Sembra quasi una storia d’altri tempi, di quando c’era ancora la macchina a vapore ma sta di fatto che il vicepremier turco Bulent Arinc afferma pubblicamente che “la donna sa ciò che è peccaminoso e non deve ridere in pubblico”. Frase sfacciatamente maschilista e, per certi versi anche triste. Ecco perchè la reazione delle donne turche non si è fatta attendere: quasi trecentomila tweet contro il politico conservatore e una miriade di selfie dove le donne sorridono apertamente. Quanto sembriamo lontani da questi mondi ma poi, riflettendo, abbiamo un signore che classifica giocatori di calcio stranieri come scimmie: “se non fossero in Italia starebbero nei loro paesi a mangiare banane”; ne siamo appena usciti da un ventennio tutto “infermiere e Papi e bunga bunga” e facciamo fare gli inchini ad una statua della Madonna davanti alle case dei mafiosi. Che fare? la cosa più semplice, quella messa in opera brillantemente e con estrema saggezza dalle splendide donne turche: “resistere e ridere” ovvero direnkahkaha, parola difficile ma rende l’idea. Il sorriso, in fondo, è la cosa più seria da contrapporre alle stupidaggini umane.
direnkahkaha, resistere e ridere. (giampaolo cassitta)
Sembra quasi una storia d’altri tempi, di quando c’era ancora la macchina a vapore ma sta di fatto che il vicepremier turco Bulent Arinc afferma pubblicamente che “la donna sa ciò che è peccaminoso e non deve ridere in pubblico”. Frase sfacciatamente maschilista e, per certi versi anche triste. Ecco perchè la reazione delle donne turche non si è fatta attendere: quasi trecentomila tweet contro il politico conservatore e una miriade di selfie dove le donne sorridono apertamente. Quanto sembriamo lontani da questi mondi ma poi, riflettendo, abbiamo un signore che classifica giocatori di calcio stranieri come scimmie: “se non fossero in Italia starebbero nei loro paesi a mangiare banane”; ne siamo appena usciti da un ventennio tutto “infermiere e Papi e bunga bunga” e facciamo fare gli inchini ad una statua della Madonna davanti alle case dei mafiosi. Che fare? la cosa più semplice, quella messa in opera brillantemente e con estrema saggezza dalle splendide donne turche: “resistere e ridere” ovvero direnkahkaha, parola difficile ma rende l’idea. Il sorriso, in fondo, è la cosa più seria da contrapporre alle stupidaggini umane.
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Ho sempre pensato che i protagonisti dei romanzi potessero un giorno venirmi a trovare, magari a casa, mentre tranquillamente guardavo la televisione o leggevo un libro. Alcuni li ho amati moltissimo, altri meno, altri ancora li ho detestati e di alcuni ho avuto paura. Misery, per esempio, la protagonista del libro di Stephen King, mi produce sempre una certa adrenalina e, davvero, mi inquieta. Adso, il protagonista del “nome della Rosa” di Umberto Eco spero sempre che un giorno mi venga a trovare. Mi piace quel suo voler scoprire a tutti i costi i misteri della vita. Così nella mia popolosa presenza di personaggi amati e abbracciati leggendo numerosi libri non posso non annoverare quelli di Cent’anni di solitudine. Tutti, indistintamente: da Josè Arcadio Buendìa primo, al secondo, ad Aureliano Rebecca, Rimedios, agli zingari e il loro circo, al grande Colonello Aureliano, il condottiero combattente perdente di tutte le battaglie. Cent’anni di solitudine e Macondo è stata una bella storia. Che mi ha accompagnato nelle colline tortuose dell’adolescenza e ho ritrovato, dopo diverse curve, anche nei rettilinei della compassata adultità. La cosa più bella è immaginare Aureliano Buendìa ricordare la prima volta che ebbe la possibilità di conoscere il ghiaccio. Quel pezzo, decisamente rappresenta l’arte sublime del narrare ed è, forse, il miglior incipt dei tantissimi libri che ho letto. Scoprire che a Perdasdefogu hanno voluto titolare una piazza a “cent’anni di solitudine” mi emoziona moltissimo. E’ un omaggio a Gabriel Garcia Marquez ma è un dolcissimo pensiero a tutti i personaggi della saga di Macondo. Nessuno, per esempio ha mai pensato di titolare una piazza ai “Promessi Sposi” o a “canne al vento”. Probabilmente sbagliando abbiamo pensato sempre allo scrittore e le nostre vie sono intasate da Alessandro Manzoni e Grazia Deledda. Ma abitare o passeggiare in “Piazza cent’anni di solitudine” è di una leggerezza impagabile. A volte le piccole idee rendono il mondo più dolce. Così, quando su una panchina a Perdasdefogu ci si rilasserà, in Piazza Cent’anni di solitudine ci sembrerà che prima o poi passi prima Ursula e poi Josè Arcadio con Melquiades che proclama sorridente: “La scienza ha eliminato le distanze.” Anche le idee come questa finiscono per ributtarci dentro un mondo bellissimo e avvolgente: quello dei libri.
