Lo sguardo non aveva cielo. Solo asfalto tra le sue opportunità. Asfalto e voce afona, a chiedere qualcosa con la consapevolezza di non ottenere. O di ottenere molto poco. L’ho visto di primo mattino tra la farmacia e il distributore di benzina, a Piazza Repubblica, a Cagliari. Uno come tanti altri. Ma solo apparentemente. Si è avvicinato, ha chiesto scusa e poi ha mostrato il palmo della mano. Qualche spicciolo. E’ normale di questi tempi. E’ terribilmente normale anche se è un ossimoro inaccettabile, un rumore indecifrabile che riesce a produrre solo il sogno quando si spezza. Perché lui, come tanti altri, non è qualcuno che chiede l’elemosina. E’ un extracomunitario che chiede l’elemosina. Molto giovane. Vengono dal Ghana, dal Niger, dal Camerum, vengono dalla Tunisia. Avevano il vento caldo sulla schiena e gocce di fatica e di dolore da rimarginare. Hanno pagato e sofferto, si son nascosti perché non sono contemplati nelle carte di questo paese, hanno la sfortuna di essere nati in un altro luogo, che non hanno scelto. Noi li conosciamo, sono stati il corollario dei nostri anni. Sono giunti con sorrisi aperti e denti marci a venderci la stoffa e le magliette con quelle Peugeot blu stinte e completamente scassate; hanno lavato i vetri ai semafori, hanno venduto i fazzoletti, ci hanno aiutato a parcheggiare e, in qualche maniera hanno, a volte, esagerato nel chiederci di acquistare un paio di calze. Sono utili quando piove perché sbucano come d’incanto e ti offrono l’ombrello e poi, come sono apparsi, così misteriosamente scompaiono. Hanno i loro tavoli ambulanti pieni di mercanzia. Cose false, cose frivole, cose che si acquistano da poveri ragazzi per nascondere la nostra impossibilità ad appartenere ad un’altra classe: quella dei ricchi. Quelli veri. E compriamo i falsi Armani per sentirci meno ultimi di loro che li vendono. Ma è tutto specchiatamene falso. Hanno fatto tutto, alcuni lavorano nei bar, nei ristoranti, altri in piccole fabbriche. I loro figli cominciano a giocare con i nostri e si mischiano i colori. Siamo alla quasi normalità e all’accettazione. Quest’ultimo tassello però mi ha terribilmente colpito. Un africano che chiede l’elemosina. Non si era visto. Non era mai successo. Non basta cercare dieci centesimi tra le tasche, o far finta di non vedere, o guardare altrove. Non basta provare a raggranellare vecchi capitoli di sociologia, di teorie sull’etichettamento o sulle nuove povertà. Non basta. Perché quello che ho davanti è fuggito dal suo paese, dal suo nulla, da quel deserto senza futuro, è fuggito dalla fame certa e si è trovato in questa piazza, apparentemente colorata, apparentemente normale, dove la vita scorre fluida tra ragazzini e avvocati che si incrociano la mattina tra le scuole e il tribunale, dove i sorrisi sono misurati e gli sguardi sull’iphone; lui è la cornice di quella piazza che nessuno vuole osservare. Mi preoccupa il suo lungo e antico viaggio verso qualcosa che sperava migliore, verso una strada con meno curve, e si ritrova, invece, un paese ingobbito sulle proprie disperazioni che non riesce a farsi carico di quelle degli altri. Ma è un segnale, un segnale forte su cui tutti siamo portati alla riflessione. I ragazzi extracomunitari, la maggioranza africani, non hanno mai chiesto l’elemosina. Non lo avevano mai fatto. Sinora. Adesso nel centro della città sono a decine e si confondono tra qualche scalcinato punk a bestia, qualche ragazzo biondo con un cane e le solite ragazze madri davanti ai supermercati. Soprattutto zingare. Loro non c’erano. Non c’erano mai stati nella cornice della marginalità. Loro, in qualche modo, facevano parte del quadro variegato, magari ai margini, magari piccoli puntini lontani. Ma erano dentro il quadro. Oggi chiedono e se non ottengono vanno poi a fare la fila alla Caritas dove i pasti stanno celermente aumentando. Non possiamo semplicemente dire che la crisi ci attanaglia e ci sono “i nostri” da difendere. Se trovo un africano che chiede l’elemosina mi preoccupo, perché il suo sogno si è miseramente infranto e non riesce più a sognare. E chi non ha più desideri in tasca diventa egoista, diventa “un problema”. Dovremmo cominciare ad occuparci seriamente della cornice sociale. Prima che il quadro cada rovinosamente dalla parete. Un buon punto di partenza per la giunta Pigliaru.
