11 gennaio 2013) Aveva occhi e voce che riportavano alla riconciliazione. Quegli occhi azzurri e quella voce roca, profonda, intensa, quello sguardo che ricercava sempre l’orizzonte di ogni anima che si trovava davanti. Che fosse un collega o fosse il semplice spettatore che la osservava. Al cinema come in teatro. Una maschera perfetta. Un’attrice completa. L’icona della mia adolescenza. Mariangela Melato era così. Il ricordo dei miei anni ruggenti, la buttana milanese di travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, la maestra elementare che vuole fortemente un figlio che non arriverà in Lo chiameremo Andrea, una metafora degli anni settanta del Grande Vittorio De Sica, ma anche l’intensa interpretazione in Saxofone, un film diretto nel 1978 da Renato Pozzetto, quasi sconosciuto ma che per me, rappresentò la fine dell’adolescenza. Quel corpo solido e soave che si spogliava, quella Melato fuori dagli schemi, quello strano rapporto tra la fantasia e la realtà mi aveva catapultato irrimediabilmente nel mondo dei grandi. L’ho osservata nei suoi piccoli grandi ruoli in tanti film e in pezzi di teatro o in televisione, fino all’ultima e bellissima interpretazione di una grande Filumena Marturano vicino a Massimo Ranieri, ripassato proprio nei giorni di questo ultimo natale. Mariangela Melato era, per me, l’adultità, la certezza che la donna sapeva essere dolce, aggressiva, furba, romantica, gonfia di lacrime che non regalava al primo che passava, modulatrice di voci forte ed impetuose. Mariangela era, più o meno sorella e madre, forse amante e sogno proibito per chi sapeva innamorarsi degli occhi e della voce. E della sensibilità. Ai miei tempi questi erano i canoni della passione. Mariangela Melato quando passava in televisione, nella mia televisione era sempre presente e io ero lì a guardarla, osservarla, a farmi trasportare dalla sua splendida signorilità. Se la classe operaia va in paradiso è giusto riservare un posto anche a lei, ai suoi occhi, al suo sorriso immenso e alla sua classe. Buona strada Mariangela. E grazie.
Questa lettera, di Michela Murgia (che trovate anche sul suo sito www.michelamurgia.com) è una risposta ad alcuni amici (me compreso) che hanno scritto alcune cose sulle primarie del PD. Come il grande alberto sordi (spaghetti, tu mi provochi e io ti mangio...) rispondo con molto affetto a Michela e anche a chi ha letto la mia nota precedente. Giusto per riflettere. La mia risposta si trova dopo la lettera di Michela.
Caro Giacomo,tra me e te il tema dell'indipendenza è aleggiato spesso. Tu ogni volta mi dici: “di questo prima o poi dovremmo parlare”. L'avarizia del tempo ci ha tolto il prima e il poi lo stiamo ancora aspettando; ma aspettare non si può davanti a quello che sta accadendo. La situazione dell'isola la conosciamo: ci sono alcune realtà che resistono, ma molte altre stanno soccombendo senza che si veda un minimo segnale di ripresa. Il bisogno di riforme strutturali è alto quanto la rabbia della gente, ma la politica non ha saputo quasi mai dar risposte e oggi le persone hanno un così forte desiderio di credere che qualcosa possa cambiare che sono disposte a investire speranza anche dove non ci sarebbe nessun ragionevole motivo per farlo. È normale. Tutti abbiamo bisogno di credere in qualcosa di meglio, soprattutto io e te, che siamo abbastanza cresciuti da aver perso qualche illusione, ma ancora troppo giovani per arrenderci senza tentare di cambiare le condizioni che ci avviliscono. Eppure adesso tu sei mortificato. Scrivi che sei triste, che vedi intorno solo merda, e che per quanto uno (tu) “si sforzi di considerare i partiti come necessari alla salute della democrazia, finisce che non ce ne sia uno che sia uno, a chiudere la proverbiale porta.” Lo dici nei giorni in cui lo dicono in molti. Lo ha detto anche Giampaolo Cassitta ieri, scrivendo che “le favole, è vero, si raccontano ai piccoli. A noi è data solo la facoltà di riconoscerle. Ecco, sono stato un ingenuo. Ma la favola non mi è piaciuta per niente e voglio indietro i miei quattro euro.” Io vi leggo con affetto, amici miei, ma non posso fare a meno di chiedervi di cosa siete delusi. Certo, ieri era il giorno in cui la sinistra sarda, che vi ha portato entrambi alle sue primarie vendendovele come festa della democrazia, si è vista imporre dalla segreteria di Roma alcuni ripescaggi e un paio di impresentabili nomi esterni. Ma come può essere