È il 1985. Il giovane Carlo Marceddu ha appena vinto il concorso da uditore giudiziario e si avvia a compiere il passo iniziale della sua carriera da magistrato. È guidato, in questo apprendistato, dai saggi consigli del procuratore capo Perra Tassiccai, uomo esperto e rigoroso.
La sua prima inchiesta nasce da una lettera anonima, straripante di rabbia mai sopita e di sgrammaticature. Sarà una lezione di storia e di vita, la scoperta di come silenzi e omertà di oggi siano figli di sangue ormai rappreso, versato in un passato lontano.
Quella lettera racconta di un delitto compiuto quarant'anni prima, cancellato persino dai registri comunali, sepolto dall'omertà e da complicità diffuse, ma non dalle memorie più profonde. Ad esempio quella del parroco del piccolo paese di Gosilì, Don Pistidda.
Ma è un delitto di cui nessuno vuole parlare.
Il giovane Marceddu capirà che l'esigenza categorica della verità, la verità dei fatti per cui ha studiato, spesso non può profanare certe convenzioni sociali della Sardegna di un tempo. Così ha voluto il cielo, dice Don PIstidda. "Le destinazioni del cielo" (Arkadia editore, 16 euro) è l'ultimo romanzo di Giampaolo Cassitta, componente della squadra di Sardegnablogger.
La storia è un intrecciarsi di sogni e miti giovanili di un giovane comunista: Marceddu è comunista come lo si poteva essere allora, con quel che restava degli anni settanta nel decennio craxiano. Sogni e miti che naufragano o si smorzano col procedere della vita. Dentro questa storia ci sono Alghero e la sua dolce vita, tic e stereotipi della sinistra di allora, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Gigi Riva, Mino Martinazzoli e la Sardegna immobile e deleddiana, terra fertile per quel delitto rimosso.
Confesso di essere stato frenato da qualche scrupolo quando Giampaolo mi ha chiesto di recensire il suo libro. In fondo siano componenti di uno stesso progetto, colleghi di redazione. Me ne sentivo onorato ma temevo che questa complicità potesse offuscare la lucidità del giudizio.
"Le destinazioni del cielo" è un libro dolcissimo e sincero e, oggi, posso dire che non leggerlo sarebbe stato un vero peccato. Per fortuna so andare oltre certi luoghi comuni. Come ha imparato a fare il magistrato comunista Carlo Marceddu, nel suo viaggio verso la verità. Una destinazione del cielo, anche quella.
*Editoriale apparso sulla prima pagina del quotidiano “la nuova Sardegna” del 16/9/2014
E’ finita la vecchia storia del sardo solitario, del pastore “solu ch’e fera”, dell’atavica divisione tra uomini e donne appartenenti alla stessa terra? Probabilmente quello che è successo ieri a Capo Frasca è un punto di partenza ed è il desiderio di essere, finalmente, protagonisti. Metterei da parte l’orgoglio e la diffidenza, la divisione e la solitudine almeno per un attimo. Proverei ad analizzare la manifestazione in termini squisitamente letterari, metaforici, una sorta di fraseggio per immagini che hanno scosso le coscienze da tempo sopite. Non è importante sapere quanti fossero i sardi presenti sabato scorso a Capo Frasca e non è neppure interessante il balletto dei numeri tra gli organizzatori e la polizia. L’impressione è che quei tanti, quella piccola e significativa moltitudine, rappresentava “tutti”, rappresentava quell’incessante desiderio di esserci, rappresentava e ha rappresentato la voglia incontenibile di dire basta. Erano presenti molti sindaci, alcuni parlamentari, erano presenti gli intellettuali per poter analizzare, senza cedimenti, ciò che stava accadendo e, intorno molte, moltissime persone che hanno sentito il desiderio forte, incontenibile, irrefrenabile di esserci. Perché volevano raccontare qualcosa. Volevano descrivere un racconto, una storia, volevano, in qualche modo cambiare il corso delle cose, volevano rappresentare a chi quel libro l’ha scritto per anni, che il finale andava cambiato. Che la storia si poteva e si doveva modificare. Quella storia costruita sulla terra di un popolo, quella storia che ci ha scippato albe e tramonti, colori e voci. Quella storia che ha ridisegnato i nostri confini senza che noi parlassimo, con la segreta speranza che quei lembi di terra “prestati” per giochi di guerra, fossero utili per dare un lavoro. Perché poi, a ben guardare, sempre di questo si tratta: zittire un popolo riempiendogli velocemente la pancia. Poi, però, come tutte le cose scadenti che vanno “a male” ecco che intorno al fiorente mercato delle armi, dei giochi di guerra, nascono strane voci: si parla di bonificare il territorio e si procede velocemente e male. Per questo si muore di cancro. Ed ecco che tra il silenzio assordante delle autorità militari, molto più