Ho incontrato l’altra sera un conoscente che mi ha lasciato il suo indirizzo: “Abito in via Alagon”. “Ah, una via nobile, il marchese di Oristano e conte del Goceano”. Mi ha guardato come si osserva un giapponese alla ricerca di un ristorante francese tra le vie del quartiere Marina di Cagliari. Con una certa riluttanza. Non lo conosceva. Come pochi conoscono Ramon Cravellet, Mons. Cappai, Cocco Ortu, Giovanbattista Tuveri. Solo per ricordarne alcuni. Viviamo intorno a nomi che non conosciamo. Oppure sono dei “classici”: da Deledda a Manzoni, a Mazzini a Garibaldi. Vie che esistono praticamente in tutte le città. Lo studio della toponomastica di una città ha qualcosa di molto interessante. Si scoprono stratificazioni antropologiche, sociologiche e politiche. Ci sono città, Bologna, per esempio, che ha un connotato legato alla sinistra “ortodossa” con vie di altri tempi “via Stalingrado”, ci ricorda quel periodo storico ormai appartenente al secolo scorso. Ci sono poi città che utilizzano nomi di fantasia: Via delle nasse, via del Corallo o personaggi che c’entrano molto poco con la nostra storia: Via fondazione Rockfeller è, indubbiamente un ringraziamento ad un ricco signore che potevamo sicuramente evitare. Poi ci sono le vie e le piazze del dolore che delimitano un ricordo e un pezzo di storia: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Via Fani, Via Caetani, Via d’Amelio. Le vie raccontano la storia, le geografia e l’antropologia di un popolo. Ma, molte volte, non raccontano il popolo. Ad Alghero, le vecchie vie ricordavano i mestieri: Carrer de la pretura, Carrer del Buttaiu, a Oristano la conformazione della strada stessa: Via Dritta. Ci sono poi i luoghi con nomi ufficiali e rinominati dagli stessi abitanti: la piazzetta ad Alghero non ha un nome, ma tutti sanno dove si trova, Montecitorio è la piazza centrale di Siligo, dove i vecchi si riuniscono per discutere e che in dialetto è comunemente chiamata “carrela e piatza”, unendo quasi antropologicamente i due concetti vicini ma non uguali: la piazza e la via. Mi sono ricordato di un vecchio episodio di quando, da ragazzino, mi recavo all’ufficio anagrafe per dei documenti. A quei tempi non esisteva l’autocertificazione e anche per dimostrare di essere al mondo era necessario, perché qualche ufficio lo chiedeva, il certificato di “esistenza in vita”. Ad Alghero, presso l’ufficio anagrafe c’era il Signor Sechi. Si facevano delle file immense, dopo aver depositato la propria richiesta in un cestino di vimini che veniva svuotato di tanto in tanto. La gente sbuffava, parlava, rideva e fumava. Perché ai quei tempi nei locali pubblici era consentito fumare (sino al 1975, per la verità). Il signor Sechi, serafico, inflessibile, chiamava la persona depositaria del foglietto, controllava, pigiava dei pulsanti di un’ enorme macchina dove rumoreggiavano delle piccole targhette che prendeva in mano e cominciava a chiedere: Nascita per te? E quello rispondeva affermativamente. Bastava allora solo una targhetta di metallo che si infilava sotto una macchina che pressava il foglio e il certificato era pronto. Bollino e duecento lire. Stato di famiglia? Allora le targhette erano tante quante i componenti della famiglia. Tutti sentivano il rumore delle targhette e il signor Sechi conosceva tutti. Chiedeva del fratello, della sorella, sapeva che qualcuno aveva cambiato domicilio, conosceva chi si era sposato, i figli appena nati. Alghero, per lui era una grande famiglia. E aveva un sorriso docile per tutti. E’ da una vita che non vado in un ufficio anagrafe. Non è più quasi necessario. Non so neppure se ad Alghero quell’ufficio sia ancora in via Marconi e immagino, comunque, che le targhette metalliche non esistano più surclassate da moderni computer. Non ho più visto il signor Sechi. Sicuramente sarà in pensione e si ricorderà di molti algheresi che teneva in mano per “la targhetta”. Ecco, fra tanti anni, dopo la sua morte, sarebbe bello titolare una via di Alghero al signor Sechi: Via Signor sechi, ufficiale anagrafe, piccolo antropologo, profondo conoscitore di molti cittadini algheresi”. Così le città rivivrebbero con chi, davvero le ha calpestate.