questo a deludervi? “L’appartenenza al partito italiano fa sì che la direzione romana possa imporre chiunque, e scegliere l’ordine di precedenza nelle liste. Una decisione che diventa insindacabile. Le organizzazioni vivono del rispetto delle gerarchie e agiscono di conseguenza”. Lo ha scritto stamattina il nostro amico Nicolò e io davvero non avrei saputo dirlo meglio. Quello che è accaduto era nell'ordine delle cose in cui vi siete riconosciuti. Ora vi sembra che la vostra prospettiva democratica sia stata avvilita, ma in effetti il PD ha fatto proprio quello che un partito italiano deve fare: ha considerato la Sardegna uguale al resto del territorio italiano e ha agito di conseguenza. E del resto, se la Sardegna è Italia, perché uno di Milano non dovrebbe poterla rappresentare quanto uno di Cagliari? Se Cossiga e Segni hanno potuto fare il presidente di tutti gli italiani, che c'è di strano se Bobo Craxi pensa di poter fare il deputato per tutti i sardi e se Francesco Sanna può essere trombato qui e ripescato a Roma? Non è la vostra squadra che ha infranto le regole: è il gioco che avete scelto che le impone, un gioco tutto italiano in cui ai sardi – meno del 3% dell'elettorato - tocca la maglia da mediano e al massimo dieci minuti di partita. Pensavate mica di decidere la formazione? O di negoziare gli schemi di gioco? Non è cinismo il mio: constato semplicemente la contraddizione che c'è nel voler essere uguali agli italiani (stessi partiti, stessi mondi di riferimento, stesse speranze a cui dare due euro) e poi stupirvi se vi considerano tali, cioè parte di sé di cui disporre a piacimento secondo logiche costruite altrove. Finchè le scelte dei sardi esprimeranno un baricentro politico a Roma, non ci sarà nulla da scandalizzarsi se l'Italia ci detterà regole e interessi in proporzione a quanto conta per lei la Sardegna, percentuale che lascio desumere a voi dai fatti di questi giorni, se non proprio da quelli degli ultimi sessant'anni. Quando prenderemo tutti atto di questo, l'indipendenza ci apparirà esattamente per quello che è: una necessità storica non più rimandabile. Non è quindi il momento della delusione, amico mio, amici miei, ma è quello del discernimento. Perciò non mi unirò al coro di chi oggi vi chiede stupidamente di uscire dal PD o da SEL appresso ai teatranti che stanno restituendo tessere e indignandosi perchè sono passati altri ascari al posto loro.Io non vi chiedo pelosamente di cambiare squadra.Vi chiedo invece di riflettere sulla possibilità reale di cambiare gioco, o almeno di provare a pensarci insieme. la mia risposta: Cara Michela, rispondo alla bella provocazione apparsa oggi sul tuo sito e rimbalzata anche su Facebook nella quale ti stupisci del fatto che io, rispetto al gioco delle primarie del Partito Democratico in Sardegna , sono deluso. E’ vero. Sono deluso (ma non perché credevo vivessi in una favola, figuriamoci) perché ci avevo messo un briciolo di passione e dovevo pur ricordarmi che la passione non concede – secondo Pasolini – il perdono, ma dovevo ricordarmi che l’èquità - per dirla con Kant – appartiene solo al Tribunale della coscienza, mentre all’opposto, ogni questione di Diritto propriamente detto, deve essere portata davanti al Tribunale Civile. E bene avrei fatto a capire che la coscienza, in politica, era merce rara. Ora, non voglio discutere di autonomia e autonomismo della Sardegna né di quello che tu, giustamente, evidenzi: se apparteniamo all’Italia, il gioco è questo e ci può stare che in Sardegna possa gareggiare anche un “italiano” , così come è lecito che un “sardo possa diventare presidente della Repubblica o, meglio, segretario di un grande partito che fu fondato da un altro piccolo grande sardo. Tutto ci può stare. Ed è vero, così come scrivi, che noi rappresentiamo solo il 3% del potere politico in parlamento, proprio perché siamo pochi. Non è questo il punto (meglio, non lo era e non lo è per me). Penso a molti sardi che molto male ci rappresentano in Parlamento e penso anche a quelli che peggio ci rappresentano nelle istituzioni locali (per i nomi ho una lunga lista). Ma io sono una persona testarda e leale (dicono siano i sardi ad avere questa caratteristica ma, chiaramente, non sono d’accordo) e se mi dicono che ho solo dieci minuti di partita da giocare io in quei dieci minuti cerco di dare il meglio e passare la palla. Quindi, Michela, se è vero che il nostro ruolo era