La politica è l’arte dell’imponderabile e della complessità. E’ dire azzurro dove il grigio impazza, è affermare il proprio interesse per cose di cui niente ci interessa, è giocare con il sorriso mentre siamo tutti con il coltello in tasca. Questo è quello che ci rimane. Ma non è la politica. In realtà questo tipo di fare politica è la risultante di anni trascorsi a chiuderci gli occhi, a non respirare, a credere che questa sia “la politica”. A credere a uomini piccoli, insignificanti, senza neppure un’idea utile per trascorrere, non dico la legislatura, ma perlomeno la giornata. Uomini vili, senza spina dorsale, senza cultura. Senza, soprattutto, la cultura della politica. Uomini (e donne, chiaramente) con un’etica imparata sui sunti Bignami, sul voler trattare tutto e a tutti i costi. Uomini (e donne, chiaramente) non disponibili ad essere al servizio degli altri ma solo ed esclusivamente al servizio di se stessi o, al massimo degli amici. Se devo lasciare voglio, pretendo, chiedo, esigo di poter capire chi entra al mio posto, chi metterete nei banchi della regione, del comune, del parlamento. Io esigo, io credo, io ritengo. Gente misera, inetta, abituata ad utilizzare il pronome “io” e mai, dico mai e neppure per sbaglio, provare a presentarsi con il “noi”. Gente insignificante, arrogante, falsa, gente che ha contribuito a mischiare i colori. A far dire alla gente (la stessa gente che, quando fa comodo inneggiano e quando non serve dileggiano) “tanto son tutti uguali”. Ma non è così e se lo fosse l’altra sponda dovrebbe solo vergognarsi di tutti i candidati indagati, rinviati a giudizio e di quelli ancora (per poco) onorevoli sdraiati nei pancacci delle patrie galere. Non siamo uguali. Non dovremmo esserlo. Non possiamo e non dobbiamo mischiarci nella stessa tavolozza delle opportunità. Oggi la politica ha perso. La politica vera, quella delle scelte per tutti, quella di Martin Luther King, di Montesquieu, di Voltaire, di Gramsci, di Mazzini, quella dei sogni da realizzare, quella dei partigiani, del sangue mai rappreso delle lotte quotidiane. Quella politica ha perso. E noi con lei. Non abbiamo bisogno di stare ad ascoltare. E’ venuto il tempo di gettare la tavolozza, di riprendere una tela nuova, bianca e ricominciare a disegnare. Scegliendo bene i colori. Perché il rosso è rosso e il nero è nero. E non di mischiano. Mai.
La notizia del furto in un bar a Monte Rosello, quartiere popoloso di Sassari, potrebbe essere relegata a quattro righe sul quotidiano locale. Interesserebbe solo i protagonisti: i ladri e lo sfortunato proprietario del locale. La rapina avviene proprio il giorno prima di Natale e il bottino è piuttosto consistente: l’incasso di circa cinquemila euro. I due rapinatori hanno atteso nascosti l’arrivo del titolare, gli hanno puntato la pistola e obbligato a consegnare l’incasso. La polizia indaga. Il problema è un altro. A commettere la rapina sono due personaggi molto noti a tutto il pubblico ancora festante: sono Berlusconi e Nonna Papera. Meglio, i due rapinatori, furbescamente, hanno usato due maschere, quella del vecchio miliardario e quella della simpatica vecchietta, nonna di tutti i protagonisti di Paperopoli. La notizia, dunque, è sintomatica: i rapinatori hanno utilizzato le maschere di due arzilli vecchietti o, come qualcuno ha chiosato, il vecchio miliardario in fondo, è una macchietta, una maschera da teatro di terz’ordine, buono, al massimo per fare rapine. E’ davvero un declino finire in tristi quartieri insieme ad una nonna. Una volta, il vecchio, usava le paillettes e paperine meno attempate. Il tempo corre. Inesorabilmente.
