di questo “simpatico signore” vanno da: “I lavoratori europei stanno rubando i posti di lavoro agli inglesi” a “Le donne con i figli valgono meno ed è giusto che ne lavoro abbiano una riduzione di paga”. Un simpaticone. Il movimento cinque stelle ha deciso di allearsi costituendo un gruppo unico nel parlamento europeo, con questo “simpatico” signore. Per carità, tutto è possibile, ma non ci raccontate poi che tutto questo non conta, perchè Beppe è oltre le ideologie, oltre Hitler. Ecco, sarò all’antica ma a me, questo mondo “troppo simpatico” sinceramente non piace.
Qual è il colore vero del buio? Una volta, un detenuto mi rispose: l’ergastolo è il giusto orizzonte al buio infinito, all’impossibilità di esistere. Probabilmente aveva ragione. Dunque, se fosse davvero così noi quel colore non lo conosciamo, lo possiamo soltanto immaginare. C’è poi un altra strada difficile e impervia, probabilmente ancora più buia: quella del 41 bis, quella del carcere duro, durissimo. Lentissimo. Gli attimi dentro quel budello non esistono e, a volte, non esistono neppure le ore, i giorni, gli anni. Sono solo supposizioni. Deve averla pensata in questo modo anche Antonio Iovine che da qualche giorno prova a collaborare con gli inquirenti, prova a camminare un po’ a tentoni in una strada ancora senza uscita. Non so cosa stia raccontando e non è questo il punto della mia riflessione: voglio solo provare a capire il colore del buio. Io quelle sezioni le conosco. Quelle di Fornelli, all’Asinara, oggi consegnate al parco e alla gente. Io le conosco bene perché ci ho lavorato in quel budello quando il sangue si raffermò, nel 1992, quando i pensieri furono solidi e gli occhi liquidi. Quando si cominciò a prevedere per chi si era reso protagonista delle varie mattanze il carcere duro, vero. Il buio. Quell’assenza di possibilità, quell’abbraccio asfissiante che toglie il respiro e prova a ridisegnare, in peggio, le esistenze di chi ha ucciso uomini, donne e bambini. Di chi ha calpestato la dignità di migliaia di persone. Loro il vero colore del buio lo hanno conosciuto. Li osservavo senza regalare parole. Capivo che per loro rappresentavo lo Stato, quello che avevano sfidato. Lo sapevo e capivo la difficoltà a stringere una mano, a dare una risposta, a dire, semplicemente: “me ne occupo”. Eppure lo facevo. Perchè credevo e credo che il colore del buio sia terribile. Occorre provare a segnare una strada diversa. Dopo quel non-colore, quell’orribile discesa nell’inferno dei vivi, dopo che i pensieri ti logorano negli anni, dopo i silenzi e gli sguardi che osservano solo una cella, provi a sederti sull’orlo della vita insieme alla tua coscienza e ti chiedi: che cosa c’è oltre il buio? Ecco, in quel momento è possibile provare a ripartire, bussare timidamente la porta di quello Stato che un giorno hai colpito barbaramente. Antonio Iovine ha cominciato questo percorso. Il 41 bis è dunque servito. Perché chi conosce il vero colore del buio non può dipingere il proprio futuro.
