(articolo apparso sulla Nuova Sardegna del 13 maggio 2014 © giampaolo cassitta
il mio giorno di Moro (a 36 anni dalla vicenda).
Il 9 maggio era una giornata apparentemente uguale a tutte le altre. Apparentemente. Come ogni giorno, la mattina studiavo per l’Università e il pomeriggio mi recavo in radio. Alghero aveva sguardi sterili e la stagione turistica non era ancora cominciata. Quel giorno, di primo mattino, decisi per una passeggiata. Non c’era vento e, passando davanti al mare, non contai neppure un’onda. Il 9 maggio era una giornata piatta come acqua che non sospira, come parole naufragate nella memoria. Il 9 maggio 1978 lavoravo - senza stipendio - in radio. Una radio libera: Teleradio Alghero 101. Curavo il radiogiornale. Era un anno cominciato quasi in sordina, rispetto a quello precedente. Sino al 16 marzo 1978. Quando il rumore delle armi sovrastò tutto il paese. Il giorno del sequestro dell’Onorevole Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta. Cominciai a leggere furiosamente tutto. Volevo capire, volevo analizzare, avevo intuito che quell’ attualità un giorno sarebbe divenuta storia e noi la stavamo cavalcando quasi senza rendercene conto. C’era stato un grande dibattito in quei giorni. Ma c’era stata anche molta paura. Che tutto non reggesse: il Governo di unità nazionale appoggiato, per la prima volta, dal Partito Comunista Italiano, i servizi segreti, i depistaggi, la chiesa che con Paolo VI tentava una mediazione. La segreta speranza di poter imbastire una trattativa con gli uomini delle brigate rosse. In radio si ascoltavano, soprattutto, le canzoni di Antonello Venditti e del suo album “sotto il segno dei pesci” uscito l’8 marzo 1978. Sotto il segno delle donne.
Il 9 maggio 1978 nessuno attendeva risposte. La vita era come sospesa. Da qualche giorno. Venerdi 5 maggio le brigate rosse avevano diffuso il comunicato numero 9, quello in cui annunciavano che stavano “eseguendo la sentenza” e il tempo era scaduto. Quel pomeriggio mi sarei dovuto occupare della lettura dei quotidiani. Avevo scritto qualcosa sull’ultimatum. Ero per la trattativa e non comprendevo la chiusura totale della Democrazia Cristiana e del Partito comunista. Nei miei diciannove anni non c’erano finestre così chiare e nitide. Qualcuno telefonò. “Hanno ucciso Moro” dissero, “c’è Paolo Frajese in diretta, su Rai Uno.” Non avevamo la televisione in radio. Telefonai, a mia volta ad un amico e cominciai con la diretta radiofonica. Praticamente lui raccontava della telefonata al Dr. Niccolai da parte delle brigate rosse e dell’ambasciata alla famiglia. Adempivano alle ultime volontà del presidente comunicando il luogo dove era stato rilasciato il corpo. In via Caetani. Cominciò così, in quel pomeriggio del 9 maggio 1978, la più lunga diretta della nostra radio. Il telefono non smetteva di squillare. La gente voleva intervenire, voleva sottolineare la drammaticità dell’evento. In radio io ed Enzo, con Martino alla regia. Ad ascoltare quel pezzo d’Italia che ci passava accanto. Il 9 maggio 1978 divenne per quelli della nostra generazione il giorno della memoria, un po’ come per i ragazzi di oggi l’undici settembre del 2001. Ancora oggi quando parlo di quel giorno, del “giorno di Moro” con persone della mia età tutte, nitidamente, ricordano dov’erano e cosa stavano facendo. Quel giorno. Tra la storia e l’orrore. A contare gli attimi e a soppesarli. A ricercare abbracci e non trovare nessun perché, nessun nesso collegabile alla realtà. Quell’omicidio costruito in nome di un popolo che non rappresentavano. Lo fecero perché Moro rappresentava un simbolo. Volevano colpire il cuore dello Stato. Uccisero uomini e ferirono il solco delle nostre vite. Per sempre. Oggi, dopo trentasei anni, dopo l’orrore e la sedimentazione di tutto quel male, possiamo affermare di essere sopravvissuti alla follia, di esserci aggrappati alla storia e di aver rimesso nelle nostre antiche tasche i sacchetti di parole. Che servono a comprendere anche quel maledetto giorno: il 9 maggio 1978. Il giorno di Moro.
il mio giorno di Moro (a 36 anni dalla vicenda).