A scuola, ormai, difficilmente si racconta della nostra Costituzione, di quei 139 articoli che costituiscono l’ossatura della nostra Repubblica, il cuore e i polmoni di uno Stato con ormai quasi sessantasei anni di storia. Era Il 27 dicembre 1947 quando il capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, promulgò la nostra Carta Costituzionale, che entrò in vigore il 1° gennaio 1948. A scuola, ricordo, ci insegnavano di rispettare quella costituzione e i loro padri costituenti, ovvero gli uomini che per giorni e notti stettero sui tavoli a discutere, scrivere, limare gli articoli di un pezzo di futuro del nostro paese. Di questo, infatti, si trattava: di futuro. Eppure la nostra Costituzione nasceva dal recentissimo passato, dalle storie atroci scritte dai partigiani, dal loro coraggio e dalla loro forza di impegnarsi fortemente per il loro paese. Pietro Calamandrei, uno dei padri storici della Costituzione ebbe a scrivere: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione. » A scuola, ormai, si parla sempre meno di costituzione, dei principi fondamentali, del lavoro, del concetto di patria, di servizio, di cultura, di libertà. Non c’è tempo, si dice. Vero, non c’è più tempo per le parole che costruiscono i concetti, non c’è più tempo per ascoltare quelle voci di partigiani, quella loro voglia di confessare di aver regalato la loro vita affinché noi, con la libertà da loro conquistata, potessimo dire un giorno: «Non abbiamo tempo.» Leggetela la Costituzione e, se non si ha tempo, provate a sbirciare anche velocemente almeno i dodici principi fondamentali, i primi dodici articoli. La costituzione si scarica gratuitamente come applicazione nei vostri smartphone. Fatelo. E pensate ai partigiani. Se io posso scrivere queste parole e voi potete liberamente leggere (o cestinarle) lo dovete soprattutto a loro. Ai partigiani, anima di questo paese. Buona lettura e buona libertà. Buon compleanno Italia.
Ho sempre mantenuto l’amore per le agende. Le ho trovate pratiche, belle, in grado di avvolgere gli appunti dell’anno e in grado di costituire il piccolo cassetto dei ricordi. Molte le ho conservate. Ne ho del 1978, del 1980, anni novanta e qualcuna del 2000. Man mano che il tempo scorre tra le vene della mia esistenza, l’agenda ha subito modifiche quasi impercettibili ma figlie della stratificazione dell’età. Quella del 1978 (rosso porpora) era legata alle mie vecchie trasmissioni radio (quando mi chiamavo Gikappa…. Dio…. Ne è passato del tempo) alla mia puntigliosa ossessione di appuntare tutto, anche la scaletta delle canzoni e quelle canzoni ancora oggi fanno parte del mio i-pod. Appuntamenti di cui non ricordo come fossero andati, altri invece hanno modificato le pieghe di quell’anno e degli anni successivi. C’è il ricordo del funerale di Berlinguer e la vittoria dei mondiali di Spagna (abbiamo vinto… anche se Cabrini ha sbagliato un calcio di rigore… ma è una bella leva calcistica….) ci sono appunti più frivoli (pagare assicurazione, dentista ore 18) e ci sono frasi, piccole, oggi si direbbero dei post, scritti solo per me. Questo mi ha fatto sorridere. Quel voler comunque provare a mettere parole - pensierini direbbe la mia maestra – e provare a dare un senso alle cose. Così, come rito annuale, anche oggi ho deposto l’agenda del 2013 e accarezzato quella del 2014. Quella nuova ha la fodera rossa. Ho già appuntato il mio nome, la targa dell’auto, il codice fiscale, i numeri del cellulare (in quelle vecchie bastava solo il numero “fisso” che oggi non ho più) ho messo l’indirizzo e-mail e qualche password da ricordare (solo le iniziali, giusto per regalare strada ai possibili detrattori). Oggi, in questo paese tutti hanno un’agenda, oppure a nessuno piace farsi dettare l’agenda da altri. E’ un modo di dire. Non credo abbiano davvero cose piccole da scrivere in quell’agenda. O cose belle e futili. Per quello rimando alla vostra agenda. Non copiate l’agenda a nessuno e non scrivete mai frasi di altri. Vi accompagnerà per tutto l’anno e si logorerà con il tempo e con voi. E’ un pezzo di vita. La vostra agenda: piccola vena di emozioni capace di scorrere. Giorno per giorno, crogiuolo di parole della nostra forte esistenza.
