È il 1985. Il giovane Carlo Marceddu ha appena vinto il concorso da uditore giudiziario e si avvia a compiere il passo iniziale della sua carriera da magistrato. È guidato, in questo apprendistato, dai saggi consigli del procuratore capo Perra Tassiccai, uomo esperto e rigoroso.
La sua prima inchiesta nasce da una lettera anonima, straripante di rabbia mai sopita e di sgrammaticature. Sarà una lezione di storia e di vita, la scoperta di come silenzi e omertà di oggi siano figli di sangue ormai rappreso, versato in un passato lontano.
Quella lettera racconta di un delitto compiuto quarant'anni prima, cancellato persino dai registri comunali, sepolto dall'omertà e da complicità diffuse, ma non dalle memorie più profonde. Ad esempio quella del parroco del piccolo paese di Gosilì, Don Pistidda.
Ma è un delitto di cui nessuno vuole parlare.
Il giovane Marceddu capirà che l'esigenza categorica della verità, la verità dei fatti per cui ha studiato, spesso non può profanare certe convenzioni sociali della Sardegna di un tempo. Così ha voluto il cielo, dice Don PIstidda. "Le destinazioni del cielo" (Arkadia editore, 16 euro) è l'ultimo romanzo di Giampaolo Cassitta, componente della squadra di Sardegnablogger.
La storia è un intrecciarsi di sogni e miti giovanili di un giovane comunista: Marceddu è comunista come lo si poteva essere allora, con quel che restava degli anni settanta nel decennio craxiano. Sogni e miti che naufragano o si smorzano col procedere della vita. Dentro questa storia ci sono Alghero e la sua dolce vita, tic e stereotipi della sinistra di allora, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Gigi Riva, Mino Martinazzoli e la Sardegna immobile e deleddiana, terra fertile per quel delitto rimosso.
Confesso di essere stato frenato da qualche scrupolo quando Giampaolo mi ha chiesto di recensire il suo libro. In fondo siano componenti di uno stesso progetto, colleghi di redazione. Me ne sentivo onorato ma temevo che questa complicità potesse offuscare la lucidità del giudizio.
"Le destinazioni del cielo" è un libro dolcissimo e sincero e, oggi, posso dire che non leggerlo sarebbe stato un vero peccato. Per fortuna so andare oltre certi luoghi comuni. Come ha imparato a fare il magistrato comunista Carlo Marceddu, nel suo viaggio verso la verità. Una destinazione del cielo, anche quella.
Ho appena finito di rivedere il film “i cento passi” che, questo pomeriggio è passato su Rai 3. L’ho rivisto perché lo ricordavo molto bene e perché il 9 maggio 1978 tutti, me compreso, eravamo con il naso verso Roma, dove le brigate rosse avevano fatto ritrovare, in via Caetani, il corpo di Aldo Moro. L’ho rivisto perché, alla fine, ci ho scritto un libro su questi destini incrociati e su quel giorno, ricordato, da tutti e per sempre “il giorno di Moro”. Ho rivisto quel film con la rabbia addosso, ricordavo le parole di Impastato e ricordavo che sapeva leggere benissimo nel deserto che costruisce la mafia. Aveva capito prima degli altri, più degli altri che la vera forza sono le parole, la circolazione delle parole, dover scoprire cosa si nasconde dietro i conti bancari, le amicizie altolocate, su tutto quello che permette a persone pitturate di bianco di presentarsi al cospetto di altre persone che raccontano e salutano e mietono consensi politici.