molto marginale (e lo sapevamo) quello che contesto è che anziché farmi giocare quei dieci minuti (e su questo c’era un accordo) rimango in panchina. Meglio, in tribuna. E ci può anche stare, ma non chiedetemi di non rilasciare poi velenose interviste sull’allenatore e sulle regole del gioco. Mi ha sempre accompagnato la passione nelle cose che faccio. Non ho mai avuto una tessera di partito. Ho scritto due libri nei quali ho raccontato un certo tipo di mondo, quello extraparlamentare di sinistra, quella follia creativa degli anni settanta che ho attraversato vivendo tutto con immensa densità. Adesso volevo solo immaginare, almeno per un attimo, che potessimo riuscire perlomeno ad essere uniti su delle scelte (tra l’altro i miei candidati le primarie le hanno perse, per dire) e speravo che Bersani si ricordasse che essere equi significa essere molto lontani dal pensiero del mio caro amico Cesare Beccaria: “ La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comando di alcuni pochi”. Ed invece queste sono state le primarie. Me ne dispiace. Ma sono indulgente. Per fortuna covo numerose altre passioni che mi regalano intensi colori e mantengono alta la mia curiosità. A cambiare gioco ci devo pensare. Un abbraccio, Giampaolo Cosa posso acquistare con quattro Euro? Ho pensato intensamente a questo problema anche perché devono essere quattro euro giusti. Senza resto. Potrei entrare nei negozi “tutto a un euro” e scegliere, che so, un cestino di falso vimini, una candela, un set di pile che non funzionano, un pacco di stecchini. Oppure acquistare tre quotidiani e lasciare il resto all’edicolante che, magari, si offende. Potrebbero uscire quasi tre litri di benzina, meglio, posso mettere 4 euro di benzina nel serbatoio e fare una passeggiata verso il mare di Pula e respirare aria salmastra e forte. Potrebbe essere un’idea. Quattro euro non sono poi molti. Vero. Però se li moltiplicassimo per tre milioni sono dodici milioni di euro e allora, come dire, l’orizzonte cambia. E quattro milioni per quattro euro sono sedici milioni di euro tondi.
Sedici milioni di euro erano il prezzo della democrazia. L’avevano deciso quattro milioni di italiani. Tutti felici, tutti contenti. Anche in Sardegna, soddisfatti di aver superato il Porcellum, felici di essere protagonisti, di aver contribuito alla scelta dei propri candidati. Poi, nella lista alla Camera scopri che tutto si sconvolge, che il Sulcis sale al primo posto per far posto ad un tale, al quarto posto c’è un socialista che per vergogna e per pudore non hanno ancora nominato (Craxi, Martelli,?). Insomma, la faccio facile e minimalista. Mi restituite per cortesia i miei quattro euro che Jonny, l’extracomunitario che vende fazzoletti all’angolo in Piazza Repubblica, a Cagliari, ha uno sorriso che merita il mio piccolo investimento? Qualcuno mi dice dove si trova l’ufficio rimborsi? Le favole, è vero, si raccontano ai piccoli. A noi è data solo la facoltà di riconoscerle. Ecco, sono stato un ingenuo. Ma la favola non mi è piaciuta per niente e voglio indietro i miei quattro euro. Grazie. Il problema più grande della democrazia moderna è che non hanno capito cosa sia la democrazia. C’è gente che è cresciuta con la musica intorno. Si canta come una melodia ”acqua azzurra acqua chiara”, e si strimpellava in tutte le spiagge” la canzone del sole” o i giardini di marzo, quando il carretto passava e quell’uomo gridava gelati. Chi non conosce, sempre di Battisti, amarsi un po’ che è come bere o chi non si ricorda Il testamento di De Andrè che finisce con quel bellissimo aforisma poetico:”quando si muore si muore soli?” Ho conosciuto stuole di ragazzi che cantavano Bocca di Rosa, l’amore sacro e l’amore profano o, ancora, provavano l’accordo in Do maggiore per la cattiva strada di De Andrè. Ma il più corale, il più fischiettato era Lucio Dalla con Quale allegria e Cara. E quello che faceva innamorare? Beh, Claudio Baglioni E tu, accoccolati ad ascoltare il mare, il passerotto che non deve andare via di sabato pomeriggio. Ma anche Venditti con Lilly lilly quattro buchi nella pelle oppure ciao uomo, nato sotto il segno dei pesci, ci vorrebbe un amico per poterti dimenticare ed infine le liriche del principe, quel generale dietro la collina dove c’è ancora la notte crucca ed assassina oppure la cavalcata selvaggio di Bufalo Bill, quando il paese era molto giovane e lui aveva un amico culo di gomma, famoso meccanico.