Il 9 maggio era una giornata apparentemente uguale a tutte le altre. Apparentemente. Come ogni giorno, la mattina studiavo per l’Università e il pomeriggio mi recavo in radio. Alghero aveva sguardi sterili e la stagione turistica non era ancora cominciata. Quel giorno, di primo mattino, decisi per una passeggiata. Non c’era vento e, passando davanti al mare, non contai neppure un’onda. Il 9 maggio era una giornata piatta come acqua che non sospira, come parole naufragate nella memoria. Il 9 maggio 1978 lavoravo - senza stipendio - in radio. Una radio libera: Teleradio Alghero 101. Curavo il radiogiornale. Era un anno cominciato quasi in sordina, rispetto a quello precedente. Sino al 16 marzo 1978. Quando il rumore delle armi sovrastò tutto il paese. Il giorno del sequestro dell’Onorevole Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta. Cominciai a leggere furiosamente tutto. Volevo capire, volevo analizzare, avevo intuito che quell’ attualità un giorno sarebbe divenuta storia e noi la stavamo cavalcando quasi senza rendercene conto. C’era stato un grande dibattito in quei giorni. Ma c’era stata anche molta paura. Che tutto non reggesse: il Governo di unità nazionale appoggiato, per la prima volta, dal Partito Comunista Italiano, i servizi segreti, i depistaggi, la chiesa che con Paolo VI tentava una mediazione. La segreta speranza di poter imbastire una trattativa con gli uomini delle brigate rosse. In radio si ascoltavano, soprattutto, le canzoni di Antonello Venditti e del suo album “sotto il segno dei pesci” uscito l’8 marzo 1978. Sotto il segno delle donne.
Il 9 maggio 1978 nessuno attendeva risposte. La vita era come sospesa. Da qualche giorno. Venerdi 5 maggio le brigate rosse avevano diffuso il comunicato numero 9, quello in cui annunciavano che stavano “eseguendo la sentenza” e il tempo era scaduto. Quel pomeriggio mi sarei dovuto occupare della lettura dei quotidiani. Avevo scritto qualcosa sull’ultimatum. Ero per la trattativa e non comprendevo la chiusura totale della Democrazia Cristiana e del Partito comunista. Nei miei diciannove anni non c’erano finestre così chiare e nitide. Qualcuno telefonò. “Hanno ucciso Moro” dissero, “c’è Paolo Frajese in diretta, su Rai Uno.” Non avevamo la televisione in radio. Telefonai, a mia volta ad un amico e cominciai con la diretta radiofonica. Praticamente lui raccontava della telefonata al Dr. Niccolai da parte delle brigate rosse e dell’ambasciata alla famiglia. Adempivano alle ultime volontà del presidente comunicando il luogo dove era stato rilasciato il corpo. In via Caetani. Cominciò così, in quel pomeriggio del 9 maggio 1978, la più lunga diretta della nostra radio. Il telefono non smetteva di squillare. La gente voleva intervenire, voleva sottolineare la drammaticità dell’evento. In radio io ed Enzo, con Martino alla regia. Ad ascoltare quel pezzo d’Italia che ci passava accanto. Il 9 maggio 1978 divenne per quelli della nostra generazione il giorno della memoria, un po’ come per i ragazzi di oggi l’undici settembre del 2001. Ancora oggi quando parlo di quel giorno, del “giorno di Moro” con persone della mia età tutte, nitidamente, ricordano dov’erano e cosa stavano facendo. Quel giorno. Tra la storia e l’orrore. A contare gli attimi e a soppesarli. A ricercare abbracci e non trovare nessun perché, nessun nesso collegabile alla realtà. Quell’omicidio costruito in nome di un popolo che non rappresentavano. Lo fecero perché Moro rappresentava un simbolo. Volevano colpire il cuore dello Stato. Uccisero uomini e ferirono il solco delle nostre vite. Per sempre. Oggi, dopo trentasei anni, dopo l’orrore e la sedimentazione di tutto quel male, possiamo affermare di essere sopravvissuti alla follia, di esserci aggrappati alla storia e di aver rimesso nelle nostre antiche tasche i sacchetti di parole. Che servono a comprendere anche quel maledetto giorno: il 9 maggio 1978. Il giorno di Moro.