Ho rivisto, dietro quel film, la nostra adolescenza, i dibattiti nelle radio libere, la lotta (nel nostro piccolo, è chiaro) per un piano regolatore decente, che non si inventasse le stesse curve di quelle raccontate da Peppino Impastato a proposito dell’autostrada. Ho appena finito di rivedere il film e ho pensato a quello che ha scritto proprio ieri Roberto Bolognesi, sul volantinaggio, sull’impegno politico dei nostri anni e su qualcuno che, invece di lottare, in quei giorni non c’era, pur essendo della nostra stessa generazione. Ho rivisto il film “i cento passi” e ho pensato che anche da noi, dalle nostre parti o meglio, in tutti i nostri paesi, in qualsiasi nostro paese c’era e c’è del marcio a cento passi da noi. Non troppo lontano, dunque. Ho lavorato in radio e ho parlato, ho detto, ho scritto e continuo a farlo. Ho rivisto il film su Peppino Impastato perché rappresentava la forza di volontà, la ricerca di un riscatto, la voglia di essere protagonista di una rinascita che non c’è stata. La mafia, qualsiasi mafia non vuole simboli. Non vuole che i ragazzi parlino “di politica” si informino sulle esercitazioni militari, sui giochetti di guerra, sulla divisione e sulla vendita della propria terra da parte di altri. Tutte cose molto vicino a noi. Intorno a cento passi. Cominciate a contarli. Che non è tardi.
C’è una canzone che mi gira sempre intorno. E’ di Fabrizio De André e dice: “Potevo chiedere come si chiama il vostro cane, il mio è un po' di tempo che si chiama Libero.” Queste parole sono l’essenza massima della grandezza di un uomo che, completamente ubriaco, in costa smeralda, incazzato con il mondo, scrive forse la più bella e intima canzone di questi anni: “Amico fragile”. Ho pensato se Corrado Atzei, quello che canta De André (tra l’altro con bella impostazione vocale) abbia mai interpretato Amico fragile. Chissà. E, soprattutto, mi chiedo se l’abbia mai capita. E se, nel repertorio vastissimo del cantante genovese sia mai incappato in frasi che si avvicinano a quella che ha scritto lui sul suo profilo di “Facebook”: “continuiamo pure a fargli fare quel cazzo che vogliono a questi animali... una passata di Benito”, riferito ai poveri ragazzi extracomunitari finiti per errore a Sadali, i quali chiedevano soltanto di poter partire in qualche città del Nord dove avrebbero potuto lavorare, anche perché erano muniti di regolare permesso di soggiorno. Insomma, chissà se conosce La guerra di Piero e con quale tonalità pacifista riesca a cantarla (una passata di Benito???) chissà se c’è mai passato a via del campo, a Genova, dove ancora c’è una puttana, gli occhi grandi color di foglia, se di amarla ti vien la voglia, basta prenderla per mano. Chissà se quando canta, nei concerti “quello che non ho” e mentre intona: Quello che non ho sono le mani in pasta quello che non ho è un indirizzo in tasca quello che non ho sei tu dalla mia parte quello che non ho è di fregarti a carte provi a ritornare indietro nel tempo quando qualcuno, probabilmente (e almeno spero) gli ha insegnato che le parole hanno un suono, un’anima e un significato. Bisogna saper dosare sempre molto bene tutto. Quando non ci riesci puoi non usarle. Anche il silenzio ha il suo bel rumore.
dedicato a Savina Dolores Massa e alla sua grande dignità!