Il bambino ha il pallone sotto il braccio e la maglia del Barcellona. Occhi minuti e determinatezza nel dribbling. Ha imparato da subito a destreggiarsi in questa vita veloce fatta di sibili e di atrocità. Non ha mai giocato in un campo di calcio. Di quelli veri. Di quelli con l’erba e le porte con la rete. Lo ha solo visto in televisione, con il satellite, quella ruota arrugginita esposta sul terrazzo di casa. Il bambino non conosce la differenza tra un sorriso e un abbraccio, ma sa essere veloce quanto sente, da lontano, il rumore degli aerei, quelli che lanciano morte e squarciano i corpi. Poi, quando tutto passa, quel bambino riporta gli occhi verso un orizzonte ormai modificato, gonfio di macerie e di detriti che si depositano, pian piano anche sulla sua vita. Voleva solo giocare a pallone in un campo colorato di verde, voleva solo correre per il gusto estetico di irrigare di sudore la maglietta numero dieci che, adesso, invece è madida di terrore.
DIARI DI ISRAELE (scritto il 15 luglio 2014, a Gerusalemme) by Giampaolo Cassitta. Bisogna esserci a Gerusalemme per capire gli umori di una città apparentemente assonnata e docile, per capire le piccole differenze che difficilmente si riescono a comprendere da lontano. Bisogna attraversarla questa terra martoriata con una corazza spessa ma con un grande cuore di cristallo. Gerusalemme in questi giorni è attraversata da una tranquillità apparente. Nel quartiere arabo si festeggiava la fine delle scuole superiori e gli studenti, per strada, fanno scoppiare migliaia di mortaretti, come se il rumore, lo scoppio, la perturbazione sonora debba, necessariamente, attraversare questo lembo di terra gonfio di contraddizioni. La gente non parla di guerra. Nel quartiere ebraico, ordinato e pulito, tutti corrono veloci, nessuno ha commenti da regalare e i credenti pensano alle preghiere incollati nel muro del pianto. Solo i soldati con i loro mitra sembrano atteggiarsi a salvatori della patria. Sono ragazzine e ragazzini con un mitra pesante che ciondola e mette paura e rispetto. Nei check point della porta dei leoni c'è molta attenzione e la spianata delle moschee è particolarmente affollata di donne musulmane che, di tanto in tanto, gettano cori duri, qualcuno parla di protesta, nei confronti di un cielo diviso per tre. Questa è la contraddizione più forte di questa città raccontata da molti e compresa da pochi. Qui tutto è terribilmente diviso tra ebrei, cristiani e musulmani: le tre più grandi religioni monoteiste che hanno, tra l'altro in comune un unico Dio. E non sarebbe poco. Ed invece si nota da subito che sotto traccia serpeggia un atteggiamento ambivalente, una paura nascosta, celata nelle preghiere, nel non voler o non poter dire, nel prendersi ognuno la propria fetta, la propria strada, il proprio Dio unico e diviso in una terra che dovrebbe essere di tutti e non è di nessuno. Bisogna essere a Gerusalemme per sentire le parole di molti palestinesi disinteressati a questa nuova guerra, costretti ad essere i "cattivi" predestinati. Eppure non hanno un esercito, non hanno una terra e quella dei loro territori è ampiamente spezzettata. "Lo fanno apposta", dicono. "Hanno costruito una loro città tra Gerico e Betlemme, impedendoci di poterle congiungere." E ci hanno piazzato il muro. Questa parola che ritorna molte, troppe volte da queste parti. Dal muro del pianto al muro nero sino a guardare quella muraglia terribile che avvolge Betlemme e si vede fin dalla Gerusalemme ebrea. Bisogna vederlo quel muro per capire che ci saranno pure torti e ragioni ma non è possibile un dialogo con quel muro davanti. A Gerusalemme adesso dicono che i palestinesi non accettano la tregua perché vogliono attentare alla loro vita e vogliono uccidere degli innocenti con attentati terroristici. La differenza però che si percepisce è un'altra: che qui, a Gerusalemme, il quartiere ebraico lindo e pulito può essere ben difeso dalla contraerei che a Gaza non c'è. La differenza che si percepisce è nei numeri dei morti che a seconda di chi li cita assumono un peso politico diverso. I