Il gioco del pallone è la metafora della vita. Queste sono cose che si imparano da grandi. Quando sei piccolo ti devi schierare e devi “tifare”. La scelta cade sul calciatore che più ti attrae più che su una squadra. Ai miei tempi, poi, era semplicissimo: il calciatore giocava quasi sempre con la stessa squadra. A cambiare “maglia” erano solo quelli con meno luce “addosso” non erano i fuoriclasse. Ai miei tempi però c’era da effettuare una scelta radicale e a quell’età fu importante e segnò il futuro calcistico (niente di serio, per carità) di tante generazioni: molti cominciarono a tifare il Cagliari. Non i giocatori di quella squadra ma il Cagliari che rappresentava, almeno allora, la Sardegna. Lo era anche per i sassaresi, gli olbiesi, gli algheresi. I campanili, a quei tempi non esistevano. A dieci anni, poi, il calcio era solo uno splendido gioco dove la passione e la voglia di esultare era la felicità di un bambino. Di Rovelli e di Moratti i bambini non sapevano nulla, ma di Gigi Riva e di Sandro Mazzola conoscevano praticamente tutto. Erano figurine, icone di quel periodo. Arrivò lo scudetto e scesero sull’isola giornalisti seri, importanti, tutti a raccontare, a provare a capire cosa fosse successo di antropologicamente importante. Qualcuno scrisse che lo scudetto rappresentava un riscatto per l’isola. Io, sempre dentro i miei dieci anni, contavo i giocatori del Cagliari nella Nazionale del Messico, quella che arrivò seconda al mondiale vinto da Pelè. Quella con Nicolai in mondovisione (la bellissima battuta è del compianto Manlio Scopigno). Poi, dopo quello scudetto, piccoli sussulti, cambi di presidenza, scoperta di non avere più imprenditori in grado di gestire il giocattolo, discese in serie minori sino a quando Massimo Cellino, nel 1992, acquisto il Cagliari: un ragazzo con la faccia da simpatico gaglioffo; un po’ rocker e un po’ spaccone, un giocatore di poker sempre sorridente che portò il Cagliari nell’inferno della serie C per riportarlo poi in A. Che cambiò decine di allenatori, che usò la scaramanzia come assoluta religione che finì, come Napoleone, due volte sulla polvere (due parentesi nel carcere di Buoncammino) e qualche volta sull’altare. Adesso molla. Vende tutto, dopo la fuga personale a Miami e dopo aver acquistato una squadra inglese, il Cagliari Calcio passa la mano. Arrivano gli americani. Chissà. Magari sarà la svolta, magari sarà un fallimento. Ma non ci sono più le figurine, i Pizzaballa, i Nicolai, i Boninsegna e i Carmignani di una volta. Non ci sono più quei bambini che urlavano festanti intorno ad un gioco bellissimo, metafora della vita. E se tutto questo non c’è più è perché un po’ non c’è più Gigi Riva e un po’ perché al posto suo, nel 1992, è entrato in questo strano mondo uno come Cellino. E tutto ha preso un’altra piega.
(ARTICOLO APPARSO SULLA NUOVA SARDEGNA DEL 27 MAGGIO 2914)
L’articolo lo dedico, idealmente, ai ragazzi di cinque stelle che, anziché ammettere normalmente di avere perso, hanno diramato un comunicato nel quale dicono che, in realtà, non hanno perso due milioni e mezzo di voti ma, considerando le astensioni, sono molti di meno. E dire che queste cose (il preambolo) le dicevano nel secolo scorso i democristiani. Ecco, insomma, anche loro l’hanno buttata in politichese. In ogni caso l’articolo è solo ironico e leggero. Il Malox, tutto sommato, in questo caso non serve. Buona lettura.
C’è un’indimenticabile canzone di Francesco De Gregori che ha segnato una generazione, tratta da un album fortunatissimo: “Titanic”. La canzone ha un incipt bellissimo e ispirato: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento”. Si trattava del transatlantico che apponeva prezzi differenziati: per classi. Anche in treno esisteva la prima e la seconda classe. In aereo quella turistica e quella business. Dal Titanic ad oggi non è cambiato moltissimo: le classi, quel concetto tanto trattato dalla fine del 1800 esistono ancora. La notizia è stata ripresa dai maggiori quotidiani e ha destato un piccolo scalpore perché tratta di bambini e della scuola. In una città laziale, Pomezia per la precisione, è iniziata la “guerra delle merendine”. Pare infatti che un sindaco, appartenente al movimento Cinque stelle abbia deciso, con la sua giunta, che dal prossimo anno nelle scuole