forte di quello antico e duro dei pastori sardi, si comincia a sentire lievi rumori, piccole ammissioni. Nascono le testimonianze e le voci accavallate diventano certezze: molti giovani sardi che hanno svolto il servizio militare nelle varie zone teatro dei giochi di guerra muoiono di tumore perché le bonifiche nucleari venivano effettuate a mani nude. Capo Frasca è dunque il punto di arrivo di una serie di vessazioni che si sono succedute negli anni. Ma è anche il punto di partenza per provare un nuovo percorso. Un percorso letterario, fatto di parole e di segni. Questo essere presenti ha significato che tutti vogliono riscrivere il libro della Sardegna: una cosa da sardi e tra sardi. Senza altre ingerenze. Significa che attraverso gli occhi di migliaia di persone occorre ripercorrere le scelte degli ultimi anni che hanno regalato fette di territorio abnormi ad uno Stato che non ha avuto lo stesso metro di divisione in altri luoghi. Uno Stato cieco, che non ha saputo conservare le proprie bellezze, che non ha saputo soppesare l’importanza storica e naturalistica dei luoghi. Uno Stato che ha chiuso frettolosamente la questione. Capo Frasca è dunque il modo per proporre e riproporre il nuovo romanzo della nostra gente, del nostro popolo. I sardi di Capo Frasca erano da quelle parti perché consapevoli di essere sardi e perché, finalmente, sentivano l’esigenza di rompere quell’atavico silenzio diventato un falso luogo comune per troppo tempo. Ora, l’esame critico dei fatti ci porta, necessariamente, a dover essere consapevoli e soprattutto razionali. Diceva Pasolini “non esiste razionalità senza senso comune e concretezza. Senza senso comune e concretezza la razionalità è fanatismo”. Ecco, il nostro nuovo libro dovrebbe partire da questo punto: senso comune e concretezza. (tutti i diritti riservati by La Nuova Sardegna e Giampaolo Cassitta)
Una volta c’era lo slogan “io sono mia”. Decisamente dirompente e francamente egoistico, ma rappresentava una sacrosanta battaglia di liberalizzazione dell’universo femminile. Vecchie storie e antiche lotte con a fianco anche i vari “compagni” maschilisti. Oggi, invece, c’è un altro slogan coniato da una donna che, probabilmente ritiene il primo ampiamente superato dalla velocità dei tempi. Il sottosegretario alla cultura, Dr.ssa Francesca Barracciu ha coniato un nuovo modo di vedere le cose: “la pagina è mia e la gestisco io”. Si tratta di una risposta che la Dr.ssa Barracciu ha voluto dare ad una signora intervenuta in risposta ad un suo post - una foto di un quotidiano dove il sottosegretario rilasciava un’intervista sul prossimo segretario regionale del Pd - aggiungeva candidamente “è gradita ampia discussione, grazie”. Ho subito pensato: una bella e interessante apertura. Le parole “ampia” e “discussione” lasciavano presagire una sana presa di posizione da parte di chi aveva letto il post e, chiaramente, nell’ampia discussione ci stavano anche le critiche. La signora Giovannina Bussu è subito intervenuta scrivendo: “ Non si sputa sul piatto dove si è mangiato da sempre”. Forse un’accusa, forse un’affermazione che, probabilmente era dettata da un’analisi frettolosa. Ma, come dire, anche questo poteva servire per l’ampia discussione. La Dr.ssa Barracciu non si è risparmiata e ha testualmente risposto: “Cara signora, intanto questa pagina si da il caso che sia la mia. Dopodiché cara signora io non sputo proprio da nessuna parte. Forse questa sarà una sua abitudine ma mia no, cara signora. Io, la informo sono stata candidata dal mio partito come tutti quello che nel mio partito hanno ruoli istituzionali, Renato Soru compreso. Ma non basta essere candidati per essere votati e soprattutto per essere eletti. Una volta candidati (dal partito) bisogna ottenere il consenso dei cittadini quindi (al momento delle elezioni) i voti. E quando si fa la campagna elettorale c'è il candidato o candidata con la sua faccia, la sua storia, la sua preparazione e quello che ha fatto. Ergo, Quando si ha l'onore di essere eletti (e io cara signora lo sono stata tante volte con migliaia di voti) bisogna ringraziare esclusivamente il partito e i cittadini e le cittadine che hanno espresso le preferenze PERSONALI e non in conto terzi. Quindi io devo ringraziare, e l'ho sempre fatto, il mio partito e le migliaia di persone che hanno fiducia in me. Ritengo inoltre di doverle spiegare che questa fiducia non c'è perché il partito da l'ordine ai cittadini di votare. Questo lo capisce vero? I le persone esprimono il voto se quella persona ha dimostrato con i fatti di meritarselo. Oppure lei vota qualcuno perché c'è chi glielo ordina? Se e' così mi dispiace per lei cara signora.”
