Ci sono pallonetti così perfetti che, seppure non riescono a gonfiare la rete avversaria, si fanno applaudire per la grinta, l’impegno, la plasticità del gesto. Mica bisogna sempre segnare e vincere. A volte è necessario sognare e colorare gli attimi. Con un paio di laccetti arcobaleno per esempio. Quelli che Daniele Dessena, calciatore del Cagliari ha indossato durante la partita con l’Inter. Lo ha fatto per sostenere un’iniziativa realizzata da “Paddy Power” e dalle associazioni nazionali Arcigay e Arcilesbica, con la collaborazione della Fondazione dell’indimenticato e indimenticabile “Candido Cannavò”. Ecco, una cosa tutto sommato semplice, un gesto nobile, piccolissimo, di un giovane che prova a osservare il mondo dalla parte della gente. Dove si respira tutto e dove è possibile tutto. Alcuni tifosi della squadra hanno polemizzato sull’adesione del giocatore. Dessena ha però dichiarato che per lui, quel gesto era importante, perché ha potuto dare un contributo ad una causa importante e in cui crede. Mandare in fuorigioco gli omofobi, un gran bel risultato. Non ha segnato Dessena. Ma il suo pallonetto era terribilmente in sintonia con la vita reale. Un tiro verso la libertà. Quella vera, di tutti, senza distinzioni e con i colori degli uomini, delle donne e di una pacata e gioiosa umanità. Per dare un calcio all’omofobia e, per dirla con Lucio Dalla, ai cretini di ogni età.
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Ho scoperto che stasera, in televisione, ci sarà una fiction su Alberto Manzi, il maestro di “non è mai troppo tardi”. Ero piccolo, avevo l’età giusta per ascoltare quello strano maestro, così diverso e così lontano. Mi piaceva come disegnava. La mia maestra, per esempio, faceva solo cerchi storti che una volta chiamava arance o mandarini o lumache o ruote, a seconda della lettera da imparare. Ma erano sempre uguali. Alberto Manzi, invece, scriveva e disegnava con quella calligrafia da “bella copia”. Io restavo ad osservarlo e sorridevo davanti a mio nonno che, invece era interessato solo a Mina o alle gemelle Kessler e per lui “non è mai troppo tardi” non era interessante. Coerentemente analfabeta conosceva tutte le poesie e le battorine in sardo-logudorese a memoria. A mio nonno questo bastava. Quel maestro in bianco e nero rappresentava per me il doposcuola, quello che una volta si chiamava “Cres”, acronimo di qualcosa che non ho mai compreso. Andare al cres significava giocare con la plastilina e stare insieme ai compagni. Era la fine degli anni sessanta. Avevo le figurine Panini in tasca, Alberto Manzi come maestro ideale e le puntate dell’Odissea come capolavoro cinematografico: lo sceneggiato della domenica. Erano anni in cui si poteva stare per strada l’intero pomeriggio per poi rientrare ad ascoltare quella strana trasmissione dove noi, piccoli scolaretti ripetevamo con gioia le lezioni di grammatica rudimentale di Alberto Manzi e guardavamo la sua mano disegnare benissimo piccoli alberi e case e animali. “Non è mai troppo tardi” è l’inno a non arrendersi, a non mollare, a provare e riprovarci. E’ un titolo sublime non tanto per una straordinaria trasmissione, quanto per la trama della vita. Ecco, con questo spirito, stasera, mi affaccerò curioso a guardare attraverso l’angolo della nostalgia questo sceneggiato, meglio, questa fiction su un maestro della parola, su un signore che non ha mai alzato la voce e ha provato, con squisita gentilezza e bellissima lentezza, a suggerire di provare e riprovare. In fondo, nella vita, nelle scelte, nei sogni quotidiani, non è mai troppo tardi. Proviamoci.