materne saranno presenti due menù: uno con il dolce, al costo di 4 euro e 40 centesimi, un altro senza il dessert, da 4 euro. Dopo la protesta di genitori piuttosto agitati e indignati, i rimbrotti del presidente della Regione Lazio Zingaretti che ha definito la scelta “immorale, in quanto si nega il dolce ai piccoli meno abbienti” , alle parole del sindaco di Torino Fassino il quale stigmatizza la scelta come “ridicola e umiliante” per i bambini sono arrivate anche le parole del segretario di Fratelli d’Italia Meloni che ritiene questa scelta una “follia amministrativa”. Una desolante Caporetto per il sindaco che però si è difeso. “ E’ solo un complotto del Pd ordito alla vigilia delle elezioni europee” e ha aggiunto: “il bando comunale con i due menù era stato approvato a Dicembre scorso all’unanimità, e comunque il Comune di Pomezia aiuterà le famiglie che non possono pagare il dolce ai propri bambini”. Tutto rientrato? Probabilmente si. Con qualche piccola considerazione utile per comprendere le stratificazioni del nostro strano paese. C’è sempre una contrapposizione politica votata allo scontro e la risposta di chi in quel momento è al governo è sempre la stessa: “Un complotto”. Che non regge. E fa sorridere. Si grida al complotto per qualsiasi cosa, si vede un complotto in qualsiasi scelta. C’è poi chi spara più alto e aggiunge: è stato un colpo di Stato. A queste esilaranti iperbole linguistiche si aggiungono però le scelte goffe di chi l’errore lo ha commesso e rischia di peggiorare, con le spiegazioni, ciò che è accaduto. In questo caso, per esempio, bastava ammettere semplicemente di non aver considerato che i due menù avrebbero comportato una sorta di selezione, peraltro antipatica. Poteva benissimo eliminare il famoso dessert e sostituirlo con un frutto di stagione e provare a contenere i prezzi eliminando i grassi saturi. Poteva raccontare che il suo partito, dove uno vale uno, voleva appunto dimostrare quanto è semplice creare diseguaglianze e che questa scelta voleva essere solo una dimostrazione per costringerci a riflettere. Invece si è giocato la parola “complotto”. Come tutti. Senza nessuna fantasia. Allora, messa in questi termini, non ci rimane che la solita e terribile frase “sono tutti uguali” ma, in questo caso suona male. E’ vero, magari sono tutti uguali ma tendono ad insegnare, da subito, che esistono le differenze. Quello che non si vuole capire è nascosto nella bellissima canzone di Francesco De Gregori, in quel suo inizio: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento”. Queste classi sono ampiamente superate, siamo giunti ormai alla terza quella del “dolore e spavento”. Navighiamo in questo grande transatlantico molto simile al Titanic e ci affidiamo di volta in volta a dei capitani senza rotta che gridano “andiamo avanti tranquillamente”. Per poi difendersi, quando beccano l’iceberg, con l’unica frase che in politica è diventata bipartisan: “E’ stato un complotto”.
La mia classe è fatta di molti bambini dove ci sono anche io. Io sono al terzo banco e la maestra mi ha messo con Gianluca. Non sono molto contento di questo Gianluca perché tifa la Juve e a me gli juventini non mi piacciono perché sono barrosi e si vantano che vincono sempre. Poi quando perdono, anche se perdono poco ma buscano da quelle squadre estere che sono più forti Gianluca si mette in silenzio tutto il giorno e non presta più niente. Dietro di noi ci sono due femmine che sono Manuela e Silvana. Sono abbastanza simpatiche ma quando ridono non si possono vedere perché non hanno denti dritti e portano la macchinetta quella che si mischia con il pane e loro non lo mangiano. Degli altri ne parlo poco perché siamo amici ma non troppo. Voglio parlare di Mirko e della sua mamma, una signora bionda con la macchina gialla molto grande. La mamma di Mirko sta sempre parlando e dice sempre che ha molte cose da fare e gira parecchio il mondo con gli aerei e porta molti regali a Mirko. Mirko con altri sette bambini che non metto i nomi perché sennò la maestra mi dice che allungo il brodo, a pranzo quando c’è la mensa si siedono tutti in un bancone vicino alla cucina. A loro dopo che tutti finiamo prima il primo e dopo il secondo gli tocca il dolce. A noi seduti di fronte no. La mamma di Mirko che parla sempre ha detto : ” quanto mi dispiace poverini “ ma lei non può fare nulla perché il dolce si paga e mica può pagarlo a tutti. Mia mamma quando ho detto questa cosa a casa non ha parlato molto e ha detto che lo diceva a mio padre. La sera dopo la cena mio babbo mi ha detto che io sono fortunato perché lui ha combattuto per me per salvarmi da una malattia brutta che ti fa venire una pancia grande e non puoi giocare più a pallone. Questa malattia mi ha detto mio babbo viene a chi mangia il dolce nella mensa della scuola perché quella tortina contiene una cosa tipo grasso che si attacca alla pelle e non si stacca più. Io guardo tutti i giorni Mirko e gli altri sette ragazzi. A parte Valeria che era cicciotta dalla prima elementare gli altri mi sembrano uguali e continuano a giocare a pallone. Io però sono convinto di quello che mi dice babbo e aspetto che alla fine della scuola quelli che mangiano il dolce diventano palle di lardo e noi riusciamo a vincere a calcio o fuggiamo a acchiaperllo che non ci prendono mai. La mia classe mi piace molto anche se è divisa in due per colpa del dolce. Mia madre quando mio padre non c’era mi ha detto che quando divento grande capirò. Che devo cominciare ad imparare dove sedermi che mi serve più avanti. Mi ha anche detto che anche i grandi vivono in tante classi diverse ma senza maestre e che ci sono uomini che hanno il dolce e altri uomini no. Ho capito che forse quella cosa di babbo non era molto vera, ma io lo perdono perché ha il nervoso che ha perso il lavoro e i dolci non gli sono mai piaciuti. Devo finire dicendo che il dolce non piace neanche a me. Come gli juventini barrosi.
Luca. Quinta B.
Dedicato a tutti i bambini delle scuole elementari di Pomezia che, grazie ad una decisione della giunta (sindaco cinque stelle, ma è un caso, chiaramente) saranno divisi per merendine: i genitori che pagano 40 centesimi in più daranno la possibilità ai loro figli di poter avere, dopo il pranzo, una merendina. Gli altri bambini staranno a guardare. Ma questo non significa che non possano capire.
Adesso, che il sole è tramontato è tempo di controllare le nostre ombre. Adesso, quando la polvere ha cominciato a sedimentare su quei corpi fermi, irrisoluti, inermi, è tempo di sedersi ed ascoltare il cuore. O quello che ne resta. Per quello che serve, per il futuro nebuloso e gonfio di lacrime nascoste, di pianti disperati. Adesso, con la coscienza ancora in disordine, possiamo sederci e provare a guardare. A razionalizzare tutte le fotografie mosse che ci hanno invaso in questi giorni gonfi di orrore. Siamo partiti da lontano, a dire il vero. Come sempre. Siamo partiti a disegnare ombre che non combaciavano con i nostri palazzi e le nostre storie. Mica si può aprire la porta, la nostra porta, all’orrore. Quello, di solito viene da lontano, sempre da lontana.
Ed invece.
Ecco. davanti a quelle bare mute, davanti agli occhi di tutti i tempiesi impotenti, davanti al Limbara, a quei monti scolpiti nel silenzio atavico dei millenni non riusciamo a dire, a sussurrare semplicemente: ed invece.
Di questo si tratta. Le ombre erano i nostri alberi, le nostre radici e non sappiamo perché hanno potuto disarcionare le fondamenta della nostra casa. Tutto era perfetto, i sorrisi con le labbra giuste, i panorami sempre lucenti, le passeggiate a Rinaggiu, le risate in piazza Gallura. Ed invece.
Provare a risalire sino alla sorgente di questo fiume perché è questo che dovremmo cominciare a fare. E non stare sempre seduti davanti alla larga foce, dove tutto passa e tutto si dipana. La sorgente è il punto di partenza.
Ed invece si preferisce il delta, dove è difficile comprendere le molecole, dove tutto si mischia: dolce e salato. Noi speravamo di poter dire: questa strage non ci appartiene. Non è nostra.
Questa storia dei comunisti non l’ho mai capita. Una volta mangiavano i bambini, poi mangiavano a sbafo, poi non avevano voglia di lavorare, poi ce l’avevano un po’ con tutti. Insomma: i comunisti non erano propriamente delle belle persone. E io, quando tornavo a casa ne soffrivo. Mi piazzavo sul mio vecchio Teac L60 il disco di Claudio Lolli “Io ti racconto” e piangevo. Poi, se volevo dare una svolta di allegria a quegli attimi facevo girare sul piatto “la locomotiva” di Guccini. Per far trionfare la giustizia proletaria.