Mi dispiace per lei Dr.ssa Barracciu. Perché chi cerca un’ampia discussione si deve aspettare gli interventi e deve essere in grado di rispondere. Intanto, si da il caso che la pagina di Facebook è pubblica. Possiamo, se crediamo, non far inserire i commenti ma cadrebbe, ahinoi, l’ampia discussione. Non si capisce poi dove sia stata candidata la Dr.ssa Barracciu: il suo partito, dopo la sua vittoria alla primarie le ha suggerito un passo indietro a favore di Francesco Pigliaru; non è più consigliere regionale e neppure deputato europeo. In questo momento, dunque è sottosegretario del governo Renzi senza che nessun elettore abbia potuto esprimere un solo gradimento nei suoi confronti. Per carità tutto lecito, ma lei, attualmente, non è “eletta”. Poco edificante, poi, la seconda parte dell’ampia discussione: bisogna ringraziare il partito (e lei l’ha sempre fatto) e le migliaia di persone che hanno fiducia in me (non in questo momento almeno; sicuramente in un prossimo futuro, ma non oggi). Sinceramente criptica l’ultima parte: “La fiducia non c’è perché il partito da l’ordine ai cittadini di votare. Questo lo capisce vero?”
No, Dottoressa, non lo capisco e con me molti altri che hanno partecipato all’ampia discussione sulla “sua” bacheca. Ricordo alla Dr.ssa Barracciu che alle ultime elezioni nazionali i candidati non sono stati votati e ci siamo ritrovati a subire le scelte dei partiti. Quindi nessuno ci ha ordinato di votare qualcuno, ma siamo stati “obbligati” a prendere il “pacchetto” scelto dai partiti e Le ricordo che, proprio il PD, ha candidato un socialista romano in Sardegna, un signore che non si è mai visto da queste parti e mai si è interessato dei problemi della nostra terra. Dr.ssa Barracciu, mi piaceva di più il vecchio slogan “io sono mia”. Era sicuramente più intimista, ma almeno non comportava queste piccole “lezioni” che, chiaramente non hanno niente a che vedere con quelle “americane” del buon Calvino che lei, sottosegretario alla cultura, conoscerà senz’altro. Buona serata.
Io ho visto con i vostri occhi quel colore di cielo e di mare. Quelle rocce antiche e silenti. Ho visto, con i vostri occhi, la voglia incontenibile di essere presenti, di dire “ci siamo”. Ho visto la forza dei vostri sguardi, dei vostri solidi silenzi. Non è più tempo per scrivere nuove favole, per raccontare altre verità. Ho visto le vostre mani e i pugni e i passi, lenti e decisi. Io ho visto la mia gente muoversi non per arrivare, sarebbe troppo facile, ma per partire. Perché questo ho visto: la possibilità che la folla, la gente, i sardi, possono cominciare a costruire il loro futuro. Io ho visto sindaci, politici, intellettuali, scrittori, ho visto anche chi provava a farsi pubblicità, con la voglia furbesca di “esserci”. Ho visto anche questo e ci sono abituato. Ma, come dice Pasolini “ci sono le ragioni oggettive per un impegno totale. Lo stato di emergenza coinvolge le masse: soprattutto le masse”. Ho visto, dunque che la gente è diventata massa e nutro la segreta speranza che quella stessa gente possa diventare popolo. Ho visto la voglia di essere protagonisti, di essere pronti a ridisegnare i propri orizzonti. Io, a Capo Frasca c’ero: con i vostri occhi. E ho capito che la cultura di una nazione è una marcia pacifica, dolce, pasticciata e confusa. E’ la voglia di accartocciare tutte le parole del mondo e gettarle tra la terra e il cielo. Grazie per esserci stati. Grazie perché mi avete dato l’opportunità di vedere tutte queste cose che hanno colorato la mia giornata. Ripartiamo da Capo Frasca.