Ci sono giorni dispari diceva Eduardo. Poi si sono dilatati, sino a diventare anni, aggiungo. Ecco, questo è lo stato della mia coscienza. Un Parlamento frammentato, rissoso, incarognito sulle prassi, un segretario di partito che incontra un vecchio signore ormai sul viale del tramonto, in attesa dei servizi sociali, un ex Presidente della Regione sarda che, davanti a poche persone, racconta di avere a cuore solo la Sardegna e sa, per certo, di non riuscire a convincere più nessuno. Tutti sul teatro delle opportunità hanno provato a recitare la parte e qualcuno ha anche recitato a soggetto. Tutti hanno atteso l’appaluso finale del pubblico pagante, lo scroscìo dei “mi piace” sulla pagine di facebook che, a pensarla con Eudardo ci sarebbe davvero da ridere, lui che quando al telefono qualcuno si presentò come “la televisione” rispose “gli passo il frigorifero”. Sono giorni, mesi, anni, decenni dispari dunque. Lo sono per scelta e per necessità. Lo sono perché qualcuno non è riuscito a trovare i giorni pari, quelli rotondi, quelli senza angoli. Momento apatico, falsamente frenetico dove ci si rifugia negli affetti, nelle piccole cose. Ho sentito, per caso, ieri sera rientrando a casa, in un negozio del centro di Cagliari, una canzone antica, lontana, figlia dei giorni pari: “il cuore è uno zingaro”: un pezzo del 1971 cantato a Sanremo da una giovanissima Nada e da un famosissimo Nicola Di Bari. A quei tempi si pensava a giocare con un cuore leggero che andava, senza pensieri. In fondo quella canzone rappresentava la fine di innamoramento, il sorridere ad altri, era la metafora della vita del grande Eduardo: “Addà passà ‘a nuttata”. Ma se i giorni dispari diventano anni ‘a nuttata appare interminabile. Di Dachau ricordo il silenzio assoluto. Erano voci sparse e lontane, tracce di vita tra una baracca e l’altra. Dell’acquario dell’esistenza distrutta, macinata, volatilizzata, violentata, mi porto il fragore e lo stupore delle azioni incredibile dell’animale uomo. Della sua assoluta cattiveria, del suo terribile disegno completamente errato. Giravo tra quelle baracche e vedevo occhi riempirsi di lacrime mai interamente versate. Perché non c’era stato neppure il tempo, per alcuni, di comprendere il loro atroce destino. Sono giunto sino ai forni crematoi a osservare i camini silenziosi e sinistri. Era una giornata grigia, ma pulita. Non c’era neppure il vento. Mi son voltato a contare i passi tra le camere a gas e il reticolato che rappresentava l’ipotetica libertà. Tutto era terribilmente fermo. Ho controllato gli umori di tutti quelli che visistavano il campo e tutti si portavano dentro un cuore pesante. Bisogna vederlo un campo di concentramento per poter urlare il proprio disappunto. Bisogna calpestare quell’erba e quella strana polvere. Quel silenzio assordante che è un vuoto terribile, un buco nell’anima. Sono passati quasi dieci anni dalla mia visita a Dachau. Ho capito di aver camminato sull’atrocità di una scelta scellerata, ho respirato l’orrore. Ho compreso, infine, il peso della dignità. Chi afferma che tutto questo non sia accaduto non si deve vergognare. Sarebbe troppo semplice. Vada a Dachau o in qualsiasi altro campo di concentramento nazista e respiri quel maledetto silenzio. Ascolti il rumore della terra e abbassando gli occhi, si vergogni.