Ho aspettato che spiovesse. Perché sembrava brutto camminare per strada ad incrociare le gocce che lavano la faccia ma non fanno niente per ripulire i pensieri. Ho aspettato che diventasse verde. Per sicurezza, perché non è facile guardare in molte direzioni e provare ad arrivare dall’altra parte con le auto che ti ronzano vicino e che ti suonano. Non è facile. Perché è da troppo tempo che non lo facevo. Quasi confondo i colori. O forse è solo timore. Ho aspettato che quell’auto facesse la manovra per il parcheggio. Lei, una donna corpulenta e molliccia, aveva la faccia di chi aveva atteso per ore quei pochi metri quadri che non avrebbe diviso con niente e con nessuno. Doveva assolutamente parcheggiare in quel luogo, scorticare tutti gli attimi dell’attesa, doveva prepotentemente aprire il cofano per infilare molti pacchi colorati in questa umida sera di fine dicembre. Lo faceva con ostentata sicurezza, indifferente alla crisi e all’opacità delle luminarie quasi scomparse. Vigilia di Natale. Ho aspettato si spostasse. Era in doppia fila, trafelato, quasi scivolava nell’asfalto viscido, aveva scarpe non abituate all’acqua e non abituate a sopravvivere. Aveva belle scarpe. Nere. Come l’auto. Nera e esagerata. Poteva attraversare deserti e dune immense con quelle ruote. Ed invece stava lampeggiando in seconda fila. Quasi che quelle luci fossero lacrime di disperazione. Di solitudine. Si guardava intorno e si sistemava il collo di un cappotto caldo e carissimo. Non produceva nessun rumore e non costruiva nessuna emozione.
Ho aspettato che finisse di telefonare. La vedevo, giovane e agitata con il suo smart phone, ondulante e velocissima nelle parole e con le mani a disegnare cerchi in mezzo ad una pioggia che, di tanto in tanto rimodulava la serata. Aveva l’aria di una ragazza sicura, certa, forte e regalava sguardi con occhi di una donna che sarebbe rimasta sola. Un cuore senza troppe pulsazioni e con troppo rossetto intorno.
Ho aspettato che fischiasse. Troppe auto in doppia fila e troppa confusione. Ma lo intravvedevo parlare e sorridere smanettando con il suo cellulare e non ci provava neppure a riprendere in mano una situazione che poteva essere sua. Non c’era, nelle sue mosse, nessuna passione. Neppure una parola che riscaldasse l’anima. Ho aspettato si fermassero, provassero, almeno per un attimo, a regalare sguardi protesi in altri mondi e in altre situazioni. Niente. Sembrava che passassero sulla vita senza neppure respirare. Ho aspettato, atteso, osservato. Ho provato a non guardare l’orologio con la segreta speranza che il tempo non mi cercasse. Ho messo le mani in tasca. Il foglio c’era. C’era la data, la firma e l’ora. Ho passeggiato a lungo nel viale infinito e teribilmente corto e ho riflettuto a lungo sul tempo e sulla lentezza delle cose. Ho ripercorso quella serata dove ho incontrato molte persone ma non ho visto o parlato con nessuno.
