Di Dachau ricordo il silenzio assoluto. Erano voci sparse e lontane, tracce di vita tra una baracca e l’altra. Dell’acquario dell’esistenza distrutta, macinata, volatilizzata, violentata, mi porto il fragore e lo stupore delle azioni incredibile dell’animale uomo. Della sua assoluta cattiveria, del suo terribile disegno completamente errato. Giravo tra quelle baracche e vedevo occhi riempirsi di lacrime mai interamente versate. Perché non c’era stato neppure il tempo, per alcuni, di comprendere il loro atroce destino. Sono giunto sino ai forni crematoi a osservare i camini silenziosi e sinistri. Era una giornata grigia, ma pulita. Non c’era neppure il vento. Mi son voltato a contare i passi tra le camere a gas e il reticolato che rappresentava l’ipotetica libertà. Tutto era terribilmente fermo. Ho controllato gli umori di tutti quelli che visistavano il campo e tutti si portavano dentro un cuore pesante. Bisogna vederlo un campo di concentramento per poter urlare il proprio disappunto. Bisogna calpestare quell’erba e quella strana polvere. Quel silenzio assordante che è un vuoto terribile, un buco nell’anima. Sono passati quasi dieci anni dalla mia visita a Dachau. Ho capito di aver camminato sull’atrocità di una scelta scellerata, ho respirato l’orrore. Ho compreso, infine, il peso della dignità. Chi afferma che tutto questo non sia accaduto non si deve vergognare. Sarebbe troppo semplice. Vada a Dachau o in qualsiasi altro campo di concentramento nazista e respiri quel maledetto silenzio. Ascolti il rumore della terra e abbassando gli occhi, si vergogni.