Articolo apparso sulla prima pagina della Nuova Sardegna del 19 maggio 2014. (riproduzione riservata) Giampaolo Cassitta
Che colore ha l’orrore? Quell’anfratto scavato nella periferia del mondo, quel cunicolo viscido e silenzioso che ci trasporta nei primitivi gesti tutti legati all’istinto bestiale, alla furia incontrollabile di cose che con la razionalità non si spiegano. Quei colori cupi, densi, quegli occhi sbarrati, quelle parole che non fuoriescono e rimangono incollate tra il silenzio e la paura. Dovremmo chiedercelo che colore ha questo orrore quotidiano che ci assale e ci costringe a girare il volto da un’altra parte perché, tanto, non ci riguarda, perché, tanto, non ci ha colpito, perché, tanto, è solo un film. Così coloriamo le cose che ci girano intorno e le chiamiamo notizie e non riescono mai i diventare storie con volti veri di uomini, con tracce di vita e di sofferenza. I morti per incidenti stradali sono attualità, come quelli che muoiono divorati dal tumore. E sono “attualità” anche quei corpi inermi divorati da un mare considerato amico e fratello, quei corpi di uomini in fuga verso un altro futuro che non raggiungeranno mai. Noi ascoltiamo, proviamo a classificare nella nostra mente quella notizia e dentro i cassetti della memoria diventerà “altra”. Troppo lontana per ricordarla. Come gli omicidi che si compiono ormai quotidianamente e con accurata distrazione vengono raccontati. Uomini che massacrano le loro donne giustificandosi vergognosamente di averlo fatto per amore. Uomini che massacrano altri uomini per denaro, per paura, perché fanno parte di un’organizzazione criminale e non sanno soppesare i cuori di nessuno. Poi, dentro queste notizie divenute quasi “normali”, registrate come un orrore quasi sopportabile, si registrano nuove piccole scosse che smuovono le coscienze e la crosta quasi indurita dei nostri sensi: un ragazzo massacra i nonni e la zia. Un ragazzo, uno della porta accanto, uno sportivo, un figlio normale. Questo ragazzo si dipinge la strada di sangue e di orrore. Cocaina, vita veloce, paura di dover crescere, troppo amore per i nonni che non voleva far soffrire. La fuga da Santhià verso Milano e poi Venezia. Poi, davanti a quel colore forte, indicibile, davanti a quel silenzio ottuso, terribile, davanti a quel pozzo senza acqua si ferma. Si consegna alla polizia e all’orrore del carcere, dove macinerà attimi che saranno anni. Perché non ci sono spiegazioni a queste storie? Perché, probabilmente, non sono storie e difficilmente si possono raccontare. Ma l’orrore si avvicina, la scossa tellurica, infine, giunge sino a noi: a casa nostra. Una famiglia massacrata: un padre, una madre e un figlio di dodici anni. A casa nostra. Nella porta accanto: a Tempio Pausania. Dove un fatto del genere non era mai accaduto. Assassinati a sprangate. L’orrore non si dipana, cammina come un fiume in piena e ci travolge. Ci costringe a fermarci, provare a comprendere qual’ è il punto di non ritorno, quale potrebbe essere la traduzione per tutte queste pagine apparentemente illeggibili. Magari la verità è semplice ma non è bella. E, sinceramente, non credo neppure sia così semplice. Non si costruisce l’orrore solo per magnificare la propria follia. Non si uccidono a sprangate le persone. Non si uccide, semplicemente, un bambino di dodici anni. Il triplice omicidio di Tempio Pausania ci obbliga a domandarci dove è arrivato il confine tra il possibile e la sopportazione. Probabilmente non ci siamo soffermati abbastanza ad analizzare e soppesare le situazioni, probabilmente la crisi di valori è irreversibile, probabilmente dovremmo poter coniare nuove risposte e non lasciarci investire dall’emozione e, successivamente, dall’indignazione. Non basta. Non basta più. Il punto di non ritorno probabilmente è stato già toccato. Si tratta di rivedere meglio le regole d’ ingaggio di questa nostra società: si tratta di scavare nelle viscere delle inquiete solitudini, dei troppi silenzi, delle nostre facce voltate da un’altra parte per non voler vedere quell’orrore che ha il colore dei nostri indifferenti gesti.