Io, questa storia dei comunisti l’ho vissuta intensamente. Ci ho provato a dire che non era solo ideologia, ma serietà e sacrifici. Studiare, imparare, ricordare, stare attenti, saper citare Gramsci, affermare che anche Berlinguer era una persona solare. Ci ho provato a dire che io, Magistrato per vocazione e per amore, ero anche profondamente comunista. Sinceramente comunista. Quando tutti gli altri si vestivano da John Travolta io ero un comunista che suonava la chitarra in spiaggia e strimpellava De Gregori, Dalla, De André e, seppure fossimo in numero dispari, rimanevo sempre solo: io e la mia chitarra. Gli altri a pomiciare. Io ad ascoltare il mare e le onde. Ero un comunista contemplativo. E coglione. Son passati gli anni e di comunisti, di quelli veri, non ce ne sono più. Gianvittorio, il mio carissimo e stronzo amico, dice che son rimasto solo io. A continuare a credere nella legalità, nell’etica, nella giustizia. Senza il proletariato. Anche lui ormai dissolto.
Questa storia dei comunisti mica l’ho capita. Del processo mediatico grillino. Che durerà un anno e forse più: trionfi la giustizia cinquestelle. Continuo a fare il magistrato e provo a mettere ordine in un disordine catastrofico. Ho ancora i miei vecchi dischi e gli antichi libri. Ogni tanto suono la chitarra sul terrazzo davanti al mare. E mi sento un po’ coglione. Ma colpevole di essere comunista no. Quel piccolo vezzo mi è rimasto. E me ne vanto.
(Claudio Marceddu, Magistrato inventato, protagonista di due libri e del prossimo, in uscita a settembre, sempre che Grillo sia d’accordo)
Articolo apparso sulla prima pagina della Nuova Sardegna del 19 maggio 2014. (riproduzione riservata) Giampaolo Cassitta
Che colore ha l’orrore? Quell’anfratto scavato nella periferia del mondo, quel cunicolo viscido e silenzioso che ci trasporta nei primitivi gesti tutti legati all’istinto bestiale, alla furia incontrollabile di cose che con la razionalità non si spiegano. Quei colori cupi, densi, quegli occhi sbarrati, quelle parole che non fuoriescono e rimangono incollate tra il silenzio e la paura. Dovremmo chiedercelo che colore ha questo orrore quotidiano che ci assale e ci costringe a girare il volto da un’altra parte perché, tanto, non ci riguarda, perché, tanto, non ci ha colpito, perché, tanto, è solo un film. Così coloriamo le cose che ci girano intorno e le chiamiamo notizie e non riescono mai i diventare storie con volti veri di uomini, con tracce di vita e di sofferenza. I morti per incidenti stradali sono attualità, come quelli che muoiono divorati dal tumore. E sono “attualità” anche quei corpi inermi divorati da un mare considerato amico e fratello, quei corpi di uomini in fuga verso un altro futuro che non raggiungeranno mai. Noi ascoltiamo, proviamo a classificare nella nostra mente quella notizia e dentro i cassetti della memoria diventerà “altra”. Troppo lontana per ricordarla. Come gli omicidi che si compiono ormai quotidianamente e con accurata distrazione vengono raccontati. Uomini che massacrano le loro donne giustificandosi vergognosamente di averlo fatto per amore. Uomini che massacrano altri uomini per denaro, per paura, perché fanno parte di un’organizzazione criminale e non sanno soppesare i cuori di nessuno. Poi, dentro queste notizie divenute quasi “normali”, registrate come un orrore quasi sopportabile, si registrano nuove piccole scosse che smuovono le coscienze e la crosta quasi indurita dei nostri sensi: un ragazzo massacra i nonni e la zia. Un ragazzo, uno della porta accanto, uno sportivo, un figlio normale. Questo ragazzo si dipinge la strada di sangue e di orrore. Cocaina, vita veloce, paura di dover crescere, troppo amore per i nonni che non voleva far soffrire. La fuga da Santhià verso Milano e poi Venezia. Poi, davanti a quel colore forte, indicibile, davanti a quel silenzio ottuso, terribile, davanti a quel pozzo senza acqua si ferma. Si consegna alla polizia e all’orrore del carcere, dove macinerà attimi che saranno