Ho sempre pensato che i protagonisti dei romanzi potessero un giorno venirmi a trovare, magari a casa, mentre tranquillamente guardavo la televisione o leggevo un libro. Alcuni li ho amati moltissimo, altri meno, altri ancora li ho detestati e di alcuni ho avuto paura. Misery, per esempio, la protagonista del libro di Stephen King, mi produce sempre una certa adrenalina e, davvero, mi inquieta. Adso, il protagonista del “nome della Rosa” di Umberto Eco spero sempre che un giorno mi venga a trovare. Mi piace quel suo voler scoprire a tutti i costi i misteri della vita. Così nella mia popolosa presenza di personaggi amati e abbracciati leggendo numerosi libri non posso non annoverare quelli di Cent’anni di solitudine. Tutti, indistintamente: da Josè Arcadio Buendìa primo, al secondo, ad Aureliano Rebecca, Rimedios, agli zingari e il loro circo, al grande Colonello Aureliano, il condottiero combattente perdente di tutte le battaglie. Cent’anni di solitudine e Macondo è stata una bella storia. Che mi ha accompagnato nelle colline tortuose dell’adolescenza e ho ritrovato, dopo diverse curve, anche nei rettilinei della compassata adultità. La cosa più bella è immaginare Aureliano Buendìa ricordare la prima volta che ebbe la possibilità di conoscere il ghiaccio. Quel pezzo, decisamente rappresenta l’arte sublime del narrare ed è, forse, il miglior incipt dei tantissimi libri che ho letto. Scoprire che a Perdasdefogu hanno voluto titolare una piazza a “cent’anni di solitudine” mi emoziona moltissimo. E’ un omaggio a Gabriel Garcia Marquez ma è un dolcissimo pensiero a tutti i personaggi della saga di Macondo. Nessuno, per esempio ha mai pensato di titolare una piazza ai “Promessi Sposi” o a “canne al vento”. Probabilmente sbagliando abbiamo pensato sempre allo scrittore e le nostre vie sono intasate da Alessandro Manzoni e Grazia Deledda. Ma abitare o passeggiare in “Piazza cent’anni di solitudine” è di una leggerezza impagabile. A volte le piccole idee rendono il mondo più dolce. Così, quando su una panchina a Perdasdefogu ci si rilasserà, in Piazza Cent’anni di solitudine ci sembrerà che prima o poi passi prima Ursula e poi Josè Arcadio con Melquiades che proclama sorridente: “La scienza ha eliminato le distanze.” Anche le idee come questa finiscono per ributtarci dentro un mondo bellissimo e avvolgente: quello dei libri.