palestinesi però continuano a ricordare di non avere una terra, di non riuscire, nei loro territori ad organizzarsi. Chi passa per Gerico capisce subito la povertà di quella terra, l'impossibilità di continuare gli scavi perché nessuno è in grado di finanziarli. C'è molta rassegnazione tra i palestinesi di Gerusalemme. "Perderemo sempre," dicono. Se non hai la terra il Dio non ti basta. Dio, Allah e Javhé potrebbero anche mettersi d'accordo posto che sono un'unica entità. Eppure la cosa più naturale non accade. Tra le mura di una città che dovrebbe essere la capitale del mondo, l'incontro di culture tutte rispettabili e da rispettare, dentro questa città di rumori e suoni lontani dove ognuno professa la sua fede nella maniera più variegata, dentro queste mura non c'è pace. Una contraddizione vivente che non ci porta lontano. La città conquistata e caduta, distrutta e ricostruita troppe volte, non riesce ad unire l'unico Dio e provare a partire da quel punto in comune. I palestinesi hanno diritto alla terra, come il popolo d'Israele. Il sangue dei bambini ha lo stesso colore e pesa terribilmente allo stesso modo. La dignità non intraprende troppe strade ma solo una e vale per tutti. Non saranno le bombe, i raid, le difese, i martiri a restituire la terra promessa. Qui, a Gerusalemme, i palestinesi parlano di genocidio, parlano di cordoni umanitari per la striscia di Gaza, parlano di migliaia di senza tetto. Qui, a Gerusalemme sembra tutto ovattato, molto lontano dal sud del paese. Ma si respira un'aria pesante. Si sperava in un cessate il fuoco. Che non c'è stato con accuse reciproche. Mi dicono che sono giochi politici, che la gente, a Gaza, ma anche a Gerico e a Betlemme vive malissimo, di stenti. Mi dicono che ognuno ha diritto al proprio pezzo di terra. Soprattutto in terra santa rispondo senza trovare altre parole. Articolo apparso sulla Nuova Sardegna del 11 luglio 2014
diritti riservati © by giampaolo cassitta La speranza non si baratta ed è la sola che illumina le giornate nere, senza sogni, senza ponti da attraversare. La religione cattolica è un inno alla speranza, alla salvezza, alla possibilità di poter, un giorno, riconciliarsi con il proprio Dio disegnato e descritto da tutti come un padre paziente ma, in ogni caso, esigente. Affermare che la mafia, la camorra, la ndrangheta siano lontani da Dio, per quanto sia un messaggio forte è anche, per certi versi, piuttosto ovvio. Scomunicare chi vive di mafia, camorra e ndrangheta è quindi consequenziale. Il problema però diventa importante quando a dibattere della questione sono i detenuti, quelli condannati per questi reati e quindi considerati da sentenza dello Stato appartenenti alla criminalità organizzata. La religione è stata sempre un terreno molto delicato e il rispetto per i credenti e per i non credenti deve essere sempre al di sopra di tutto. Ognuno ha diritto di professare il proprio credo. Da questo diritto, particolarmente importante in carcere, nasce però la richiesta di chiarezza da parte di chi è stato condannato, magari all’ergastolo che, oltre a nutrire una flebile speranza di poter uscire un giorno dal carcere, si ritrova anche la saracinesca della sua religione, del suo credo, incredibilmente chiusa. Papa Francesco non ha però condannato l’uomo, ma ha condannato un aspetto, un comportamento, un vivere al di fuori della comunità che si è data regole diverse da quelle dei mafiosi. Per chi rifiuta un confronto con il proprio Dio, per chi non ha il coraggio di attraversare nel deserto, in solitudine, in riflessione, per chi continua a mantenere quegli atteggiamenti, non può bussare alla porta della Chiesa proprio perché si è accasato da un’altra parte. E non valgono i santini bruciati, gli inchini di statue davanti a signorotti del paese (inchini che, beninteso, si ripetono da anni e solo una nuova presa di coscienza oggi ce li mette in mostra e ci fa gridare allo scandalo) non valgono i soldi ottenuti chiedendo il “pizzo” o vendendo sostanze stupefacenti e utilizzati per la festa del Santo. Papa Francesco ha semplicemente detto