Ho acceso una sigaretta e ho bussato. Ho aspettato, atteso il click del portone e l’ho scrutato mentre lentamente si chiudeva dietro le mie spalle. Ho centellinato tutto e mi son guardato dentro. Ci vuole molto coraggio a ritornare su questi passi. Dietro, in fondo al viale di Buocammino c’è la libertà. Ci vuole molto coraggio a rientrare alla vigilia di Natale. Ma come potevo lasciare solo Mohamed, il giorno della festa più importante per noi cristiani? Lui è musulmano. Ha un’altra festa. Vero. Ma è il mio compagno di camera e non si lascia da solo, in una piccola camera, un compagno di avventure. C’è molta follia nelle mie scelte. Vero. Molta follia. Ma anche molta coerenza. Ho dato la parola. A molte persone. Mohamed compreso. Ecco perché ho deciso di passare in cella con lui il mio Natale. Di rientrare alla vigilia dal permesso premio. Tanto, la fuori sono tutti molto occupati e incredibilmente soli e non hanno un Mohamed con cui sorridere. Non hanno il calore delle piccole cose. Non sanno che Natale, in carcere, ha pochi colori. Ma un calore che riempie gli occhi di speranza. Che Mohamed chiama gocce di pioggia. E, da musulmano, ci inzuppa il panettone.
Le favole vanno raccontate. Perché massaggiano il cuore e allontanano, almeno per un attimo, le nostre paure per un oggi duro e per un domani con le saracinesche ancora chiuse.
E’ passato solo un mese e qualche giorno dall’alluvione che ha distrutto un pezzo di Sardegna, che ha infranto i cuori, che ha centrifugato le anime. Quel giorno, il 18 di Novembre, quell’acqua ha modificato pezzi della mia infanzia. Sono originario di Priatu, località Austinacciu dove, per anni mi recavo in vacanza dai miei nonni. Monte di Pinu era la montagna più alta della mia adolescenza. Quei monti – meglio quei muntigghj – hanno fatto parte del mio amore per la terra, per i luoghi. Quegli stazzi assolati e nudi sono stati la musica delle mie parole. Priatu è un piccolo paese, una frazione prima comune di Calangianus e oggi comune di Sant’Antonio di Gallura. Si conoscono tutti a Priatu. E mi conoscono. D’estate, nella tarda adolescenza, ero quello che acquistava tutti i giorni la Nuova Sardegna e l’unica copia di Repubblica. Ero la felicità del barista. Due giornali in un giorno e, sopratuttto uno nazionale. Da piccolo ero “lu fiddolu di” e, nel mio caso ero “lu fiddolu di lu colciu Franciscu”. Priatu è la metafora del mondo. Tutto accade in quel contesto e se da quelle parti non succede significa che non esiste. Quel giorno, il 18 novembre 2013 Veronica Gelsomino, 24 anni, rientrava a casa dove ad aspettarla c’era Tommaso Abeltino, suo fidanzato da sempre. Da quando erano bambini. Perché il mondo di Priatu prevede l’amore sin dall’infanzia. Ci si promette fedeltà negli anni e si disegna il futuro fatto di figli, una casa, un camino, i dolci, li cucciuleddi, il tempo che si trasporta lento e inesorabile, silente. Priatu è come Macondo: un crocevia di vite sospese, che non si muovono; vivono in quell’universo dolce e minimalista. Tommaso, quel giorno aveva appena telefonato, preoccupato per il temporale. Veronica aveva risposto subito. Mancavo dieci minuti all’arrivo a casa. Ma i dieci minuti passano. Il tempo si ferma. Non corre. Mentre il cuore comincia a ruzzolare e disperdersi. Partono i soccorsi e scoprono una voragine. L’auto di Veronica, accartocciata nel fango dopo un volo di trecento metri. SI è aperta la strada, l’auto è stata divorata. Gli uomini sono sempre convinti di essere invulnerabili, invincibili e non si siedono mai ad osservare la loro stoltezza. Per tutti veronica è morta. Ma non per Tommaso. Per lui Veronica è viva, deve essere viva, la deve riportare a Priatu, alla sua dolce Macondo dove, ha deciso, la sposerà. E le promesse, fatte a qualsiasi Dio vanno mantenute. Veronica, seppure acciaccata, si salva e ieri, primo giorno di inverno Veronica e Tommaso si sono sposati davanti al sindaco di Sant’Antonio di Gallura. Non potevano aspettare oltre. Lui spera di avere un lavoro stabile. Lei ha ancora il ricordo del boato, delle viscere, del buio, del terrore. Ne sono usciti e oggi auguriamo agli sposi un futuro sereno e dolcissimo nella Macondo di Priatu.