Le parole hanno un peso, un rumore e un ricordo. A volte, si parla troppo velocemente, per essere addossati alla filosofia di internet dove tutto corre e si sfrutta in un attimo. A volte, invece, si rischia di non trovare le parole adatte e, proprio in quel momento, si scivola nell’ovvio e nella dissacrazione della parola e del concetto. E’ successo a Tavecchio, oggi incoronato Presidente del calcio italiano ed è successo ad Angelino Alfano uno che, a dire il vero e a differenza di Tavecchio con le parole ci sa fare, le sa ammaestrare da buon politico abbastanza navigato. E allora? Credo che, molto naturalmente il primo è scivolato nella classica buccia di “banana”, infagottato nella vecchia retorica brianzola e democristiana degli anni cinquanta (d’altronde il giovane Tavecchio ha solo 72 anni) mentre il secondo ha deciso di chiamare delle persone “vu cumprà” non per errore, ma per scelta etica e politica. Chiaramente la “sua” etica: quella lombrosiana e assolutamente superata ma che, a quanto pare funziona benissimo. Alfano ha definito “vu cumprà” i ragazzi che vendono frattaglie di una moda impazzita perché voleva definirli proprio in quel modo e ha confermato questo addirittura “scrivendolo” in un tweet e quindi quella parola ha un peso, un rumore e un ricordo. Il peso di chi non ha capito che non siamo noi a decidere dove dobbiamo nascere e dove possiamo sopravvivere, il rumore di chi non ha compreso quanto è irritante chiamare gli uomini con un modo di dire: “spaghetti”, “sequestratori” “camorristi” “polentoni”. Il ricordo di chi non riesce a spiegare che la colpa non è di chi vende le cianfrusaglie, ma di chi le produce e, guarda caso il problema diventa senza dubbio un altro. Vecchia storia tutta da verificare. Mi aspettavo da un Ministro un intervento serio, una campagna contro la delocalizzazione che genera disoccupazione e quindi sconcerto e dunque focolai di insoddisfazione e violenza. I poveri ragazzi che girano vestiti tra gli ombrelloni e i bagnanti incremati generano forse qualche fastidio, perché magari siamo costretti a dire “no grazie” a persone che cercano il modo per ritagliarsi un briciolo di dignità. Ecco, le parole sono importanti e anche i gesti. A volte dare qualche spicciolo a chi te lo chiede con un sorriso triste e aggiungere “buona fortuna” non sarebbe male. Poi, sulla contraffazione dovremmo ritornarci e su chi, davvero, muove quel gran business. Ma questo è un altro discorso e servono altre parole.
direnkahkaha, resistere e ridere. (giampaolo cassitta)
Sembra quasi una storia d’altri tempi, di quando c’era ancora la macchina a vapore ma sta di fatto che il vicepremier turco Bulent Arinc afferma pubblicamente che “la donna sa ciò che è peccaminoso e non deve ridere in pubblico”. Frase sfacciatamente maschilista e, per certi versi anche triste. Ecco perchè la reazione delle donne turche non si è fatta attendere: quasi trecentomila tweet contro il politico conservatore e una miriade di selfie dove le donne sorridono apertamente. Quanto sembriamo lontani da questi mondi ma poi, riflettendo, abbiamo un signore che classifica giocatori di calcio stranieri come scimmie: “se non fossero in Italia starebbero nei loro paesi a mangiare banane”; ne siamo appena usciti da un ventennio tutto “infermiere e Papi e bunga bunga” e facciamo fare gli inchini ad una statua della Madonna davanti alle case dei mafiosi. Che fare? la cosa più semplice, quella messa in opera brillantemente e con estrema saggezza dalle splendide donne turche: “resistere e ridere” ovvero direnkahkaha, parola difficile ma rende l’idea. Il sorriso, in fondo, è la cosa più seria da contrapporre alle stupidaggini umane.