Quando si muore, si muore soli. Lo diceva De André e sono essenzialmente d’accordo. L’attimo in cui finiamo di fotografare con gli occhi gli aspetti terreni, sono nostri e di nessun altro. Anche perché è davvero difficile immaginare il “dopo”. Mi interessa però comprendere il “prima”, l’attimo in cui la vita sfugge, corre, si incunea nelle ultime strade della vita, negli incroci delle probabilità. Noi, in quel momento, siamo soli. E dovremmo affrontare quell’attimo senza i respiri di nessun altro. Senza nessun ausilio. Ecco. E’ questo il punto. Non sopporto gli accompagnamenti da nessuna parte. Uno, la morte, se la deve guadagnare. Un po’ come la vita. Zappare da solo. Non amo gli assassini, non sopporto le guerre, gli errori, il fuoco amico. Non si muore per sbaglio. Meglio, non si dovrebbe morire se non perché è giunto il proprio momento. Nessuno – e il “nessuno” diventa universale – deve decidere della vita degli altri e, quasi ad essere blasfemo, può, al massimo decidere della sua. Si. Il suicidio, per quanto doloroso, per quanto argomento difficile e intrattabile è, comunque, davanti a qualsiasi omicidio, giustificabile. Un gioco con se stessi.
Dennis Mc Guire è rimasto in agonia per tredici, interminabili minuti. E’ accaduto negli Stati Uniti d’America, nell’Ohio. Condannato alla pena di morte per aver sodomizzato e ucciso Joy Stewart, una ragazza di 22 anni incinta di sette mesi e, per di più, Mc Guire aveva abbandonato il cadavere ai bordi di una strada. Per molti, dunque, Mc Guire meritava la pena di morte. Siamo sempre così sicuri delle nostre scelte e delle nostre decisioni e poi, quando le prendiamo, non sappiamo più difenderle. Mc Guire è stato torturato nella stessa misura in cui egli ha barbaramente agito nei confronti di Joy. E’ giusto’ E’ sbagliato? Terribile domanda. Io, personalmente non ho una risposta. Riesco solo a rimanere senza parole davanti a questi scenari. «I am sorry», mi dispiace, ha detto Mc Gure prima che gli venisse iniettato il cocktail terribile, quello che l’avrebbe tenuto in agonia, perché non gli ha procurato la morte immediata. Capisco, davvero, di essere dalla parte sbagliata. Perché tutti siamo portati ad osservare la realtà con gli occhi dell’emozione. Ma io, davvero, non sono in grado di uccidere un’altra persona. Anche la peggiore persona. Perché quando si muore, si muore soli e nessuno ci dovrebbe aiutare a compiere quello strano salto. la mia grande ora di libertà - dedicato a Fabrizio De André, a quindici anni dalla sua morte.10/1/2014 .La vita, poi, gira come una canzone e ti trasporta nelle arterie dei ricordi, dove il sangue circola e ritorna. Perché le canzoni ricompaiono per saltellarti dentro e ti accompagnano negli scenari della tua esistenza ormai dimenticati. Ci sono musiche e suoni indelebili e ci sono movimenti intorno a quei suoni e a quelle parole che riescono a dipingere di verde anche il deserto più triste. Una canzone, su tutte, la trasporto da anni nella mia particolare saccoccia della memoria. Domani ricorre l’anniversario della morte di Fabrizio De Andrè. (sono, ormai, quindici lunghissimi anni). Le canzoni però girano sempre e restano, come i libri, le fotografie, i sospiri e gli amori. Quelli veri. Quelli che disegnano ferite e le rimarginano con le lacrime dell’affronto. Io amo, terribilmente, Nella mia ora di libertà, la canzone che chiude l’album più bello (a mio parere, certo) di Faber: “Storia di un impiegato”. Mi piace perché è la sceneggiatura di un film. Di un film che io, paradossalmente, ho visto e rivisto nei miei trentuno anni di “galera”. Quella canzone cammina all’interno di ogni carcere da me visitato per lavoro (e ne ho, davvero visitati tanti e non solo in