Quel lieve sorriso, così fortemente fiero, quelle rughe e quegli occhi chini, pronti a contemplare il futuro e a disegnare rotte che nessuno, negli anni, avrebbe poi seguito. Quella voce gutturale, contemplativa, che riusciva sempre ad accentrare l’attenzione su quanto diceva. E sul livello politico di quanto veniva detto. Questo era, per me, Enrico Berlinguer. Un sincero passionale. Uno che amava lo scontro ma illuminato da prospettive chiare. Parlava di politica e ribadiva che un tempo, nel primo dopoguerra c’era in tutti la volontà di capire la realtà del paese e di interpretarla. E, soprattutto, ricordava il rispetto tra chi era avversario nella lotta quotidiana ma diveniva persona stimabile nelle pause e nella vita. Nella famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio del 1981 dei partiti politici diceva: «Sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero.» Li accusava di aver occupato lo Stato e alcuni grandi giornali. Poi, la domanda più difficile e più impegnativa: In cosa consisteva questa benedetta “diversità”? «Primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. (…)e possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. » Arriviamo, dunque, al nodo della questione morale, quel manifesto lucido, chiaro e deciso di un Berlinguer visionario e vero leader politico: « La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». La questione morale è dunque qualcosa di molto più complesso di quanto ha scritto sulla Nuova Sardegna l’On.le Marco Tedde [il giustizialismo a due velocità del partito democratico, 18 marzo 2014] e qualcosa di essenzialmente diverso dal complesso di superiorità tracciato dal consigliere di Forza Italia. Io e Marco siamo garantisti da sempre e non è questo il punto. Non si può però paragonare il caso Barracciu (solo indagata, per ora) e quello dell’ex sindaco di Sassari Ganau (anch’esso indagato) e le scelte che sono state effettuate dai vertici del Partito democratico in “umorali”; la questione morale non è essere così inflessibili su chi è appena sfiorato da un avviso di garanzia. Il problema è piuttosto un altro ed è legato all’occupazione dello Stato, del Palazzo, delle Istituzioni ma non da uomini “indagati”, (sarebbe troppo facile e populistico indicare come cattivi tutti quelli raggiunti da un avviso di garanzia), ma da uomini che si considerano buoni per tutte le stagioni e continuano da anni, da decenni, a sedere negli scranni del potere. Utilizzare il discorso di Enrico Berlinguer come ha fatto Marco Tedde (che, detto per inciso, nutre della mia stima per il mandato come sindaco di Alghero) è come indicare il dito e non raccontare ciò che il segretario dell’allora partito comunista intendeva dire. Lo diceva nel 1981. Poi, mani pulite e il 1994 con la discesa in campo a conquistare tutto “senza fare prigionieri” (Previti docet) hanno distrutto questo paese e la questione morale è stata brillantemente dimenticata e sepolta da tutti. Con buona pace di Berlinguer, delle sue rughe e dei suoi occhi chini. Un visionario ha sempre buone ragioni per dipingere un quadro. Chi osserva distrattamente non riesce sempre ad interpretarlo.