Ho sempre pensato che i protagonisti dei romanzi potessero un giorno venirmi a trovare, magari a casa, mentre tranquillamente guardavo la televisione o leggevo un libro. Alcuni li ho amati moltissimo, altri meno, altri ancora li ho detestati e di alcuni ho avuto paura. Misery, per esempio, la protagonista del libro di Stephen King, mi produce sempre una certa adrenalina e, davvero, mi inquieta. Adso, il protagonista del “nome della Rosa” di Umberto Eco spero sempre che un giorno mi venga a trovare. Mi piace quel suo voler scoprire a tutti i costi i misteri della vita. Così nella mia popolosa presenza di personaggi amati e abbracciati leggendo numerosi libri non posso non annoverare quelli di Cent’anni di solitudine. Tutti, indistintamente: da Josè Arcadio Buendìa primo, al secondo, ad Aureliano Rebecca, Rimedios, agli zingari e il loro circo, al grande Colonello Aureliano, il condottiero combattente perdente di tutte le battaglie. Cent’anni di solitudine e Macondo è stata una bella storia. Che mi ha accompagnato nelle colline tortuose dell’adolescenza e ho ritrovato, dopo diverse curve, anche nei rettilinei della compassata adultità. La cosa più bella è immaginare Aureliano Buendìa ricordare la prima volta che ebbe la possibilità di conoscere il ghiaccio. Quel pezzo, decisamente rappresenta l’arte sublime del narrare ed è, forse, il miglior incipt dei tantissimi libri che ho letto. Scoprire che a Perdasdefogu hanno voluto titolare una piazza a “cent’anni di solitudine” mi emoziona moltissimo. E’ un omaggio a Gabriel Garcia Marquez ma è un dolcissimo pensiero a tutti i personaggi della saga di Macondo. Nessuno, per esempio ha mai pensato di titolare una piazza ai “Promessi Sposi” o a “canne al vento”. Probabilmente sbagliando abbiamo pensato sempre allo scrittore e le nostre vie sono intasate da Alessandro Manzoni e Grazia Deledda. Ma abitare o passeggiare in “Piazza cent’anni di solitudine” è di una leggerezza impagabile. A volte le piccole idee rendono il mondo più dolce. Così, quando su una panchina a Perdasdefogu ci si rilasserà, in Piazza Cent’anni di solitudine ci sembrerà che prima o poi passi prima Ursula e poi Josè Arcadio con Melquiades che proclama sorridente: “La scienza ha eliminato le distanze.” Anche le idee come questa finiscono per ributtarci dentro un mondo bellissimo e avvolgente: quello dei libri.
La speranza non si baratta ed è la sola che illumina le giornate nere, senza sogni, senza ponti da attraversare. La religione cattolica è un inno alla speranza, alla salvezza, alla possibilità di poter, un giorno, riconciliarsi con il proprio Dio disegnato e descritto da tutti come un padre paziente ma, in ogni caso, esigente. Affermare che la mafia, la camorra, la ndrangheta siano lontani da Dio, per quanto sia un messaggio forte è anche, per certi versi, piuttosto ovvio. Scomunicare chi vive di mafia, camorra e ndrangheta è quindi consequenziale. Il problema però diventa importante quando a dibattere della questione sono i detenuti, quelli condannati per questi reati e quindi considerati da sentenza dello Stato appartenenti alla criminalità organizzata. La religione è stata sempre un terreno molto delicato e il rispetto per i credenti e per i non credenti deve essere sempre al di sopra di tutto. Ognuno ha diritto di professare il proprio credo. Da questo diritto, particolarmente importante in carcere, nasce però la richiesta di chiarezza da parte di chi è stato condannato, magari all’ergastolo che, oltre a nutrire una flebile speranza di poter uscire un giorno dal carcere, si ritrova anche la saracinesca della sua religione, del suo credo, incredibilmente chiusa. Papa Francesco non ha però condannato l’uomo, ma ha condannato un aspetto, un comportamento, un vivere al di fuori della comunità che si è data regole diverse da quelle dei mafiosi. Per chi rifiuta un confronto con il proprio Dio, per chi non ha il coraggio di attraversare nel deserto, in solitudine, in riflessione, per chi continua a mantenere quegli atteggiamenti, non può bussare alla porta della Chiesa proprio perché si è accasato da un’altra parte. E non valgono i santini bruciati, gli inchini di statue davanti a signorotti del paese (inchini che, beninteso, si ripetono da anni e solo una nuova presa di coscienza oggi ce li mette in mostra e ci fa gridare allo scandalo) non valgono i soldi ottenuti chiedendo il “pizzo” o vendendo sostanze stupefacenti e utilizzati per la festa del Santo. Papa Francesco ha