L’aggettivo sospeso restituisce un’idea di precarietà. Come i nostri tempi. Da anche l’idea di una certa “napoletanità” nel senso più verace del termine: “un caffè sospeso” è una sorta di mancia lasciata da qualcuno in un bar, pagata da uno sconosciuto per chi magari quel caffè non si può permettere di pagarlo. Ne parlava Eduardo e ne parlava, soprattutto De Crescenzo nella sua “Napoli di Bellavista” dove le sospensioni era anche momenti sublimi. Dunque, si entrava in un bar e gentilmente si chiedeva al proprietario: “C’è per caso un sospeso?” Alla risposta affermativa il cliente entrava beveva il caffè e ringraziava qualcuno che non c’era. Era un gesto piccolo, simpatico, dolce, che presupponeva la lealtà di due persone: il barista che non doveva barare e il cliente che doveva, davvero, essere senza soldi. Intorno tanta piccola sociologia napoletana: quella di Eduardo ma anche quella timida e bellissima di Massimo Troisi; quel sospeso rappresentava un incontro candido tra il benefattore sconosciuto e il beneficiario leale. Poi, probabilmente, l’ingranaggio in qualche bar si “ingrippava” ma questo gioco è una forma di gentilezza d’altri tempi, un voler offrire con una certa grazie qualcosa di piccolo, infinitesimale ma che riconcilia con la vita. A Oristano, Tiziana Figus, che gestisce una pizzeria al taglio in via De Castro, ha pensato all’idea del caffè sospeso e ha deciso di rimodularla con la “pizzetta”. Il cliente arriva e ordina una pizza per lui e ne paga due. La seconda è “sospesa”, in attesa di un cliente che si affacci alla pizzeria, qualcuno che quella pizzetta, per quanto di poco conto, non se la può permettere. Brava Tiziana. Sono tempi ingiusti questi. Ma giusti, giustissimi per un “sospeso” o, meglio per una “sospesa”. Ha solo un dubbio la nostra simpatica Tiziana, quello di trovare le persone con il “giusto coraggio per varcare la soglia”. Lei ha promesso un silenzio assoluto e sono certo riuscirà a mantenere questo piccolo segreto. Una pizzetta sospesa è solo un frammento di abbraccio verso un mondo con solchi di dolore molto grandi. Ma la vita ha bisogno di piccoli segni e ha la necessità, qualche volta, respirare piano. Regalandosi una piccola sospensione.
Il caso di Francesca Barracciu me lo ricordo bene. Ricordo anche una lettera aperta in cui si chiedeva all’allora europarlamentare un passo indietro nonostante fosse uscita vittoriosa dalle primarie. Nella lettera si chiedeva un segnale per azzerare tutto, sedersi al tavolo e ricominciare. L’obiettivo, si scriveva nella lettera «è di avere una squadra di Governo nuova, esperta, capace, non compromessa e riconosciuta come di alto valore anche sul piano etico. Alla guida della quale non può che essere candidato chi questi requisti non solo li possiede, ma soprattutto gli sono riconosciuti dal popolo elettore. (...) Pensiamo, anche se ciò provoca in noi un profondo disagio personale, che vada tracciata una linea netta tra le vicende che hanno screditato il Parlamento dei sardi e il futuro dell’istituzione autonomistica». Anche questa bella lettera contribuì a bloccare la candidatura della Barracciu e spianare la strada a Francesco Pigliaru che poi avrebbe vinto le elezioni. Ritengo fu una cosa eticamente valida nonostante la Barracciu – lo ricordo ancora – è tuttora solo indagata, accusata di peculato per uso improprio per i fondi destinati all’attività dei gruppi consiliari della Regione Sardegna. Va tutto bene allora? Certo. Benissimo. Peccato che uno dei firmatari di questa lettera pubblicata dai quotidiani nel dicembre 2013 fosse il senatore di Rifondazione Luciano Uras, oggi indagato per lo stesso reato e anche lui dovrà giustificare la spesa di 70 mila euro. Perché nessuno ricorda questo passaggio? L’etica ha un diverso peso nella sinistra? Non credo e non lo spero. Mi auguro, invece, che l’Onorevole Uras riesca brillantemente a spiegare come abbia speso 70.000 euro, così come argomenterà anche Francesca Barracciu. Il problema però è un altro: ma l’onorevole Uras, a dicembre 2013, quando scrisse la lettera insieme a Cappelli non ricordava di aver usato anche lui fondi destinati all’attività dei gruppi? Non sapeva che, prima o poi sarebbe accaduto anche a lui dover giustificare? Se la storia fosse accaduta prima delle votazioni al Parlamento avrebbe fatto il giusto e sacrosanto passo indietro? E adesso? Adesso non ci rimane che provare a scrivere la morale di questa favola per niente a lieto fine: “Su boe narat corrudu a s’ainu”.