Italia) quella canzone è la colonna sonora all’interno dei passeggi dove vedo spesso detenuti intenti a parlare fitto e camminare velocemente, nella loro ora di libertà. E mi piace l’idea, assurda, fuori misura e dunque bellissima, di uno sciopero da parte dei detenuti, di voler rinchiudere gli agenti nell’ora di libertà. Quella canzone è una sconfitta atroce. Lo so. E’ l’inno di un perdente, ma di un perdente che ha compreso fino in fondo la sua sconfitta: dal suo sogno politico al suo sogno d’amore, in anticipo su ogni stupore. Dentro questa canzone io ci vedo tutto il De Andrè del mondo. Tutto. La sua analisi lucida sui fatti, il suo mescolare politica e poesia, e se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone ecco, spartiamoci la prigione: il non luogo, il non rumore. La non vita. Perché di questo si tratta: saper spartire, saper dividere, saper chiedere una polemica di dignità. Ma c’è, davvero, tutto l’amore del mondo condensato in poche frasi, c’è tutto l’amore del mondo tra un uomo e la sua compagna: “da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio”. C’è tutta la bellezza del mondo, l’accettazione, il rispetto, l’abbraccio di due persone in queste poche e struggenti parole. E quella frase dura, durissima, a disegnare le verità che oggi tutti vediamo, ma dovevamo scriverle nel 1972 per essere oggi credibili. E lo facevano, tra i pochi, De Andrè e Pasolini. Per dire. Quella frase a rappresentare tutta la verità del mondo: non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni. Quella frase finale a rappresentare tutte le frasi del mondo, tutte le vite del mondo, le passioni, gli impegni, le urla del mondo: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.
Ecco. La mia canzone. La ferita che ritorna a ricordare le vecchie cose: le bandiere, le lotte, i sogni, gli scazzi, la voglia di, la voglia per, quel “pagherete caro, pagherete tutto” e tra tutte le grinte, le ghigne e i musi, poche le facce e tra loro lei. Ecco. La mia canzone. Partita dall’adolescenza mi ha accompagnato anche tra le sezioni fredde e buie di un carcere a provare a regalare a qualcuno almeno un’ora di libertà. E di dignità. Ciao Fabrizio. Mi manchi. Maledizione. Però ci sei. Con tutto l’amore che hai potuto, fatto di rabbia e di forza a camminare sempre con destinazione ostinata e contraria. Ho provato a fare questo mestiere anche per colpa di questa canzone. Sono profondamente convinto (ancora, dopo 31 anni) che non possiamo togliere la primavera a chi in galera ci passa giorni duri e solitari. Dovremmo, invece, provare a fargli respirare quell’area leggera, di libertà e di coraggio. Ciao Fabrizio. E grazie. Per la tua grande ora di libertà. Che da tempo è anche mia. Io sono di sinistra – e lo sono sempre stato – perché mi piacciono le curve e perché amo le cose difficili e complicate. Io sono di sinistra perché da piccolo, quando i miei amici si azzuffavano, preferivo le parole e tentavo in tutti i modi di spiegare che era sbagliato litigare. Ma lo facevo anche perché avevo paura di rompermi gli occhiali. Io sono di sinistra perché delle canzoni ho sempre amato le parole, anche perché ero e sono davvero negato a suonare la chitarra. Io sono di sinistra perché il primo racconto che ho è letto è “dagli Appennini alle ande” tralasciando tutte le altre pagine del libro cuore. In quel racconto ho capito quanto nessun viaggio fosse definitivo. Io sono di sinistra perché il mio primo libro è stato “le avventure di Tom Sawer” e leggendolo ho capito quanto fosse importante crescere, fin da bambini. Io sono di sinistra perché ho sempre pensato a Lucio Battisti come un grande cantante, un buon dispensatore di emozioni e “il mio canto libero” è la