che tutto questo non può valere al cospetto di Dio perché manca, fondamentalmente, il passaggio del confronto, della riflessione. Manca, dunque, la disposizione al perdono che è chiaramente profondamente religiosa e lontana dalla laicità dello Stato. I detenuti si avvicinano al cappellano perché egli rappresenta un barlume di speranza e a volte confondono i piani tra Stato e chiesa. Su questo però occorre essere chiari e il buon Cavour lo ricordava alla fine del 1800: “libera chiesa in libero Stato” dove ognuno ha le sue prerogative e ognuno le sue strategie. Molti detenuti, a volte, ritengono di poter miscelare le due libertà, pensano di poter ottenere di più se ci si avvicina alla religione, se i loro passaggi si infarciscono di buone intenzioni. Tutto questo è un fatto assolutamente positivo e apprezzabile, ma non è il percorso richiesto dallo Stato che mantiene una visione assolutamente laica del comportamento all’interno degli istituti penitenziari e la religione è solo un elemento del trattamento che ha nella sua globalità interventi più complessi. “Lo sciopero della messa”, così come frettolosamente hanno titolato alcuni quotidiani, è un falso problema. Bisognerebbe domandarsi, invece, perché chi si ritiene quasi sempre estraneo ai reati come l’associazione per delinquere e nessuno di essi si dichiara “mafioso”, abbia richiesto un confronto. Semplicemente per paura di restare isolati, di non far parte più della comunità, quella costruita nei secoli attraverso le credenze religiose e non sulla “religione”. Uniti agli usi e alle tradizioni, non certo disposti all’analisi e all’esegesi cristiana. Hanno avuto paura che la religione, quella vera, le chiedesse uno sforzo cristiano e le chiedesse di abiurare un’altra religione, un altro credo: quello mafioso. Di questo hanno avuto terribilmente paura. Di restare soli e perdenti, quello che, laicamente, auspico da sempre. Ecco il mio commento pubblicato stamattina sul quotidiano “La Nuova Sardegna” a proposito della condanna europea all’Italia sui fatti del carcere di S. Sebastiano a Sassari, accaduti nell’aprile del 2000.
Abbiamo provato a ripartire così, senza guardarci indietro, come si fa quando la paura ci attanaglia e lo sgomento costruisce fili sottili dentro lo stomaco. Abbiamo provato a dimenticare, perché gli anni sedimentano gli animi e la sabbia appesantisce il dolore e incrosta i ricordi. Ma quella ferita, quella tristezza sotto traccia, è riaffiorata oggi, con la sentenza dell'Europa che condanna lo Stato italiano per maltrattamenti contrari all'umanità nei confronti di un detenuto. È accaduto nel 2000, a Sassari, nel carcere di San Sebastiano. Sono stati giorni duri, bui, sono stati momenti sospesi in un vuoto senza senso, attimi intensi pieni di sconcerto e di costernazione. Le sentenze che sono state scritte hanno riportato la verità processuale e oggi l'Europa ci dice che quelle storie sono state analizzate in maniera sbagliata. Difficile mettersi dalla parte di qualcuno, oppure giudicare chi dovrebbe garantire quotidianamente lo Stato di diritto. Quei giorni duri e cupi, dove tutti siamo passati nella strettoia del silenzio, dove abbiamo assistito agli arresti eccellenti, dove dei poliziotti sono finiti in cella ecco, in quei giorni, nessuno ha vinto. Fu una sconfitta severa per tutti. Ma fu anche un punto di partenza diverso e fu una linea sottile nella quale si delimitava il passato e il futuro. Le sentenze hanno condannato e assolto e la storia processuale è cristallizzata. Oggi l'Europa ci suggerisce una strada, un momento di riflessione cui nessuno si può sottrarre: operatori e cittadini. Perché si parla di tortura, di diritti, di libertà, ma si parla, soprattutto, di dignità. Da alcuni anni gli sforzi del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria sono tutti votati al superamento di questa strana emergenza non voluta dalla struttura ma nata da scelte legislative effettuate dalla politica. Infatti, se le carceri scoppiano è perché, come paese, abbiamo sempre voluto rispondere al reato, a qualsiasi reato, con il carcere. E