Ho incontrato l’altra sera un conoscente che mi ha lasciato il suo indirizzo: “Abito in via Alagon”. “Ah, una via nobile, il marchese di Oristano e conte del Goceano”. Mi ha guardato come si osserva un giapponese alla ricerca di un ristorante francese tra le vie del quartiere Marina di Cagliari. Con una certa riluttanza. Non lo conosceva. Come pochi conoscono Ramon Cravellet, Mons. Cappai, Cocco Ortu, Giovanbattista Tuveri. Solo per ricordarne alcuni. Viviamo intorno a nomi che non conosciamo. Oppure sono dei “classici”: da Deledda a Manzoni, a Mazzini a Garibaldi. Vie che esistono praticamente in tutte le città. Lo studio della toponomastica di una città ha qualcosa di molto interessante. Si scoprono stratificazioni antropologiche, sociologiche e politiche. Ci sono città, Bologna, per esempio, che ha un connotato legato alla sinistra “ortodossa” con vie di altri tempi “via Stalingrado”, ci ricorda quel periodo storico ormai appartenente al secolo scorso. Ci sono poi città che utilizzano nomi di fantasia: Via delle nasse, via del Corallo o personaggi che c’entrano molto poco con la nostra storia: Via fondazione Rockfeller è, indubbiamente un ringraziamento ad un ricco signore che potevamo sicuramente evitare. Poi ci sono le vie e le piazze del dolore che delimitano un ricordo e un pezzo di storia: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Via Fani, Via Caetani, Via d’Amelio. Le vie raccontano la storia, le geografia e l’antropologia di un popolo. Ma, molte volte, non raccontano il popolo. Ad Alghero, le vecchie vie ricordavano i mestieri: Carrer de la pretura, Carrer del Buttaiu, a Oristano la conformazione della strada stessa: Via Dritta. Ci sono poi i luoghi con nomi ufficiali e rinominati dagli stessi abitanti: la piazzetta ad Alghero non ha un nome, ma tutti sanno dove si trova, Montecitorio è la piazza centrale di Siligo, dove i vecchi si riuniscono per discutere e che in dialetto è comunemente chiamata “carrela e piatza”, unendo quasi antropologicamente i due concetti vicini ma non uguali: la piazza e la via. Mi sono ricordato di un vecchio episodio di quando, da ragazzino, mi recavo all’ufficio anagrafe per dei documenti. A quei tempi non esisteva l’autocertificazione e anche per dimostrare di essere al mondo era necessario, perché qualche ufficio lo chiedeva, il certificato di “esistenza in vita”. Ad Alghero, presso l’ufficio anagrafe c’era il Signor Sechi. Si facevano delle file immense, dopo aver depositato la propria richiesta in un cestino di vimini che veniva svuotato di tanto in tanto. La gente sbuffava, parlava, rideva e fumava. Perché ai quei tempi nei locali pubblici era consentito fumare (sino al 1975, per la verità). Il signor Sechi, serafico, inflessibile, chiamava la persona depositaria del foglietto, controllava, pigiava dei pulsanti di un’ enorme macchina dove rumoreggiavano delle piccole targhette che prendeva in mano e cominciava a chiedere: Nascita per te? E quello rispondeva affermativamente. Bastava allora solo una targhetta di metallo che si infilava sotto una macchina che pressava il foglio e il certificato era pronto. Bollino e duecento lire. Stato di famiglia? Allora le targhette erano tante quante i componenti della famiglia. Tutti sentivano il rumore delle targhette e il signor Sechi conosceva tutti. Chiedeva del fratello, della sorella, sapeva che qualcuno aveva cambiato domicilio, conosceva chi si era sposato, i figli appena nati. Alghero, per lui era una grande famiglia. E aveva un sorriso docile per tutti. E’ da una vita che non vado in un ufficio anagrafe. Non è più quasi necessario. Non so neppure se ad Alghero quell’ufficio sia ancora in via Marconi e immagino, comunque, che le targhette metalliche non esistano più surclassate da moderni computer. Non ho più visto il signor Sechi. Sicuramente sarà in pensione e si ricorderà di molti algheresi che teneva in mano per “la targhetta”. Ecco, fra tanti anni, dopo la sua morte, sarebbe bello titolare una via di Alghero al signor Sechi: Via Signor sechi, ufficiale anagrafe, piccolo antropologo, profondo conoscitore di molti cittadini algheresi”. Così le città rivivrebbero con chi, davvero le ha calpestate.