Da piccoli, almeno ai miei tempi, i giochi erano circoscritti e limitati alle poche cose che in quel tempo si possedeva: pallone, palline, tappi di bottiglia, figurine, gessetti, plastilina, corde varie e molta fantasia. Un giorno eravamo pirati ed un altro cow boy o principesse o maghe o sacerdotesse. Si costruivano storie, si disegnavano scenari e trascorrevano le serate in attesa della fantomatica “tivù dei ragazzi” pronta a rimettere tutto in ordine e regalare altri attimi di fantasia. Ecco, ai miei tempi, c’eravamo inventati, per gioco, un mondo parallelo dove non esistevano i cattivi, dove tutti dovevano contribuire al bene comune e dove nessuno poteva litigare. Pena l’esclusione da quel mondo. L’avevamo chiamato il pianeta degli amici della terra perché ritenevamo che il suolo calpestato, gli alberi, i fiumi, le montagne, fossero di nostra proprietà e anche noi, come dicevano i vecchi Apaches, facevamo parte della terra. Figli della terra, quindi figli di Gaia. Avevamo dodici anni e molte lentiggini e brufoli di contorno ai nostri sogni. E avevamo diritto a disegnare quello strano mondo. Leggendo la notizia, davvero singolare, dell’imprenditore a cui hanno sequestrato, a Sassari, l’auto con targa contraffatta, come il tagliando dell’assicurazione e il passaporto, tutti intestati al fantomatico Regno sovrano di Gaia ho pensato, per un attimo, fosse uno dei miei vecchi amici che aveva realizzato il sogno: quello di regalare alla fantasia i colori della realtà. Ho anche pensato ad uno scherzo di buontemponi: la targa era davvero apprezzabile per la sua fattura. Invece, a quanto pare, gli appartenenti al Regno esistono davvero e non sono tenuti a rispettare le leggi dello Stato italiano, in quanto essi sono sovrani di loro stessi. Per sancire questo distacco, a quanto pare, compilano un documento da inviare al Presidente della Repubblica (che non riconoscono). In questo documento ci sono delle dichiarazioni davvero incomprensibili e legate a crediti che ognuno di noi, all’atto della nascita dovrebbe ottenere dallo Stato. Ecco perché, secondo i sudditi di Gaia niente è dovuto allo Stato Italia. Se non è goliardia non è, perlomeno nelle spiegazioni, alta finanza o analisi sociologica. Dunque è una scelta di persone capaci di intendere e di volere che si autoproclamano sudditi di un regno per il quale tutto è bellissimo, tutto è semplice e dove tutto funziona perfettamente. Mi verrebbe da chiedere ai felici appartenenti al regno di Gaia come sono gli ospedali dalle loro parti, come si vota, ci saranno le primarie, oppure tutto è lasciato all’autodeterminazione dei popoli? E la benzina quanto cosa? Pagheranno le accise nel regno di Gaia? E che lingua si parla in questo Regno, apparentemente senza confini? Quale scuola, quale università, quale arte si dipana nel loro mondo? Perché, in fondo, siamo tutti minimalisti e pragmatici. Non grandi portatori di filosofia e neppure profondi conoscitori di economia, politica o fisica e chimica. No, per fare un mondo, per creare l’algoritmo di uno Stato basta un passaporto, una targa e un’assicurazione che non esiste. Come il famoso “non compleanno” di Alice nel paese delle meraviglie. Una visione onirica della vita. E se il nostro suddito di Gaia avesse investito un pedone sulle strisce pedonali come si risolveva la questione? Non avrebbe riconosciuto le strisce italiane? Se non si pagano le tasse nessuno contribuirà ai servizi perché, molto probabilmente, quei servizi sono garantiti da altri: come per esempio il comune di Sassari. Dove il suddito di Gaia manda suo figlio a scuola, ha il medico di fiducia, getta il sacchetto della spazzatura nel cassonetto della sua via, utilizza gli ospedali e gli asili nido, l’asfalto dove la sua auto cammina, le rotonde, i semafori, i musei senza voler contribuire minimamente allo Stato che non riconosce. Il buon suddito di Gaia non è, come sembra, un buontempone, un personaggio in cerca d’autore. E’ una piccola sanguisuga che, anziché rispettare le regole minime della comunità in cui vive, tenta di inventarsi mondi paralleli e virtuali. Una volta, da giovani, giocavamo per ore, fino a stancarci. Ma avevamo capito le regole e il senso del gioco. E che cosa fosse la realtà.