Insomma, queste erano le canzoni che si canticchiavano e che si strimpellavano con la chitarra. Anche io, anche la mia generazione. Soprattutto la mia generazione. Eppure, un giorno, quasi per caso ascoltai una canzone dolcissima e struggente: per te, quella che aveva un ritornello intimassimo:” che a bere i tuoi pensieri, a bere quello che era ieri, cercando di raggiungere chi, al vento avrebbe detto si. Una folgorazione. Era Battisti, un Battisti che non conoscevo. Fu un’altra canzone che mi portò a cercare una strana verità: era via del campo , dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior. Erano i versi bellissimi di una canzone che non avevo mai sentito. Era Fabrizio De Andrè. Allora cominciai a chiedere, ero curioso, volevo sapere. Un esperto sorrise e mi disse: sono il lato B. “Il lato B di cosa?”, chiesi io. “Il lato B dei 45 giri”. “Sai”, aggiunse, “un cantante deve per forza scrivere due canzoni: scegliere la migliore per il lato A e poi metterne una per il lato B. Quella tanto, non l’ascolterà nessuno”. Non avevamo a quei tempi cognizione che esistessero anche gli Lp, i 33 giri, meglio, non avevamo i soldi, a dire il vero. E allora cominciai ad ascoltare il lato B di tutte quelle canzoni che mai avevo sentito e scoprii come per incanto che nel lato b erano state relegate: dieci ragazze per me, posson bastare, ed eri bella, comunque bella, quel gran genio del mio amico che mi diceva si viaggiare. Un Battisti da lato B. E un De Andrè che nascondeva le sue perle, come la ballata del miche o Amico fragile dove è bello pensare che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo cominciare una chitarra, il cucciolo Alfredo di Lucio Dalla, balla balla ballerino e il tenebroso Baglioni con l’intimissima chissà se mi pensi, qui sotto il cuscino se mi hai trovato carino se mi vuoi qui vicino, se mi vuoi qui con me, ma anche poster, seduto con le mani in mano mentre passa la signora con i sacchetti dell’Upim per andare lontano. Il Venditti di compagno di scuola, di Roma Capoccia, di Sara svegliati è primavera, della bellissima e intensa notte prima degli esami e come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati. E infine due perle di De Gregori: quell’Atlantide che dice che vive dentro un capello pieno di ricordi e il natale ricordato e amato in una ballata d’altri tempi. Il lato B. Quello che mi ero sempre perso. E ho capito, da quel giorno che era interessante tutto, ascoltare ed essere curiosi. Ecco perché nasce l’antologia di racconti La cella di Gaudì, perché anche quello che tutti pensiamo possa essere il lato B degli uomini è in realtà qualcosa dove è possibile che nascano i fiori. A volte stando dentro il lato B della vita si osserva con più attenzione lo sfolgorio e la lucentezza del lato A che non basta, però, a raccontare e colorare l’anima. Da quella cella si doveva per forza guardare in maniera diversa, con occhi penetranti e nuovi: si doveva cambiare prospettiva: quella che trovate nella Sagrada Famiglia a Barcellona, l’unica chiesa visitata da milioni di fedeli dove non si canta Messa. Un’assurdità incantevole, un ossimoro perfetto: il lato B di tutte le chiese del mondo. La chiesa di Gaudì, con guglie verso il cielo, un cantiere sempre aperto, come le storie degli uomini, dove nulla è definito e definitivo. La cella di Gaudì con pezzi di vetro che si infrangono e si colorano. Ecco il nostro viaggio nel lato B delle opportunità. |