.La vita, poi, gira come una canzone e ti trasporta nelle arterie dei ricordi, dove il sangue circola e ritorna. Perché le canzoni ricompaiono per saltellarti dentro e ti accompagnano negli scenari della tua esistenza ormai dimenticati. Ci sono musiche e suoni indelebili e ci sono movimenti intorno a quei suoni e a quelle parole che riescono a dipingere di verde anche il deserto più triste. Una canzone, su tutte, la trasporto da anni nella mia particolare saccoccia della memoria. Domani ricorre l’anniversario della morte di Fabrizio De Andrè. (sono, ormai, quindici lunghissimi anni). Le canzoni però girano sempre e restano, come i libri, le fotografie, i sospiri e gli amori. Quelli veri. Quelli che disegnano ferite e le rimarginano con le lacrime dell’affronto. Io amo, terribilmente, Nella mia ora di libertà, la canzone che chiude l’album più bello (a mio parere, certo) di Faber: “Storia di un impiegato”. Mi piace perché è la sceneggiatura di un film. Di un film che io, paradossalmente, ho visto e rivisto nei miei trentuno anni di “galera”. Quella canzone cammina all’interno di ogni carcere da me visitato per lavoro (e ne ho, davvero visitati tanti e non solo in Italia) quella canzone è la colonna sonora all’interno dei passeggi dove vedo spesso detenuti intenti a parlare fitto e camminare velocemente, nella loro ora di libertà. E mi piace l’idea, assurda, fuori misura e dunque bellissima, di uno sciopero da parte dei detenuti, di voler rinchiudere gli agenti nell’ora di libertà. Quella canzone è una sconfitta atroce. Lo so. E’ l’inno di un perdente, ma di un perdente che ha compreso fino in fondo la sua sconfitta: dal suo sogno politico al suo sogno d’amore, in anticipo su ogni stupore. Dentro questa canzone io ci vedo tutto il De Andrè del mondo. Tutto. La sua analisi lucida sui fatti, il suo mescolare politica e poesia, e se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone ecco, spartiamoci la prigione: il non luogo, il non rumore. La non vita. Perché di questo si tratta: saper spartire, saper dividere, saper chiedere una polemica di dignità. Ma c’è, davvero, tutto l’amore del mondo condensato in poche frasi, c’è tutto l’amore del mondo tra un uomo e la sua compagna: “da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio”. C’è tutta la bellezza del mondo, l’accettazione, il rispetto, l’abbraccio di due persone in queste poche e struggenti parole. E quella frase dura, durissima, a disegnare le verità che oggi tutti vediamo, ma dovevamo scriverle nel 1972 per essere oggi credibili. E lo facevano, tra i pochi, De Andrè e Pasolini. Per dire. Quella frase a rappresentare tutta la verità del mondo: non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni. Quella frase finale a rappresentare tutte le frasi del mondo, tutte le vite del mondo, le passioni, gli impegni, le urla del mondo: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.
Ecco. La mia canzone. La ferita che ritorna a ricordare le vecchie cose: le bandiere, le lotte, i sogni, gli scazzi, la voglia di, la voglia per, quel “pagherete caro, pagherete tutto” e tra tutte le grinte, le ghigne e i musi, poche le facce e tra loro lei. Ecco. La mia canzone. Partita dall’adolescenza mi ha accompagnato anche tra le sezioni fredde e buie di un carcere a provare a regalare a qualcuno almeno un’ora di libertà. E di dignità. Ciao Fabrizio. Mi manchi. Maledizione. Però ci sei. Con tutto l’amore che hai potuto, fatto di rabbia e di forza a camminare sempre con destinazione ostinata e contraria. Ho provato a fare questo mestiere anche per colpa di questa canzone. Sono profondamente convinto (ancora, dopo 31 anni) che non possiamo togliere la primavera a chi in galera ci passa giorni duri e solitari. Dovremmo, invece, provare a fargli respirare quell’area leggera, di libertà e di coraggio. Ciao Fabrizio. E grazie. Per la tua grande ora di libertà. Che da tempo è anche mia.
Ecco. La mia canzone. La ferita che ritorna a ricordare le vecchie cose: le bandiere, le lotte, i sogni, gli scazzi, la voglia di, la voglia per, quel “pagherete caro, pagherete tutto” e tra tutte le grinte, le ghigne e i musi, poche le facce e tra loro lei. Ecco. La mia canzone. Partita dall’adolescenza mi ha accompagnato anche tra le sezioni fredde e buie di un carcere a provare a regalare a qualcuno almeno un’ora di libertà. E di dignità. Ciao Fabrizio. Mi manchi. Maledizione. Però ci sei. Con tutto l’amore che hai potuto, fatto di rabbia e di forza a camminare sempre con destinazione ostinata e contraria. Ho provato a fare questo mestiere anche per colpa di questa canzone. Sono profondamente convinto (ancora, dopo 31 anni) che non possiamo togliere la primavera a chi in galera ci passa giorni duri e solitari. Dovremmo, invece, provare a fargli respirare quell’area leggera, di libertà e di coraggio. Ciao Fabrizio. E grazie. Per la tua grande ora di libertà. Che da tempo è anche mia.