Che colore ha l’orrore? Quell’anfratto scavato nella periferia del mondo, quel cunicolo viscido e silenzioso che ci trasporta nei primitivi gesti tutti legati all’istinto bestiale, alla furia incontrollabile di cose che con la razionalità non si spiegano. Quei colori cupi, densi, quegli occhi sbarrati, quelle parole che non fuoriescono e rimangono incollate tra il silenzio e la paura. Dovremmo chiedercelo che colore ha questo orrore quotidiano che ci assale e ci costringe a girare il volto da un’altra parte perché, tanto, non ci riguarda, perché, tanto, non ci ha colpito, perché, tanto, è solo un film. Così coloriamo le cose che ci girano intorno e le chiamiamo notizie e non riescono mai i diventare storie con volti veri di uomini, con tracce di vita e di sofferenza. I morti per incidenti stradali sono attualità, come quelli che muoiono divorati dal tumore. E sono “attualità” anche quei corpi inermi divorati da un mare considerato amico e fratello, quei corpi di uomini in fuga verso un altro futuro che non raggiungeranno mai. Noi ascoltiamo, proviamo a classificare nella nostra mente quella notizia e dentro i cassetti della memoria diventerà “altra”. Troppo lontana per ricordarla. Come gli omicidi che si compiono ormai quotidianamente e con accurata distrazione vengono raccontati. Uomini che massacrano le loro donne giustificandosi vergognosamente di averlo fatto per amore. Uomini che massacrano altri uomini per denaro, per paura, perché fanno parte di un’organizzazione criminale e non sanno soppesare i cuori di nessuno. Poi, dentro queste notizie divenute quasi “normali”, registrate come un orrore quasi sopportabile, si registrano nuove piccole scosse che smuovono le coscienze e la crosta quasi indurita dei nostri sensi: un ragazzo massacra i nonni e la zia. Un ragazzo, uno della porta accanto, uno sportivo, un figlio normale. Questo ragazzo si dipinge la strada di sangue e di orrore. Cocaina, vita veloce, paura di dover crescere, troppo amore per i nonni che non voleva far soffrire. La fuga da Santhià verso Milano e poi Venezia. Poi, davanti a quel colore forte, indicibile, davanti a quel silenzio ottuso, terribile, davanti a quel pozzo senza acqua si ferma. Si consegna alla polizia e all’orrore del carcere, dove macinerà attimi che saranno anni. Perché non ci sono spiegazioni a queste storie? Perché, probabilmente, non sono storie e difficilmente si possono raccontare. Ma l’orrore si avvicina, la scossa tellurica, infine, giunge sino a noi: a casa nostra. Una famiglia massacrata: un padre, una madre e un figlio di dodici anni. A casa nostra. Nella porta accanto: a Tempio Pausania. Dove un fatto del genere non era mai accaduto. Assassinati a sprangate. L’orrore non si dipana, cammina come un fiume in piena e ci travolge. Ci costringe a fermarci, provare a comprendere qual’ è il punto di non ritorno, quale potrebbe essere la traduzione per tutte queste pagine apparentemente illeggibili. Magari la verità è semplice ma non è bella. E, sinceramente, non credo neppure sia così semplice. Non si costruisce l’orrore solo per magnificare la propria follia. Non si uccidono a sprangate le persone. Non si uccide, semplicemente, un bambino di dodici anni. Il triplice omicidio di Tempio Pausania ci obbliga a domandarci dove è arrivato il confine tra il possibile e la sopportazione. Probabilmente non ci siamo soffermati abbastanza ad analizzare e soppesare le situazioni, probabilmente la crisi di valori è irreversibile, probabilmente dovremmo poter coniare nuove risposte e non lasciarci investire dall’emozione e, successivamente, dall’indignazione. Non basta. Non basta più. Il punto di non ritorno probabilmente è stato già toccato. Si tratta di rivedere meglio le regole d’ ingaggio di questa nostra società: si tratta di scavare nelle viscere delle inquiete solitudini, dei troppi silenzi, delle nostre facce voltate da un’altra parte per non voler vedere quell’orrore che ha il colore dei nostri indifferenti gesti.