Di Dachau ricordo il silenzio assoluto. Erano voci sparse e lontane, tracce di vita tra una baracca e l’altra. Dell’acquario dell’esistenza distrutta, macinata, volatilizzata, violentata, mi porto il fragore e lo stupore delle azioni incredibile dell’animale uomo. Della sua assoluta cattiveria, del suo terribile disegno completamente errato. Giravo tra quelle baracche e vedevo occhi riempirsi di lacrime mai interamente versate. Perché non c’era stato neppure il tempo, per alcuni, di comprendere il loro atroce destino. Sono giunto sino ai forni crematoi a osservare i camini silenziosi e sinistri. Era una giornata grigia, ma pulita. Non c’era neppure il vento. Mi son voltato a contare i passi tra le camere a gas e il reticolato che rappresentava l’ipotetica libertà. Tutto era terribilmente fermo. Ho controllato gli umori di tutti quelli che visistavano il campo e tutti si portavano dentro un cuore pesante. Bisogna vederlo un campo di concentramento per poter urlare il proprio disappunto. Bisogna calpestare quell’erba e quella strana polvere. Quel silenzio assordante che è un vuoto terribile, un buco nell’anima. Sono passati quasi dieci anni dalla mia visita a Dachau. Ho capito di aver camminato sull’atrocità di una scelta scellerata, ho respirato l’orrore. Ho compreso, infine, il peso della dignità. Chi afferma che tutto questo non sia accaduto non si deve vergognare. Sarebbe troppo semplice. Vada a Dachau o in qualsiasi altro campo di concentramento nazista e respiri quel maledetto silenzio. Ascolti il rumore della terra e abbassando gli occhi, si vergogni.
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Le notizie, a volte, passano veloci nell’autodromo dei quotidiani, telegiornali, blog, social network e rischiano di appassire senza che nessuno possa, almeno per attimo, rifletterci. Ed infatti, la notizia a me “sfuggita” è vecchia di qualche giorno, e quindi per l’attualità velocissima è quasi da buttare. Probabilmente anche poco interessante posto che nessuno l’ha rilanciata o ha provato a ribattere, chiosare, esprimere dissenso profondo o giubilo incommensurabile. Pochi sanno dunque (almeno così credo) che domenica 19 Gennaio Marco Rizzo ha fondato attraverso un congresso il Partico Comunista italiano. Congresso, svoltosi a Roma con tanto di bandiere rosse e adesione ad una nuova internazionale. Si dirà: i soliti nostalgici. Certo con delle ideone nuovissime e niente male. Uscire dall’euro, per esempio, nazionalizzare le banche e le grandi imprese come la Fiat (come se non bastassero gli aiuti statali all’Avvocato Agnelli). La cosa poeticamente più alta è però la dichiarazione veramente rivoluzionaria: “Noi siamo per il ritorno all’ideologia, in continuità con la rivoluzione d’Ottobre. E con l’Unione sovietica, dove il socialismo è fallito solo dopo l’avvento di Krusciov e, in ogni caso lo stalinismo fa parte del nostro patrimonio e noi siamo marxisti-leninisti.”. Con il trattino. Dio quanto mi sono commosso. Mancavano gli inti-illimani, il compagno Ivan della Mea, Potere Operaio, compagni dai campi e dalle officine, il profumo dolce dell’Unità da vendere la domenica, i libri di Feltrinelli, Fidel Castro e Che Guevara. Le notizie a volte passano veloci nell’autodromo della vita. Ciò che non ha funzionato ieri, difficilmente si può riproporre oggi per un domani un tantino diverso dagli anni settanta. Sono dolcemente “vintage” ma non a questo punto.
Le favole sono nuvole di bambagia sempre pronte ad avvolgerci. Le leggende fanno parte dei racconti forse immaginari, pieni zeppi di eroi, dove si esaltano le vite e le gesta. Ieri, per esempio, è morta una leggenda. Più vicino alla favola, a dire il vero. Ed era divenuto (e lo è ancora) un modo di dire quando ci si arrovella nel non mollare, nel non accettare nessun compromesso, nessun armistizio: «Sei l’ultimo dei giapponesi, quello che continuava a combattere, nonostante la guerra fosse finita da un pezzo.»