canzone della mia prima dichiarazione d’amore ad una ragazza. Io sono di sinistra perché a quella ragazza, dopo la famosa dichiarazione (vuoi mettermi con me?) non riuscivo a dire altro. Io sono di sinistra perché da piccolo avevo le lentiggini e pensavo fosse segno di grande intelligenza (poi mi sono sparite e ho furbescamente glissato sulle lentiggini e sul loro significato) Io sono di sinistra e mi piace ascoltare Claudio Baglioni, le Orme, la Pfm, Laura Pausini, i Rem, i Credence, oltre ai classici di “sinistra” troppo facili da amare. Io sono di sinistra e so abbracciare, sorridere, scherzare. Io sono di sinistra e mi piace bere il Ferrari millesimato, l’armagnac e il Brunello di Montalcino e, a dire il vero non ho mai amato l’Albana e il bracchetto. Io sono di sinistra e mi piace Giorgio Albertazzi, Alberto Sordi e Dustin Hoffman, non solo Nanni Moretti. Io sono di sinistra e leggo Amado, Baricco, Sepulveda, ma amo Fallaci e Stephen King. Io sono di sinistra ma sono stato molto male quando Bersani ha dovuto abbandonare il campo, quando è arrivato Letta, quando mi hanno fregato due euro alle primarie, quando hanno smesso di pensare al paese reale e hanno cominciato a parlare di “sistema paese” Io sono di sinistra perché preferisco il “noi” e non mi piace chi utilizza il “loro” per giustificarsi, per dare le colpe, per dire “anche loro lo fanno”. Io sono di sinistra e ho vissuto male la battaglia finale di Francesca Barracciu, le zuffe tra presunti compagni (e dire che Soru ha anche gli occhiali) le lotte intestine, i capibastone, il linguaggio mafioso, il non voler capire che fuori esiste un altro mondo e non è quello bello e impossibile di una sinistra perdente. Io sono di sinistra perché i soldi pubblici sono di tutti e il privato non è politico. Quando la Barracciu capirà questo sarò davvero contento e la smetta con il mantra di essere stata silurata “in quanto donna” perché non è vero. Io sono di sinistra perché il rispetto, la dignità, la passione, gli ideali, le visioni non hanno sesso e non ci sono quote da dividere equamente tra uomini e donne, alti e magri, corti e lunghi, brutti e belli, con o senza occhiali. Essere di sinistra significa aver compreso che queste sono divisioni settarie e controproducenti per la costruzione di un progetto. Io sono di sinistra perché ho compreso di non essere dalla parte giusta, ma di essere da una parte, di non essere dalla parte migliore, ma di avere un progetto diverso dalla destra, di non essere il depositario della cultura, ma di avere qualcosa diametralmente opposto da raccontare rispetto a quelli di destra, di non avere la soluzione ma diverse soluzioni e queste cose ed altre ancora vorrei raccontare. Io sono di sinistra – e lo rimarrò per sempre – perché sono innamorato del mio mare, della mia terra, degli occhi di chi lavora, degli occhi di chi non lavora, degli occhi degli ultimi e dei penultimi, degli occhi di chi sorride e di chi non ha più la forza, delle canzoni e delle parole, delle musiche e dei silenzi, dei sorrisi e degli abbracci, delle cose serie e delle cazzate. Tutte cose che, sicuramente, amano anche a destra. Con una differenza: la prospettiva. Ecco, io sono di sinistra perché la mia prospettiva davanti ad uno scoglio è sentire il mare, il rumore sordo della vita forte che abbraccia la battigia e non immaginare di costruirci una villa per racchiudere quel mare e farlo esclusivamente mio. Io sono di sinistra e auguro a tutti un buon 2014. Un anno non facile, al di la delle amene formalità. Vi auguro però di viverlo intensamente senza nascondere le vostre emozioni e condividerle con gli altri. Provate ad essere “noi” piuttosto che “io” rimanendo con le vostre convinzioni. Io