Marco ha solo dodici anni e, per dirla con una canzone “ha il cuore pieno di paura”. Gioca a pallone Marco e, per Natale,ha chiesto come regalo, un paio di scarpette. I piedi crescono velocemente a quell’età e le ultime, oltre ad essere distrutte, non gli stanno proprio più. Il papà di Marco è stato licenziato da qualche mese e la madre lavora, ad ore, per pochi soldi. Le scarpette non fanno parte delle loro primarie necessità. Marco lo sa. Sa quanto morde questa crisi maledetta, questo voler fuggire verso altri lidi di alcuni produttori, tra i quali quello di suo padre. Il padre di Marco ha perso il lavoro perché il suo “padrone” ha delocalizzato la fabbrica. Produceva lampadari. E’ andato in Bulgaria. Da quelle parti gli operai si pagano meno. Marco ha sorrisi ramificati nei ricordi. Di quando poteva giocare con le scarpette e provare a sognare. Buon regista, Marco. Bella visione del campo. I soliti idoli: Totti, Del Piero, Pirlo e, chissà perché, amava Baggio. Il divin codino. Ci pensa tutta la settimana Marco. Ha capito che non può chiedere dal “suo” babbo natale un regalo come le scarpette. Allora decide di cambiare. Di delocalizzare Babbo Natale. Si rivolge, direttamente al “padrone” a chi ha licenziato il suo babbo.
Ecco il testo della lettera di Marco.
“Gentile signor S.D., sono Marco, il figlio di un suo operaio, licenziato dalla sua fabbrica non perché non faceva bene i lampadari, ma perché, secondo lei, quei lampadari costavano meno da altre parti. Questa cosa non l’ho capita. Se poi gli stessi lampadari li riporta in Italia, nella mia città, e li rivende allo stesso prezzo, mi dice cosa ci guadagna la nostra gente? Mi sembra di capire che il guadagno è solo il suo. Bene. Ho detto a tutti i miei amici, quelli con un padre e una madre ancora occupati di chiedere regali, ma di acquistare quelli fabbricati dalle mie parti, nel nostro paese. Lo so, è molto difficile, pensi che anche i giocattoli “feltrinelli” sono made in Thailandia. Questo me lo ha detto la mia professoressa che ci ha anche spiegato il concetto di solidarietà, parola per lei sicuramente sconosciuta. Non aspetto risposte a questa lettera. Mi auguro, però che lei possa passare un natale al buio, anche se produce lampadari. Io domani giocherò a pallone e le scarpe saranno quelle da tennis e non da calcio. Grazie a lei. Ma se segno con quelle scarpe, sarò sicuramente più felice e spero un giorno di illuminare tutto lo stadio con i miei gol e non con le luci dei suoi lampadari.
Marco.
Il giorno successivo Marco si presentò nel campo di calcio, con quelle scarpette ruvide, prese un pallone che sembrava stregato, tirò senza guardare e il portiere lo fece passare….
[liberamente ispirata a “la leva calcistica della classe 68, di Francesco De Gregori]
“La pace sia con voi”, così concluse, aspettando con consumata fede “e con il tuo spirito” della folla all’interno della sua parrocchia. Lo spirito accolse con soddisfazione le ultime parole e, insieme alla carne, salutò l’altare con dovuta genuflessione al centro - davanti al crocifisso - e scomparve verso la sacrestia. Sulla panca disadorna, appoggiata ad un tavolo che era apprezzabile per la sua inquietante nudità, vi era un ragazzino dall’apparente età di dieci anni che, probabilmente, aspettava il parroco o era riuscito ad infilarsi in sacrestia subito dopo la benedizione e gli auguri rituali. Quelli di Natale. Don Isidoro osservò il bambino e il bambino regalò uno sguardo dolce, presente, forte. I loro occhi si incontrarono. Ci furono istanti senza pensieri. Solo sguardi. Il prete, con un certo imbarazzo, cominciò a spogliarsi della veste talare usata per la messa ma non disse niente. Il bambino, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che Don Isidoro faceva, non parlò.