semplicemente detto che tutto questo non può valere al cospetto di Dio perché manca, fondamentalmente, il passaggio del confronto, della riflessione. Manca, dunque, la disposizione al perdono che è chiaramente profondamente religiosa e lontana dalla laicità dello Stato. I detenuti si avvicinano al cappellano perché egli rappresenta un barlume di speranza e a volte confondono i piani tra Stato e chiesa. Su questo però occorre essere chiari e il buon Cavour lo ricordava alla fine del 1800: “libera chiesa in libero Stato” dove ognuno ha le sue prerogative e ognuno le sue strategie. Molti detenuti, a volte, ritengono di poter miscelare le due libertà, pensano di poter ottenere di più se ci si avvicina alla religione, se i loro passaggi si infarciscono di buone intenzioni. Tutto questo è un fatto assolutamente positivo e apprezzabile, ma non è il percorso richiesto dallo Stato che mantiene una visione assolutamente laica del comportamento all’interno degli istituti penitenziari e la religione è solo un elemento del trattamento che ha nella sua globalità interventi più complessi. “Lo sciopero della messa”, così come frettolosamente hanno titolato alcuni quotidiani, è un falso problema. Bisognerebbe domandarsi, invece, perché chi si ritiene quasi sempre estraneo ai reati come l’associazione per delinquere e nessuno di essi si dichiara “mafioso”, abbia richiesto un confronto. Semplicemente per paura di restare isolati, di non far parte più della comunità, quella costruita nei secoli attraverso le credenze religiose e non sulla “religione”. Uniti agli usi e alle tradizioni, non certo disposti all’analisi e all’esegesi cristiana. Hanno avuto paura che la religione, quella vera, le chiedesse uno sforzo cristiano e le chiedesse di abiurare un’altra religione, un altro credo: quello mafioso. Di questo hanno avuto terribilmente paura. Di restare soli e perdenti, quello che, laicamente, auspico da sempre.
Scrivere è come avere “accesso ad un enorme edificio pieno di porte chiuse con l’autorizzazione ad aprirle a mio piacimento”. Lo dice Stephen King nel libro “autobiografia di un mestiere. Dal 12 al 17 giugno si apriranno, per 65 scrittori le porte di molti penitenziari italiani dove molti detenuti aspettano questo momento con curiosità. Non è la prima volta. Soprattutto in Sardegna dove addirittura lo scorso anno sono usciti due libri: evasioni d’inchiostro, scritto dai detenuti del carcere di alta sicurezza di Nuoro e La cella di Gaudì, scritto da dodici scrittori che hanno raccolto le storie di altrettanti detenuti dopo un’intera giornata passata in carcere con loro. Quest’ultimo libro, divenuto un piccolo caso letterario e unico, finora, in Italia, ha permesso a molti detenuti di uscire a presentare il libro insieme agli scrittori. Ho sempre detto, durante queste presentazioni nelle varie librerie e biblioteche dell’isola, che questo era il traguardo più bello che un libro potesse dare: regalare una porzione di libertà a chi libertà non aveva, almeno in quel momento. Sono molto contento di aver contribuito ad organizzare, in Sardegna, questo piccolo evento voluto fortemente dal Ministro Orlando sulle giornate di letteratura in carcere. Sono particolarmente contento anche perchè parteciperanno anche altri due redattori e scrittori di Sardegna Blogger: Fiorenzo Caterini e Emiliano Deiana. Fiorenzo andrà nel carcere di Badu e Carros di Nuoro per raccontare la scomparsa del bosco in Sardegna. A Tempio Pausania, carcere di alta sicurezza, saranno invece Gian Michele Lisai ed Emiliano Deiana a discutere con i detenuti del giallo e del nero, dei colori delle storie. Infine, ad Oristano, ci sarà Nicolò Migheli a raccontare le storie di cappa e spada della Sardegna del 1500, tratte dai suoi romanzi storici e Giulio Angioni nel carcere di Cagliari, Buoncammino per parlare delle sue fiamme di Toledo. Gli scrittori parleranno e per farlo useranno gli unici attrezzi del mestiere: le parole che navigano in un fiume molto affollato. Chi entra in carcere necessariamente si guarda intorno, cammina in quei lunghi corridoi gonfi di silenzio ottuso e cristallizzato. I detenuti hanno sempre in tasca molta curiosità e si avvicinano con attenzione alle storie e alle cose. Non dobbiamo avere paura di quel confronto. D’altronde, sempre per citare King “siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada”. E anche quando leggiamo sprigioniamo lo stesso fantastico senso di libertà. Buona lettura e buon ascolto a tutti.