rimarrò sempre di sinistra con la consapevolezza di poter guardare avanti o di fianco e capire di non essere solo ma di essere diverso da chi cammina alla mia destra. In ogni caso è bello pensare che dove finiscono le nostre diversità possa iniziare un confronto, serio , leale, aspro, di passione per le cose e per gli uomini. Buon 2014. Buon tutto a tutt Ho sempre mantenuto l’amore per le agende. Le ho trovate pratiche, belle, in grado di avvolgere gli appunti dell’anno e in grado di costituire il piccolo cassetto dei ricordi. Molte le ho conservate. Ne ho del 1978, del 1980, anni novanta e qualcuna del 2000. Man mano che il tempo scorre tra le vene della mia esistenza, l’agenda ha subito modifiche quasi impercettibili ma figlie della stratificazione dell’età. Quella del 1978 (rosso porpora) era legata alle mie vecchie trasmissioni radio (quando mi chiamavo Gikappa…. Dio…. Ne è passato del tempo) alla mia puntigliosa ossessione di appuntare tutto, anche la scaletta delle canzoni e quelle canzoni ancora oggi fanno parte del mio i-pod. Appuntamenti di cui non ricordo come fossero andati, altri invece hanno modificato le pieghe di quell’anno e degli anni successivi. C’è il ricordo del funerale di Berlinguer e la vittoria dei mondiali di Spagna (abbiamo vinto… anche se Cabrini ha sbagliato un calcio di rigore… ma è una bella leva calcistica….) ci sono appunti più frivoli (pagare assicurazione, dentista ore 18) e ci sono frasi, piccole, oggi si direbbero dei post, scritti solo per me. Questo mi ha fatto sorridere. Quel voler comunque provare a mettere parole - pensierini direbbe la mia maestra – e provare a dare un senso alle cose. Così, come rito annuale, anche oggi ho deposto l’agenda del 2013 e accarezzato quella del 2014. Quella nuova ha la fodera rossa. Ho già appuntato il mio nome, la targa dell’auto, il codice fiscale, i numeri del cellulare (in quelle vecchie bastava solo il numero “fisso” che oggi non ho più) ho messo l’indirizzo e-mail e qualche password da ricordare (solo le iniziali, giusto per regalare strada ai possibili detrattori). Oggi, in questo paese tutti hanno un’agenda, oppure a nessuno piace farsi dettare l’agenda da altri. E’ un modo di dire. Non credo abbiano davvero cose piccole da scrivere in quell’agenda. O cose belle e futili. Per quello rimando alla vostra agenda. Non copiate l’agenda a nessuno e non scrivete mai frasi di altri. Vi accompagnerà per tutto l’anno e si logorerà con il tempo e con voi. E’ un pezzo di vita. La vostra agenda: piccola vena di emozioni capace di scorrere. Giorno per giorno, crogiuolo di parole della nostra forte esistenza.
Noi sapevamo.
Cose vorticose che girano sopra l’orizzonte della sopportazione. Rumori duri, notizie senza colore. Lo sapevamo dei cinesi fantasmi, che non muoiono quasi mai e quel “quasi” ci ha trasportato alla ricerca di soluzioni che non esistono. Lo sapevamo degli uomini moderni, stolti e insopportabili, pronti solo a cementificare tutto, anche la loro vita. Non sapevamo, però che quegli uomini vestivano abiti gessati ed erano considerati i più eleganti tra i governatori. Non lo sapevamo e non capisco cosa ci abbiamo guadagnato a scoprirlo, di quanto siamo cresciuti dietro questa stupida notizia. Lo sapevamo che il PD è in agonia, la Baracciu con un rotolo di pizzini per giustificare le spese in nome del partito e sapevamo che c’erano dei soldi per giustificare queste spese. Ma non eravamo d’accordo. Lo avevamo detto e scritto e avevamo votato. Ma nelle vorticose cose che girano sui tavoli della politica tutto questo è sparito. Noi lo sapevamo di avere una classe politica analfabeta giuridicamente o, meglio, furbescamente dedicata all’errore, nella speranza che nessuno