Nessuno produceva parole.
Poi ci fu un rumore. Quasi impercettibile. Che sembrava quasi il lamento dell’anima di qualcuno. Era la voce che usciva, parole che lentamente riempivano gli spazi.
“Che cosa è il Natale?”
Così chiese il bambino abbassando gli occhi e controllandosi le sue scarpette sporche che soltanto adesso il prete notava. Parole apparentemente senza senso e che sembravano fin troppo scontate. Ma Don Isidoro guardò le scarpe e osservò meglio il bambino. Aveva pantaloni corti, calzini srotolati e gambe piccole, fredde, quasi inconsistenti. Una maglietta verde senza scritte. Sporca, ma dignitosa.
E non aveva sguardo. Solo occhi.
Il bambino aggiunse: “Tu, che fai nascere un bambino nel freddo di una stalla, tu che sei felice di tutto questo, lo sai quanto freddo c’è dentro una stanza senza riscaldamento, senza una bicicletta colorata, senza un cuore che ti scalda? Tu e tutti gli altri uomini chiamate tutto questo natale, mio padre, invece, lo chiama miseria e io vorrei una casa come tutti gli altri.”
Questo disse il bambino. Senza particolare accento e senza apparente rabbia. Solo una lastra di pietà riusciva a scalfire quel silenzio ammantato dopo il piccolo racconto.
“Natale è una festa”, disse Don Isidoro “serve agli uomini per dimostrare la loro falsa e apparente bontà. Ci sono uomini forti, potenti, ma vengono una volta all’anno davanti all’altare e sono convinti di essere felici, a posto con qualsiasi tipo di coscienza; poi rientrano velocemente a casa a consegnare i regali per i loro figli o nipoti o mogli o amanti dimenticandosi la nudità del Natale, quella festa piccola e dolce, fatta di poche cose ma di molta e genuina allegria”.
“Voi ogni anno costruite questa strana festa per celebrare la povertà?” Così rispose il bambino.
“Beh, è una tradizione”, disse Don Isidoro. “Per esempio,” chiese Don Isidoro al bambino con gli occhi enormi, “Natale è un momento forte e può servire per esprimere un desiderio. Tu, cosa vorresti per un giorno del genere? Magari posso accontentarti”.
“E’ difficile tu possa farlo” rispose il bambino, “ma provo a fidarmi delle tue promesse. Vorrei che tutti avessero un televisore rotto e un vocabolario”.
“Che significa? Non posso regalare a tutto il mondo un televisore e per giunta rotto. E che c’entra poi, il vocabolario?” chiese il prete sempre più incuriosito delle parole del bambino.
“Prova ad immaginare se, per un attimo, tutti dovessero avere, a casa, un televisore rotto, non funzionante. Sarebbero costretti a rivolgersi la parola e siccome da molto non lo fanno più non troverebbero le parole. Sarebbe necessario un vocabolario per ricominciare.”
“Sei uno strano bambino”, disse il prete rimettendo nell’armadio il paramento litrugico. Non ottenne risposta e lentamente si voltò. Il bambino non c’era più. Andato. Sparito. Si precipitò a cercarlo all’interno della chiesa. Niente. Uscì per le strade. Niente. Tornò in sacrestia. Si sedette. Decise di ritornare a casa. Guardò il televisore spento. Lo guardò con un piccolo sorriso. Ritenne che, quel giorno, il televisore si era guastato. Natale senza parole usate e logorate da tutto e da tutti. Senza falsi auguri, sorrisi, panettoni, trenini musicali, attenzione al pranzo, applausi per tutti i cantanti. E prese un libro. Il vocabolario. Aprì a caso. Lettera O, quasi al centro. E cerco la parola che più segnava questa giornata e l’incontro con il bambino. Opportunità. E decise di continuare a leggere. Per riscoprire il vero significato delle parole.