E’ difficile raccontare le tragedie, provare a osservare gli occhi lacerati di chi, in un attimo, ha commesso un omicidio. Con le proprie mani. E’ difficile riuscire a sovrapporre le parole al sangue e allo sgomento di chi ha colpito e poi colpito e poi ha urlato e ha evirato le anime di tre bambine. Con le proprie mani. Mani di una madre. Mani che sino al giorno prima avevano pettinato i capelli e preparato la colazione e lavato i piatti e rimboccato le coperte e avevano accompagnato le proprie figlie a scuola, tenendole per mano. Edlira Dobrushi, la madre di trentasette anni di origine albanese che ai carabinieri di Lecco ha confessato di aver ucciso tre figlie, tre bambine, aveva mani sporche di sangue. Sangue del suo ventre. Sangue di Simona, Casey e della piccola Sindey. E’ difficile mettersi alla finestra di questa immane tragedia, di questo sacrificio assurdo, inconcepibile. Sono i rumori del silenzio che, a volte, non sentiamo. Perché per noi i nostri vicini sono tutti “normali”. A meno che non urlino o litigano o i figli sono maleducati o sono divorziati. Quando le parole non ci sono, quando non sentiamo il rumore, non riusciamo mai a soppesare il peso degli sguardi, non riusciamo a codificare quello che gli occhi raccontano, quale vita sbiadita si nasconde dietro le loro esistenze. Ed è la fragilità, la paura di non farcela, la vergogna, l’essere additati come diversi, che fanno stringere quelle mani sino a farle diventare pugni difficili da sciogliere. E’ la nostra velocità nel continuare, nel non doversi mai fermare e riflettere che ci porta poi a porci le domande e chiederci il perché. E non sapere le risposte. Tutto l’orrore dietro quelle mani che hanno lacerato, inseguito e ucciso. Mani sottili, adatte a raccogliere piccoli oggetti da accarezzare. Mani rapprese e stanche, accovacciate nel ventre malato, mani una volta calde che sapevano accarezzare e circoscrivere le sensazioni. Quelle mani hanno agito, hanno colpito e ucciso e poi si sono guardate. Mani atrofizzate dalla realtà che le ha divorate. Adesso è scaduto il tempo. Mani ferme e nervose che non riescono a spiegare e occhi senza luce e senza orizzonte a stagliare il baratro che si ritrovano davanti. Ho sentito negli anni i racconti di molti uomini che, con le loro mani, avevano ucciso. Per rabbia, per vendetta, per la ricerca di una libertà, per una sciocchezza. Mani sempre lente a stringere altre mani, sempre molto poco disponibili a spiegare. Ho ascoltato. Ho provato a capire i gesti, gli attimi che portano quella mano ad agire, l’impulso razionale che muove quelle dita, quei muscoli. Ma non ci sono riuscito. Perché non sono le mani a dettare i sospiri della vita. Dobbiamo ripartire dalle storie e provare a miscelarle con gli eventi. Quante parole non dette nella vita di Edlira, quante cose che qualcuno adesso racconterà nelle tante “vite in diretta” di questo mondo acquario. Tutti a guardare quelle mani e a piangere per il gesto. Ci sarà il criminologo, lo psicologo, il vicino di casa, l’amica del quartiere. Parole che servono, in fondo, per riempire il vuoto delle nostre coscienze. Edlira, da oggi, sarà sola a contemplare le sue mani e a ripetere per milioni di volte tutti i gesti. E’ difficile raccontare le tragedie soprattutto quando queste superano – e di gran lunga – le trame dei romanzi. Perché anche gli scrittori, come tutti, sono abituati a far muovere i loro personaggi in un mondo semplice, dove tutti parlano e discutono e comprendono. Nei romanzi non ci sono mai spazi vuoti. Chi scrive non se lo può permettere. Eppure, davanti a questa storia che ci centrifuga l’anima, dovremmo lasciare una pagina bianca a rimarcare la sospensione degli attimi. Sono morte tre bambine. Ed è morta anche Edlira, scaraventata in un nuovo inferno dove non riuscirà a rianimare i propri desideri e le paure e il terrore che l’ha accompagnata ad utilizzare quelle mani per stringere una lama. Fredda e terrificante. Quelle mani, nella segretezza degli eventi, hanno colpito tutti, perché nessuno, ormai, riesce più a leggere i silenzi nel pentagramma della vita.