se ne accorgesse. Lo sapevamo dell’incostituzionalità di alcune leggi, meglio di molte leggi degli ultimi vent’anni. Ma abbiamo aspettato, abbiamo dovuto aspettare che fosse un giudice a ribadire un concetto semplice e basilare: la democrazia non si conquista senza il consenso e quel premio di maggioranza e quegli eletti senza nome erano l’esatto contrario della democrazia. Noi, tutto questo lo sapevamo. E sapevamo che il problema delle carceri non è il sovraffollamento ma l’incoscienza delle leggi che hanno stravolto il sistema penale e la politica penitenziaria, noi sapevamo tutto questo e lo abbiamo scritto, decantato, gridato quasi. Ma non è bastato. Questo è quello che ci resta. Cocci di incoscienza. Nonostante tutto, continuiamo ad esserci, in questo blog, nei giornali, nei giochi virtuali, nelle parole tra gli amici. Noi, ci siamo. E vogliamo esserci. E voi? Bisognerebbe chiedersi se i morti hanno pesi specifici diversi e, soprattutto, se le lacrime hanno raccordi fluviali sconosciuti. I nostri morti, quelli dell’ultima alluvione per intenderci, ce li portiamo dentro le nostre vite e ancora oggi continuiamo a camminare con la zavorra dei ricordi. Perché è giusto, perché è lecito, perché è accaduto davanti ai nostri occhi. Perché molti di noi avevano parenti, amici, conoscenti. Facevano parte, quei morti, del recinto del nostro ovile, dell’ombelico della nostra terra. Noi, per questo motivo, li abbiamo sentiti nostri e lo sentiremo per sempre. Bisognerebbe però ripensare alle cose e provare a cercare negli occhi degli altri il dolore che ci portiamo dentro le nostre tasche. Perché anche sette morti sono un terribile peso specifico. Quattordici occhi che non osservano più questo mondo, non si nutrono più di ossigeno, non sorridono, non abbracciano, non piangono. Poi, però, lentamente, quei morti, quei sette morti, camminano velocemente dalle voci principali delle news, cominciano a restringersi dentro i tagli bassi dei quotidiani e, tra qualche giorno, saranno solo un flebile ricordo. Anche per noi che conosciamo la pesantezza dei nostri morti. Il problema è legato essenzialmente alla conoscenza. Il “lontano” non ci riguarda, l’altrove è terra sconosciuta e se nelle Filippine ci sono duemila morti noi non riusciamo a soppesare quello strano peso specifico di quattromila occhi. Perché sono lontani e perché non hanno mai osservato la nostra terra. Ecco, quei sette morti bruciati, martoriati, consumati nella maniera più atroce e terribile sono cinesi. Quelli di Prato. Quasi invisibili, come sanno essere invisibili i cinesi. Con le loro stoffe, le tazze, quelle che noi chiamiamo ironicamente “cineserie”. E sappiamo che non è così. Però, quella acidità della sopravvivenza che a volte ci contraddistingue, quel cinismo stupido, quello scrollarci di spalle ci porta a dire: “Ecco, erano morti annunciate. Lavorano quindici ore al giorno, sono sfruttati, hanno rubato il lavoro ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figli. Se la sono cercata. Non conoscono le basi elementari sulla sicurezza Ognuno pianga i propri morti”. E, mentre lo diciamo, controlliamo un messaggio da un iphone, leggiamo dall’ipad, compriamo un giocattolo da Chicco e vestiamo il nostro bambino da Premaman. Tutti prodotti “made in China”. I morti, probabilmente hanno un peso specifico diverso e nella bilancia delle lacrime conta sicuramente la vicinanza alle persone. Vero. Però quei sette morti, quei cinesi, ci sono davanti per dirci che anche loro hanno diritto ad una dignità, ad un “onore delle armi” che noi, non riusciamo a dare perché preferiamo girarci dall’altra parte. E ci dovremmo semplicemente vergognare.
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