Il bambino, nel freddo della sua stalla, impalpabilmente sorrideva. Opportunità pensava. E’ una bellissima parola. Aiuta a crescere ma bisogna saperla cogliere in tempo.
Dal carcere prima o poi si esce. Lo dico sempre – e non solo ai detenuti – ma a me stesso, come cittadino che dovrà misurarsi, prima o poi, con chi la soglia del carcere un giorno la dovrà varcare per essere restituito al mondo libero. Poi ci sono gli imprevisti e lo strumento del permesso premio è uno di questi. Nel bene e nel male. Il permesso rappresenta una bombola d’ossigeno in un universo senza nessuna forza di gravità, in un luogo dove il procurarsi la maschera e poter respirare di quell’aria è assolutamente comprensibile e umano ed è, tra l’altro, sicuramente vitale. Concedere un permesso premio e contribuire affinché un detenuto, un uomo, possa varcare, almeno per un attimo, le soglie del carcere è un’operazione indubbiamente complessa e giuridicamente difficile da spiegare. Infatti, non è questo il punto. Però quel permesso salutato da tutti come aria sana, come metodo per destabilizzare l’ansia, per tranquillizzare gli animi in un luogo a volte invivibile, quel permesso salutato da tutti come soluzione vicina all’inclusione dei detenuti, ad un piccolo passo verso la libertà, diventa astioso dileggio, sfida tra fazioni politiche, estenuante discussione, quando dal permesso un detenuto non rientra in carcere. Tecnicamente è un’evasione ma ha risposte variegate e tutte difficili da analizzare. Tutti si chiedono come mai un uomo ha tradito la fiducia di altri uomini, come se fosse il primo e l’unico a farlo (da Adamo ed Eva in poi la storia è piena di esempi) nessuno si chiede, per esempio, come può un uomo uscire dalla gabbia e rientravi spontaneamente. Perché questo è il primo paradosso: ci vuole davvero coraggio a rientrare in carcere dopo aver ottenuto un permesso premio. I detenuti lo fanno quasi tutti. Solo il due per cento non rientra e, nella quasi totalità dei casi viene ripreso dopo qualche giorno. I reati commessi da detenuti in permesso premio o da quelli evasi da permesso sono pressoché inesistenti. La gente, però, chiede risposte a domande difficili e, soprattutto chiede venga additato alla pubblica piazza il colpevole: sia esso il Magistrato di Sorveglianza, il Direttore del carcere, gli educatori, gli assistenti sociali, gli psicologi, la polizia penitenziaria. Questi sono gli attori in scena e questi, ognuno per la loro parte, ha contribuito e contribuisce ad alimentare l’istituto del permesso premio. Nessuno di loro è però colpevole. Perché tutti si muovono all’interno di regole ben precise che consentono la concessione dei permessi premio. Un detenuto, se mantiene una regolare condotta, se partecipa alle varie attività dell’Istituto, se si incammina all’interno di una strada responsabile, dove il suo mettersi in gioco, il suo sforzo di rimediare, di riparare il danno è tangibile, può uscire dal carcere per qualche giorno ottenendo il permesso premio. D’altronde è una legge naturale quella di mettere alla prova. Tutte le organizzazioni sociali, anche le più tribali, per rafforzare la fiducia, costruiscono delle prove, dei passaggi, delle regole cui tutti quelli che si riconoscono in quella società accettano. E’ un processo culturale rischioso, impervio, a volte proibitivo, ma è appagante. Scommettere sulle persone. Lo stesso Gesù Cristo scommise su Giuda e sbagliò, segno che gli uomini sono davvero animali complessi con una lettura difficile per gli altri uomini.