Il gioco del pallone è la metafora della vita. Queste sono cose che si imparano da grandi. Quando sei piccolo ti devi schierare e devi “tifare”. La scelta cade sul calciatore che più ti attrae più che su una squadra. Ai miei tempi, poi, era semplicissimo: il calciatore giocava quasi sempre con la stessa squadra. A cambiare “maglia” erano solo quelli con meno luce “addosso” non erano i fuoriclasse. Ai miei tempi però c’era da effettuare una scelta radicale e a quell’età fu importante e segnò il futuro calcistico (niente di serio, per carità) di tante generazioni: molti cominciarono a tifare il Cagliari. Non i giocatori di quella squadra ma il Cagliari che rappresentava, almeno allora, la Sardegna. Lo era anche per i sassaresi, gli olbiesi, gli algheresi. I campanili, a quei tempi non esistevano. A dieci anni, poi, il calcio era solo uno splendido gioco dove la passione e la voglia di esultare era la felicità di un bambino. Di Rovelli e di Moratti i bambini non sapevano nulla, ma di Gigi Riva e di Sandro Mazzola conoscevano praticamente tutto. Erano figurine, icone di quel periodo. Arrivò lo scudetto e scesero sull’isola giornalisti seri, importanti, tutti a raccontare, a provare a capire cosa fosse successo di antropologicamente importante. Qualcuno scrisse che lo scudetto rappresentava un riscatto per l’isola. Io, sempre dentro i miei dieci anni, contavo i giocatori del Cagliari nella Nazionale del Messico, quella che arrivò seconda al mondiale vinto da Pelè. Quella con Nicolai in mondovisione (la bellissima battuta è del compianto Manlio Scopigno). Poi, dopo quello scudetto, piccoli sussulti, cambi di presidenza, scoperta di non avere più imprenditori in grado di gestire il giocattolo, discese in serie minori sino a quando Massimo Cellino, nel 1992, acquisto il Cagliari: un ragazzo con la faccia da simpatico gaglioffo; un po’ rocker e un po’ spaccone, un giocatore di poker sempre sorridente che portò il Cagliari nell’inferno della serie C per riportarlo poi in A. Che cambiò decine di allenatori, che usò la scaramanzia come assoluta religione che finì, come Napoleone, due volte sulla polvere (due parentesi nel carcere di Buoncammino) e qualche volta sull’altare. Adesso molla. Vende tutto, dopo la fuga personale a Miami e dopo aver acquistato una squadra inglese, il Cagliari Calcio passa la mano. Arrivano gli americani. Chissà. Magari sarà la svolta, magari sarà un fallimento. Ma non ci sono più le figurine, i Pizzaballa, i Nicolai, i Boninsegna e i Carmignani di una volta. Non ci sono più quei bambini che urlavano festanti intorno ad un gioco bellissimo, metafora della vita. E se tutto questo non c’è più è perché un po’ non c’è più Gigi Riva e un po’ perché al posto suo, nel 1992, è entrato in questo strano mondo uno come Cellino. E tutto ha preso un’altra piega.
Adesso, che il sole è tramontato è tempo di controllare le nostre ombre. Adesso, quando la polvere ha cominciato a sedimentare su quei corpi fermi, irrisoluti, inermi, è tempo di sedersi ed ascoltare il cuore. O quello che ne resta. Per quello che serve, per il futuro nebuloso e gonfio di lacrime nascoste, di pianti disperati. Adesso, con la coscienza ancora in disordine, possiamo sederci e provare a guardare. A razionalizzare tutte le fotografie mosse che ci hanno invaso in questi giorni gonfi di orrore. Siamo partiti da lontano, a dire il vero. Come sempre. Siamo partiti a disegnare ombre che non combaciavano con i nostri palazzi e le nostre storie. Mica si può aprire la porta, la nostra porta, all’orrore. Quello, di solito viene da lontano, sempre da lontana.
Ed invece.
Ecco. davanti a quelle bare mute, davanti agli occhi di tutti i tempiesi impotenti, davanti al Limbara, a quei monti scolpiti nel silenzio atavico dei millenni non riusciamo a dire, a sussurrare semplicemente: ed invece.
Di questo si tratta. Le ombre erano i nostri alberi, le nostre radici e non sappiamo perché hanno potuto disarcionare le fondamenta della nostra casa. Tutto era perfetto, i sorrisi con le labbra giuste, i panorami sempre lucenti, le passeggiate a Rinaggiu, le risate in piazza Gallura. Ed invece.
Provare a risalire sino alla sorgente di questo fiume perché è questo che dovremmo cominciare a fare. E non stare sempre seduti davanti alla larga foce, dove tutto passa e tutto si dipana. La sorgente è il punto di partenza.
Ed invece si preferisce il delta, dove è difficile comprendere le molecole, dove tutto si mischia: dolce e salato. Noi speravamo di poter dire: questa strage non ci appartiene. Non è nostra.