abbiamo ammassato la gente nonostante gli istituti penitenziari potessero contenere solo un certo numero di detenuti. Si è continuato, negli anni, a recludere piuttosto che a includere. Quello stare chiusi, quel non poter fare praticamente niente al caldo o al freddo, quel non poter avere nessuna alternativa ad una cella tre metri per tre dove, come nel caso del vecchio carcere di S. Sebastiano, si viveva gomito a gomito e con un bagno all'interno della cella, con un piccolo muro divisorio. Dove la tensione era all'ordine del giorno, dove era impossibile poter progettare attività trattamentali, dove l'ordine non aveva più un senso logico, dove la dignità non trovava nessun luogo per accovacciarsi ecco, all'interno di quella bolla immensa è successo. Sono stati attimi assurdi, raccontati dai detenuti e ricordati nelle aule processuali. Sono stati i rumori, i lamenti, le paure, la follia forse, sono stati i gesti inconsulti, le scelte sbagliate, quelle per le quali delle persone sono state condannate. Ma all'Europa non è bastato. La corte ha sottolineato la lunghezza dei nostri processi, il nostro farraginoso modo di costruire la giustizia, la lieve entità delle pene nonostante fosse stato assodato che il pestaggio dei detenuti fu attuato. L'Europa ci chiede di riflettere. Quel risarcimento al detenuto ha questo significato: non deve più accadere. Mai più. Gli sforzi degli ultimi anni sono andati in questa direzione. Le carceri sono state aperte, gli spazi amplificati, oggi nelle carceri si respira un'aria diversa, si prova a mettere al centro il detenuto e il trattamento, c'è la consapevolezza dell'errore e c'è anche la volontà di riparavi. La sentenza sui fatti di Sassari ci costringe a riguardare dentro gli errori, a respingere con forza quegli avvenimenti, a giocare la partita solo ed esclusivamente sulla dignità delle persone. By Giampaolo Cassitta – tutti i diritti riservati -- Come possiamo dividere gli occhi e i polmoni, pretendere di sistemare le braccia, le mani, provare a usare due ceste per gli stessi piedi, le dita, le vene. Pensare che il sangue abbia un diverso pulsare a seconda dell’uomo che abbiamo davanti, credere che il cuore abbia altri disegni e le lacrime sostanze che non collimano con quelle degli altri. Essere convinti, terribilmente convinti, che ci siano bambini palestinesi, ebrei, cristiani, bambini che hanno sicuramente sguardi diversi davanti ad un mondo orribile, ma quegli sguardi meritano lo stesso rispetto. Quando riusciremo a comprendere passaggi davvero semplici e quasi lapalissiani: noi siamo nati in un certo luogo e in un certo modo solo per caso. Quel luogo, poi ci viene cucito addosso, ne respiriamo gli attimi ma non c’entra con la pelle, con la religione, con l’amore, con gli abbracci e, soprattutto, non c’entra con i bambini. Chi uccide i cuccioli recide il futuro. Lo dico da anni e lo urlo ancora più forte. Non si discute di pace buttando sul tavolo delle trattative sangue di ragazzini. Da nessuna parte e per nessun motivo. Non sopporto questo gioco poco infantile di scoprire chi è stato a lanciare il sasso per primo, di provare a lanciare la palla sul campo dell’avversario, sulla pessima credenza di poterla fare franca. Non possiamo continuare a macinare odio e bombardare i fantasmi colpendo i bambini, sequestrare ragazzi e massacrarli. Come possiamo, poi, ritornare a casa e dire che questa è la vita, che in fondo peggio per chi è nato dalla parte sbagliata e ha usato una barca per fuggire dall’orrore ed è morto senza neppure capire da che parte di quel mare potesse nascere il sole. Siamo noi che dividiamo gli occhi e le braccia e i polmoni. Siamo noi che disegniamo luoghi che non esistono che non servono alla vita, ma solo ed esclusivamente all’odio e alla morte. Non ci sono corpi che diventano eroi. Ci sono uomini che per la follia che ci contraddistingue non riusciranno mai a crescere. La colpa non è di quei bambini, ma la nostra. Siamo noi che non siamo cresciuti e non abbiamo compreso che non c’è nessuna differenza nelle pulsazioni del cuore degli altri.