Personalmente ho scommesso su molti uomini. Molti non mi hanno tradito, altri lo hanno fatto e altri, sicuramente, lo faranno ancora. Non è questo il punto. Ho visto gli occhi dei detenuti che rientrano dal permesso premio gonfi di tristezza perché sapevano di doversi misurare ancora con il carcere. Lo hanno fatto per vincere soprattutto su loro stessi. Hanno dimostrato, con il loro rientro un grande coraggio. Ho visto anche gli occhi dei detenuti evasi dal permesso premio ritornare dopo qualche settimana o qualche mese. Erano gonfi di rabbia sorda perché avevano perduto, avevano scommesso, ma non erano riusciti a comprendere la pochezza del loro stupido gesto. Chi evade perde sempre, chi rientra da un permesso premio però chiede più attenzione per il suo futuro. Sta pagando le cambiali degli errori, quel detenuto. Sta rispettando e merita rispetto. Non deve correre il rischio che quando si riapre la porta del carcere definitivamente nessuno voglia più scommettere su di lui. Chi evade è ricaduto nell’errore. E’ assolutamente necessario farglielo notare ed è questo che dovremmo fare. Tentare di capire il perché abbia compiuto un gesto in fondo eclatante ma inutile, un gesto che ci porta a rivedere la sua storia, a ricostruire meglio, a focalizzare laddove c’erano ombre dimenticate e, nel tempo, riprovare a scommettere. Perché lo dice la nostra Costituzione e perché gli uomini forti e liberi, in una società strutturata possono benissimo concedere un’altra opportunità e comprendere gli errori.
L'immagine del portarsi le sedie da casa evoca tempi lontani, in bianco e nero. I tempi delle sagre, di quando si andava ad ascoltare i poeti duettare sui temi definiti dalla pro loco di turno. Ricorda anche quell'accovacciarsi dei vecchi, la sera, sull'uscio di casa, dopo una giornata intensa e solare nei paesi, ma anche nei centri storici delle città non occupate dalle auto, seduti infermi a scrutare un mondo lento e docile. Quando ho letto dell'arresto di un altro politico in sardegna (notizia non apparsa sul quotidiano La Repubblica e la dice lunga sull'interesse delle cose nostre oltre tirreno) e quando, soprattutto, ho letto dei convegni sul l'obesità finiti a "porcetti" (i politici sono sublimi costruttori di ossimori) in una palestra di proprietà della moglie, con i partecipanti impegnati a portarsi le sedie da casa ho pensato, davvero, di chiedere al giudice (solo intellettualmente, è chiaro) di soprassedere all'eventuale confronto con il signor Sisinnio. la giustizia niente può davanti all'inverosimile se non arrendersi e domandarne l'infermità totale. Poi, però ho riflettuto e mi sono chiesto: ma perché questi signori hanno preso migliaia di voti, perché sono lì, perché, probabilmente, si ripresenteranno ancora davanti alle nostre cabine a chiederci un voto? Perché hanno ragione. Avevo confuso e travisato le scene. Sono coloro i quali hanno votato questi signori ad avere necessità della pietà giuridica, ad essere incapaci di intendere e di volere. I vari Sisinnio, Diana, Belsito, Bossi, Cota, qualora le accuse fossero poi tradotte in condanne, rappresenterebbero la bassezza di questo paese. Dove tutti sanno, tutti hanno la certezza delle cose che accadono ma stanno lì, con la sedia pieghevole in mano, in attesa di sedersi ad un nuovo convegno, un nuovo spuntino, spostando velocemente l'asse del proprio interesse tra un porcetto, un melone, vino buono, mutande verdi, mont blanc e sperando, un giorno, di poter cambiare quella sedia pieghevole in una poltrona soffice dove ripetere le stesse terribili cose fatte dagli altri. Siamo un paese in movimento. Siamo un paese di uomini pieghevoli. E non è una bellissima immagine.