La parola di questi giorni è, indubbiamente, “trattativa”. Si è trattato con Genny ‘a carogna? E chi lo ha fatto? Con quale mandato politico? Tutto questo discutere e discettare mi ha portato indietro nel tempo: esattamente a trentasei anni fa. Proprio il 5 maggio del 1978 le trattative con le Brigate Rosse erano praticamente chiuse. Non ci credeva più nessuno. Probabilmente Craxi tentava di dialogare con frange estremiste di Potere Operaio e con Franco Piperno. Nulla più. Il comunicato numero nove, consegnato il cinque maggio 1978, parlava di “esecuzione della sentenza”. Eppure in quei cinquantacinque giorni si misurarono due grandissime scuole di pensiero: quelle favorevoli a trattare e quelle “conservatrici e irremovibili.” Non si tratta con il nemico e con gli assassini. Non si tratta con le brigate rosse. Questa visione ortodossa racchiudeva la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista italiano. Non tutti gli uomini di quei partiti a dire il vero. Per la trattativa, invece, c’erano quelli del “Manifesto” e molti socialisti. Eugenio Scalfari e la sua “Repubblica” erano assolutamente contro ogni possibilità di mediare e discutere con gli uomini delle brigate rosse. Io, nel 1978 avevo diciannove anni e, diciamolo, ero per la trattativa. Si parlava di salvare la vita di una persona e istintivamente avrei lottato per qualsiasi vita. Così come oggi. Facevo anche un ragionamento politico e, per quei tempi, squisitamente ideologico: avrei preferito Aldo Moro vivo. Sicuramente il corso degli eventi e della storia avrebbe intrapreso strade molto diverse. Oggi, però, la situazione è fondamentalmente diversa. Si doveva giocare una partita di calcio. Non c’erano vite da barattare, solo un pallone per provare a trascorrere un attimo di tranquillità. E poi, diciamocelo: Genny ‘a carogna non ha lo stesso peso politico delle brigate rosse. Nel senso di credibilità. le BR sono state sicuramente più feroci e, purtroppo, più coerenti. Questo ragazzo tatuato, gonfiato, abbronzato, con una maglietta oltraggiosa non era assolutamente credibile. Non si poteva trattare e non si doveva venire a patti per una partita di calcio. Invece, incredibilmente, “uomini degli apparati” (ma chi erano?) si sono avvicinati, hanno discusso, mediato, hanno trattato. Lui, dall’alto della sua posizione, fisicamente ma non intellettualmente apicale, ha speso poche parole e ha deciso che si, si poteva fare. Ha alzato il pollice in alto. “I like” e lo spettacolo è cominciato. E’ il segno dei tempi. Una volta si discuteva di trattare con uomini “assassini” e crudeli, uomini che avevano ingaggiato in nome di un popolo inesistente una battaglia contro lo Stato. Oggi si tratta con uomini “arroganti”, uomini che hanno come valore una battaglia contro se stessi e contro la loro terribile solitudine. Nel 1978, a diciannove anni ero per la trattativa, per salvare una vita umana. Oggi, davanti a Genny ‘a carogna, non riesco a trovare le giuste note su un pentagramma terribilmente stonato. Vorrei trattare per uno sport colorato, dove tutti siano avversari durante la competizione e incredibilmente uniti quando si sente il fischio finale. Vorrei poter dire che anche Genny, in fondo, ha le sue motivazioni. Che però non trovo. E che, sinceramente, non riesco a comprendere.