Le parole e i concetti hanno un suono. Raccontano quello che le immagini non riescono a codificare. Eppure, a volte, diventa difficile riuscire a scardinare ciò che le parole hanno costruito. Perché la gente ormai si è appropriata di quel termine, di quel modo di dire e lo fa diventare “luogo comune” e, in alcuni casi, diventa “verità rivelata”. E’ il caso del decreto “svuotacarceri” locuzione di questi giorni che è stata “affibbiata” ad un decreto poco amato da Lega e Cinque stelle e poco sostenuto dagli altri partiti. Intanto, quel decreto, divenuto Legge (Legge n.10 del 2014) non svuota, nella maniera più assoluta, le carceri. Non è un indulto, un’amnistia, un regalo. E’ piuttosto qualcosa che parte da lontano e prova, seppure goffamente, ad “aggiustare” alcuni passaggi legislativi non proprio felici. E’ una legge “aperta” ad una nuova serie di soluzioni e prova a scrollarsi di dosso l’idea che tutto, in questo paese debba necessariamente “carcerizzato”, che tutti i reati devono passare obbligatoriamente per la fermata di un penitenziario. Prova a sveltire l’espulsione dei detenuti stranieri verso i loro paese di origine, prova a concedere, per un tempo di sei anni, una maggiorazione di liberazione anticipata a detenuti meritevoli del beneficio escludendo, tassativamente, detenuti di alta sicurezza, appartenente alla malavita organizzata, stupratori e pedofili. Per quelli non esiste nessuna possibilità di libertà. Quindi, il carcere, per chi ha commesso gravi reati non si svuota. Il decreto Legge 146/2013 prova invece, seppure con una certa timidezza, a dare la parola al detenuto con il diritto di reclamo giursdizionale, amplia la possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale a quattro anni, restituendo nuove opportunità a chi, per esempio, ha già un lavoro oppure è all’interno di un progetto di inclusione sociale. Scommette sull’abbattimento della recidiva. E’ un discorso difficile e contorto. Un percorso complesso molto simile a quello sulla formazione: occorre scommettere sul futuro. Chi non passa per il “penitenziario” ha meno possibilità di rientrare all’interno del circuito delinquenziale. Vi sono studi che lo dimostrano e vi sono paesi, in Europa, che ci scommettono da anni. In Inghilterra, per esempio, la “messa alla prova” è una misura alternativa tra le più usate e apprezzate. Chi commette un reato non grave non entra in carcere ma, con una sorta di patto bilaterale tra Stato e reo, prova a dimostrare che si può scommettere sulla sua voglia di riscatto. In Italia questa proposta di legge giace dall’ultima legislatura nella commissione Giustizia alla Camera e il tragitto culturale, purtroppo, sembra essere piuttosto tortuoso. E’ difficile scommettere sulle persone, ed è difficile farlo con chi ha molte curve nel suo tragitto di vita. Il decreto approvato introduce, inoltre, la possibilità di poter trascorrere presso la propria abitazione la condanna, utilizzando il famoso “braccialetto”, dispositivo per il quale il nostro paese paga un affitto alla telecom da molti anni. Questa espiazione della pena appare in linea con le direttive europee e restituisce dignità a persone che, magari, per la prima volta si trovano a dover affrontare il percorso disagevole del penitenziario. Manca in questo decreto il coraggio vero, innovativo, di provare ad attuare la “riparazione del danno”, la possibilità di mediazione penale, la scommessa di mettersi in gioco e di farlo con un percorso serio, riflessivo, anche con la vittima del reato.