anni. Perché non ci sono spiegazioni a queste storie? Perché, probabilmente, non sono storie e difficilmente si possono raccontare. Ma l’orrore si avvicina, la scossa tellurica, infine, giunge sino a noi: a casa nostra. Una famiglia massacrata: un padre, una madre e un figlio di dodici anni. A casa nostra. Nella porta accanto: a Tempio Pausania. Dove un fatto del genere non era mai accaduto. Assassinati a sprangate. L’orrore non si dipana, cammina come un fiume in piena e ci travolge. Ci costringe a fermarci, provare a comprendere qual’ è il punto di non ritorno, quale potrebbe essere la traduzione per tutte queste pagine apparentemente illeggibili. Magari la verità è semplice ma non è bella. E, sinceramente, non credo neppure sia così semplice. Non si costruisce l’orrore solo per magnificare la propria follia. Non si uccidono a sprangate le persone. Non si uccide, semplicemente, un bambino di dodici anni. Il triplice omicidio di Tempio Pausania ci obbliga a domandarci dove è arrivato il confine tra il possibile e la sopportazione. Probabilmente non ci siamo soffermati abbastanza ad analizzare e soppesare le situazioni, probabilmente la crisi di valori è irreversibile, probabilmente dovremmo poter coniare nuove risposte e non lasciarci investire dall’emozione e, successivamente, dall’indignazione. Non basta. Non basta più. Il punto di non ritorno probabilmente è stato già toccato. Si tratta di rivedere meglio le regole d’ ingaggio di questa nostra società: si tratta di scavare nelle viscere delle inquiete solitudini, dei troppi silenzi, delle nostre facce voltate da un’altra parte per non voler vedere quell’orrore che ha il colore dei nostri indifferenti gesti.
C’è il giorno dello sgomento e quello dell’attesa. Ci sarà spazio anche per la pietà. Ma quello è un altro giorno. Il respiro corto delle ultime ore ci ha portato a scovare strane verità. Un triplice omicidio compiuto da una sola persona con un movente ancora tutto da spiegare e da comprendere. Non erano malvagi venuti dal mondo dei cattivi e non erano neri o verdi e neppure cinesi. Erano occhi abituati alle nostre montagne, alle nostre strade, occhi che si abbeveravano delle stesse nostre storie. A quanto pare. Già, perché di questo si tratta: comporre e ricomporre attimi di follia e di terrore, comporre e ricomporre pensieri spacchettati, stritolati dal furore del momento, incapaci di bloccarsi, di fermarsi, di provare ad entrare in qualche binario arrugginito della memoria e fermarsi. Non lo ha fatto. Oppure non lo hanno fatto. Ho imparato, per mestiere, che la verità è terribilmente diversa dalla verità processuale e, a volte, ci fa comodo quella stereotipata, quella semplice: vittima-assassino. Ci crea una sorta di tranquillità apparente, ci consente di continuare a camminare quasi con leggerezza. Certo, avremmo preferito il cinese, l’extracomunitario, il continentale, uno che venisse da altrove e non qualcuno che raccoglieva quotidianamente i sorrisi del paese. Uno dei nostri. Siamo solo all’inizio di un percorso terribile. Siamo solo davanti piccoli e frammentari fatti e qualcuno si è già preso la briga di spiegare, analizzare, provare a comprendere. Fosse così facile da spiegare questa enormità. Fosse così semplice parlare a sangue ancora caldo, a sangue della nostra stirpe. Ecco, personalmente attendo di provare a comprendere. C’è qualcosa che non torna in questa storia nera come la notte di novembre. Non torna quell’ apparente normalità, non torna quella terribile cattiveria, non torna la solitudine di un ragazzo giovane schiacciato da un peso enorme. Non tornano molte cose e vorrei tornassero. Ma comprendo che anche oggi è il giorno dello sgomento. Arriverà quello dell’attesa e della pietà. E proveremo a dipanare quella nebbia scura che ha macinato i nostri sorrisi. Arriverà quel momento per comprendere tutte le urla della Guernica che ci ha devastato l’anima, quella guerra fatta in casa, nella nostra casa. Quel fuoco probabilmente una volta amico.