Non è facile dividere i buoni dai cattivi. Non è come i colori. Anzi, neppure con i colori è facile. Perché bisogna tenere conto delle sfumature. Con gli uomini subentra la cultura, la storia, i momenti, i contesti, il punto di vista, le scelte ideologiche. Quello che una volta era considerato un buono diveniva ad un’analisi più attenta il cattivo da perseguitare. Interi popoli hanno subito l’onta della vendetta. Solo per il colore della pelle, per la religione, per le idee. Visto da Caifa Gesù era un pericoloso rivoluzionario che attentava alla religione di quel tempo. Difficile scegliere. Oggi siamo portati (sbagliando perché non si può semplificare in questo modo) a dividere i buoni dai cattivi in base alle categorie. E’ la moda quotidiana. Sei buono o cattivo in base all’appartenenza. Nascono, dunque, persone da condannare o da assolvere a tutti i costi. I magistrati, per esempio. Per alcuni sono antropologicamente malvagi e per altri rappresentano invece la salvezza dello Stato. Gli scrittori sono solitamente annoverati tra i buoni, ma quelli che scrivono libri contro una categoria diventano subito untorelli da eliminare. La categoria dei carabinieri è vista di buon grado da tutti. Rappresenta un vanto per lo Stato. I carabinieri sono seri, attenti, servitori dello Stato. Ed è vero. Ma non sempre. Così come i poliziotti. O i politici. Non possiamo dividere il mondo in base ad un mestiere o una presa di posizione o un fatto che commette qualcuno – e quindi assolutamente personale – e lo dividiamo equamente per tutti: i politici sono tutti ladri. Sappiamo che questo non è vero. Non conosciamo quanto siano i politici, quanti siano quelli condannati e quanti realmente rubino. Ma è facile dire tutti, ma proprio tutti sono ladri. Come tutti gli statali sono fannulloni e tutti i poliziotti picchiano. Non è vero. La verità è sempre molto complessa e non è necessariamente dalla propria parte: sono gli altri a rubare. Noi no. Peccato che se continuiamo ad usare la locuzione “i politici sono tutti ladri” comprendiamo nei ladri anche quelli “della nostra parte”. La polemica scaturita in questi giorni sulla polizia di stato ci deve far riflettere sul non dare giudizi affrettati riferibili alla categoria. Non è vero che i poliziotti sono tutti picchiatori, corrotti, senza nessun senso dello Stato. E’ una grandissima volgarità oltre che una penosa bugia. Il problema è legato ormai al nostro modo di ragionare e vedere le cose senza soffermarci. Non tutti i professori ce l’hanno con i nostri figli (semmai dovremmo cominciare ad analizzare meglio la vita dei nostri adolescenti) non tutti i politici rubano, i poliziotti massacrano, i dirigenti corrompono. Però ci sono professori, politici, giornalisti, carabinieri, poliziotti che commettono atti illeciti. Sono quelli iscritti alla categoria dei buoni ma che, in realtà sono cattivi. E la categoria non li può salvare. Impariamo a distinguere ed analizzare con più determinazione. Scopriremo, per esempio, che vi sono dei giornalisti che scrivono cose non vere ma ci sono giornalisti che sono stati uccisi dalla camorra e dalla mafia, così come i poliziotti morti per garantire la nostra sicurezza, magistrati massacrati ed altri corrotti da furbi avvocati. I buoni e i cattivi hanno molte sfumature. Si annidano da tutte le parti. Anche tra gli apostoli. Se provassimo a giudicare solo ed esclusivamente in base alle categorie scopriremmo che dietro le cortecce del populismo, dietro le frasi semplicistiche “sono tutti uguali” ci sono gli uomini, con le contraddizioni e gli errori propri dell’essere umano. Si tratta di non difenderli solo perché appartengono alla “nostra categoria” anche perché, ricordiamocelo, potrebbero abbandonare quel mestiere e quel partito, così come potremmo farlo anche noi e ci troveremmo, di colpo nella parte sbagliata della lavagna: quella dei cattivi, solo perché a chi segnava il nome gli stavamo antipatici. Abituiamoci a difendere o condannare gli uomini, non ciò che rappresentano. Ci furono altri che decisero di uccidere magistrati e politici o giornalisti perché rappresentavano un simbolo: erano le brigate rosse e, sinceramente, non mi sembra una bella storia. da condividere.