La mia prima cavalcata sarda risale al 1970. Avevo undici anni e in tasca le figurine del Cagliari di Giggi Riva. i miei occhi erano gonfi di mare e orizzonti dipinti con lo scenario di Capo Caccia che, da Alghero, la mia città, riusciva a disegnare la profondità di un azzurro intenso. Andare a Sassari, con la cinquecento di mamma, era per me un “viaggio” verso un luogo quasi sconosciuto. Mia nonna mi aveva spiegato che quella era una festa importante, quasi come S. Efisio a Cagliari o il redentore a Nuoro. Ma diversa. Io, non avevo compreso la differenza anche perché le altre feste non le avevo mai viste. Troppo lontane dal mio mare. Mia madre parcheggiò vicino a Santa Maria in Betlem. Cominciammo a camminare fino a giungere ad una piazza invasa dai pullman e da qualche bancarella. Il torrone, i palloncini, le automobili di plastica colorate, quelle scala 1:25, le mie preferite. Arrivammo fino a piazza d’Italia, il ventre gioioso di una città in festa e quel giorno mi resi conto che c’erano colori diversi dal mio mare. Erano palloni rossi e gialli, fucili di plastica, bamboline, torrone con mandorle enormi, sorrisi e musica. Canti sardi, giri di fisarmoniche, volteggi di chitarre, canti in re, magliette bianche con contorni rossoblù nelle maniche e laccetto intrecciato, in attesa di poter applicare lo scudetto di campioni d’Italia. Per me, per i miei undici anni, Piazza d’Italia rappresentava l’incontro delle moltitudini e dei colori. Raggiungemmo via Roma dove ci mettemmo dietro le transenne ad aspettare la cavalcata. Mi attendevo cavalli e uomini con fucili e stelle mirabolanti che inseguivano gli indiani, così come leggevo nei miei fumetti di un Tex Willer ed invece, anziché la cavalleria, comparvero, come d’incanto, uomini e donne con costumi apparentemente tutti uguali, che sfilavano sotto un sole dolce e adatto a colorare l’anima. Cominciai a leggere i cartelli dei paesi, alcuni per me completamente sconosciuti. Passò Torralba, Florinas, Usini, Siligo, Bessude, passarono uomini in bianco e nero e donne con molti colori, Ittiri con i ricami e il tintinnio degli orecchini, il gioco del ballo a cercare il cerchio e poi le canne unite vicino alla bocca che producevano un rumore simile alle cornamuse per natale. Il rosso e il verde, il panno lucido e il grigio e il blu e le rose ricamate, il celeste e il giallo. Quella via che si riempiva e pareva un campo di fiori di primavera. Poi arrivarono i cavalli e i cavalieri ed erano diversi da Tex Willer, più veri e più colorati. Compresi, in quel momento, che la Sardegna aveva mille colori e mille modi di intrecciarli. Quella mia prima cavalcata fu la scoperta del cuore pulsante di un’isola per me quasi segreta. Ci sono ritornato negli anni, ad annusare i colori e provare a raggomitolare i ricordi. Perché la cavalcata sarda va osservata con gli occhi dei bambini. Provateci, almeno per un attimo, ad attardarvi tra le bancarelle, a cercare quelle caramelle enormi e dolcissime, a provare a ritrovare un vecchio modellino di una 131 mirafiori e cercate quel 45 giri dello scudetto in Sardegna. Provate a socchiudere le palpebre quando passano i primi gruppi e osservate quelle gonne nere e plissettate, onde di un mare dipinto nel gran cuore della Sardegna. Osservatela con le mani in tasca e la freschezza nel cuore. Sono i colori a mischiarsi con il pulsare profondo di una piccola storia antica. Da vivere con la leggerezza dell’infanzia.