CALCIO A SBARRE – Dal nostro inviato stabile a Sassari Bancali. Germania Algeria 2-1- (nona puntata)1/7/2014 Ma, a ve lo immaginate il casino da niente che è ne è uscito dalla mia cella e in quella vicino ieri sera? Per capirlo vi dico subito che noi in cella siamo in tre: io, Mariolino detto l’uomo ragno perché una volta era entrato in un appartamento di Li punti al terzo piano e lo avevano cassato. Lui, disperato si è attaccato all’edera del poggiolo ma soffriva di vertigini e ne lo hanno tirato i pompieri. Un’ora attaccato come l’uomo ragno. Poi, un algerino Mohamed, e siccome tutti si chiamano Mohamed noi lo chiamiamo Flika, come il loro presidente Buteflika. Flika sta facendo il ramadam una specie di sciopero della fame organizzato da tutti i musulmani, ma dura sino al tramonto e poi lui si mangia anche un toro crudo ma non maiale. Una religione un bè strana ma Flika è uno togo e noi non ci facciamo caso. Mamma, ieri mi ha portato i papassini e Flika non li ha mangiati perché è convinto che mamma li fa con lo strutto del maiale. Gia è poco fanatico. In ogni caso l’uomo ragno non ne ha lasciato neanche uno con la scusa che era nervoso perché tifava algeria. A lui, a dire il vero non gliene fregava niente degli algerini ma è un bè incazzato con i tedeschi perché una volta, a Sorso, stava rubando una polo di un tedesco e la sfiga ha voluto che quello era un emigrante sussinco e gli ha dato roba di sussa che ancora per andare al mare fa sempre il giro da Stintino. Insomma, nella nostra cella tutti a tifare Algeria e in quella a fianco, invece, tre tunisini incazzati che chiaramente tifano contro gli algerini. Adesso, dico io ma come fanno i tunisini a tifare Germania? Capisco i turchi ma questi. Quando è cominciata la partita è passato l’assistente e ci ha detto di non fare troppo casino e già ci siamo capiti. Boh bo, manco tifare si può adesso e comunque ci siamo stirrigati a letto a vedere la televisione perchè in questo nuovo carcere, non per dire, ma hanno appiccicato la tv al muro, di quelle piatte e sembra un quadro che per vederla devi per forza tirarti a letto. Per tutta la partita si tifava e si guardava Flika che si mangiava un bè di roba e allora io gli ho detto “ma, bello bè, questi calciatori a lo fanno il ramadam?” E flika mi ha risposto che c’è l’iman che gli ha fatto una fatwa che potevano mangiare basta che vincano. Io di questa religione non ci ho capito molto ma mi sto zitto perchè anche della mia non ho capito tutto. L’uomo ragno dopo i papassini è passato a mangiarsi un’anguria e si è sbrodolato la camicia e ha cominciato a frastimare che anche Flika che ha un’altra religione gli ha detto di smettere che il Dio è sempre quello. Sarà, ma ai poveri Dio non ci guarda mai ed infatti ecco che i tedeschi segnano e poi raddoppiano e gli algerini a casa con il gol della bandiera, ma in ritardo. I tunisini urlavano dalla felicità che quando l’assistente è passato gli ho detto “E allora, questo tifo?” e lui si è messo a ridere. Flika si è messo a pregare e noi abbiamo girato canale. E anche qualche altra cosa. “A vincere sono sempre quelli del nord, “ ha detto flika. E io guardandolo ho risposto: “Ma noi non eravamo a nord dell’Algeria?” E lui ha risposto “ma siete a Sud della Germania”. Ecco se rinasco voglio nascere in Norvegia e poi lo vediamo chi mi frega. I miei amici poi mi hanno detto che il carcere in Norvegia è anche più togo. “E in Algeria Flika, com’è il carcere? “Come quelli del Sud, incasinato” dice flika e questa volta ho capito tutto. Buon mondiale a tutti.
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