Le carceri, dunque, non si svuotano. Ma vanno osservate con occhiali diversi. Dentro gli istituti penitenziari ci sono persone in grado di voler riscattare la propria vita, in grado di poter riparare ai propri errori, in grado di dimostrarlo. Vi è uno sforzo da parte di tutti per vincere questa scommessa e questo decreto più che “svuotacarcere” può essere appellato come: “piccola opportunità” per i detenuti ma anche per l’intera società.
Sono appena rientrato da Roma. La mia Roma ha sempre diversi sentieri e diverse musiche che le girano intorno: da Piazza Navona a Primavalle, tra via Fani e via Caetani, dalla fermata del 46 barrato e quegli sprazzi di vita tra la Garbatella e i Fori Imperiali. Perché Roma è così: tua. Ma non proprio. E non sempre. E, in questi giorni, è avvolta da una strana bellezza: amante e nemica, solitaria e triste, pronta alle lacrime. Quelle del tassista che non si lamenta più del traffico, ma tra un semaforo e l’altro mi racconta di suo figlio e dell’impossibilità di trovargli un lavoro. Non tanto il posto fisso agognato da quel borghese piccolo piccolo di Alberto Sordi. Ma almeno un attimo di dignità. Quando lo saluto mi ringrazia della chiacchierata e mi dice una cosa apparentemente insignificante: “me auguro che vince ‘a granne bellezza”. Gli chiedo il perché e lui, con un sorriso lento e solitario come questa città, risponde : “armeno se parla de Roma, ormai qua i romani nun ce stanno più”. E, pensando al film di Sorrentino ho deciso di camminare nel silenzio di Via Margutta, ad imprimere i colori e i suoni di quella strada apparentemente fuori dal mondo. Non ci passa più nessuno. Solo qualche piccolo negozio, un bar e un ristorante. Nient’altro. I romani “nun ce stanno più”. A Piazza Vittorio i negozi sono tutti dei cinesi. A Trastevere, nei ristoranti, mi accolgono gli indiani, i rumeni, sorrisi aperti e disponibili. Ma non è Roma. Quella mia Roma, ridondante e forte, un po’ eccessiva e un po’ puttana. Ma vera. Quella Roma papalina, ansimante tra i rumori e i silenzi di una politica avvolta da matasse indescrivibile di parole. Passare a Botteghe Oscure o Piazza del Gesù e non vedere nessuno che si sofferma, nessuno che ricorda, nessuno che comprenda. La Roma dei palazzi. Quella grigia e materialista intrisa nell’incenso e nell’arte. Roma abbandonata e quasi dimenticata. Spolpata degli affetti, amante dimenticata. Ho percorso il Tevere osservando il muoversi dell’acqua. Non riesce ad andare “lento lento”. Ha un altro movimento. Che non mi appartiene. E scompare, tra i ricordi, l’isola Tiberina, il ghetto degli ebrei, i luoghi dolci e sommessi. I miei luoghi. Dove vedevo Ottiero Ottieri, Pasolini, dove sorridevo all’idea del picche nicche di Moravia, a Carlo Verdone, a Montesano, a Mastroianni, a Fellini. A quella strana e immensa bellezza di una città madre e mai matrigna. Alla quale tutto si perdona. Sono passato per via del Corso e ho approfittato per vedere la mostra di Modigliani e i suoi pittori, amici maledetti. I suoi quadri immensi e incommensurabili, quelle donne dal collo lungo e senza occhi. Come Roma. Che osserva e non ti guarda, ti abbraccia e non ti sente, ti ama e non ti ascolta. Una strana e stridente bellezza. La mia Roma. Tra Fontana di Trevi e pineta Sacchetti ad aspettare un autobus che non passa. A guardare gli occhi di questa città e vederci il mare. Questo, tra le calde lacrime perdute, è quello che dolcemente appare. Roma. La grande bellezza.