Hiroo Onoda, favola e leggenda esisteva davvero ed è morto all’età di 91 anni nella terra di Giappone da lui difesa sino al 1974 nelle isole filippine dove era stato inviato, a 22 anni, nel dicembre del 1944 in nome della patria. Lui, continuò a combattere, nonostante la resa giapponese del 15 agosto 1945 e continuò ad essere convinto che la guerra continuasse, nonostante i foglietti lanciati dagli aerei americani. Nemici dei quali, ovviamente, non si fidava. E’ morto, dunque, l’ultimo dei giapponesi, l’ultimo ostacolo alla globalizzazione, alla coerenza e alla forza dell’ortodossia pura. Ma i miti, si sa, non muoiono. Come le leggende continuano a camminare nelle parole degli uomini. Onoda ci racconta la forza e la coerenza, il mantenere la posizione a tutti i costi, per la ragion di Stato, per il suo imperatore. Ci racconta l’amore per la terra, la sua terra, ci ricorda l’importanza della lealtà, nonostante egli fosse in una giungla per oltre vent’anni. Solo un suo superiore, nel 1974 gli dirà che quella guerra per cui lui continuava a combattere, in realtà era finita da ormai trent’anni. Onoda ci racconta però un’altra storia e si aggiunge al mito, alla leggenda e alla favola: la morale di una vita leale, forte, intensa ma solitaria e, in fondo, lontana dal pensiero degli uomini. Lui, l’ultimo ad arrendersi, a mantenere la posizione, ci racconta che il mondo ha le sue idee in movimento e non possiamo stare tutta la vita nella giungla a combattere per nemici che, nel tempo, sono diventati alleati e, probabilmente, amici. Insomma, Hiroo Onoda è entrato, definitivamente, nella leggenda: il piccolo giapponese che combatté la sua guerra da solo. Non la vinse e non la perse. Ma neppure pareggiò. Fu il simulacro della coerenza e della lealtà ma fu anche l’altare dell’inamovibilità. Ormai non si può prendere ad esempio, ma solo raccontare. Perché le leggende sono come le favole: avvolgono e riscaldano i cuori nel mondo dell’inverosimile. la mia grande ora di libertà - dedicato a Fabrizio De André, a quindici anni dalla sua morte.10/1/2014 .La vita, poi, gira come una canzone e ti trasporta nelle arterie dei ricordi, dove il sangue circola e ritorna. Perché le canzoni ricompaiono per saltellarti dentro e ti accompagnano negli scenari della tua esistenza ormai dimenticati. Ci sono musiche e suoni indelebili e ci sono movimenti intorno a quei suoni e a quelle parole che riescono a dipingere di verde anche il deserto più triste. Una canzone, su tutte, la trasporto da anni nella mia particolare saccoccia della memoria. Domani ricorre l’anniversario della morte di Fabrizio De Andrè. (sono, ormai, quindici lunghissimi anni). Le canzoni però girano sempre e restano, come i libri, le fotografie, i sospiri e gli amori. Quelli veri. Quelli che disegnano ferite e le rimarginano con le lacrime dell’affronto. Io amo, terribilmente, Nella mia ora di libertà, la canzone che chiude l’album più bello (a mio parere, certo) di Faber: “Storia di un impiegato”. Mi piace perché è la sceneggiatura di un film. Di un film che io, paradossalmente, ho visto e rivisto nei miei trentuno anni di “galera”. Quella canzone cammina all’interno di ogni carcere da me visitato per lavoro (e ne ho, davvero visitati tanti e non solo in Italia) quella canzone è la colonna sonora all’interno dei passeggi dove vedo spesso detenuti intenti a parlare fitto e camminare velocemente, nella loro ora di libertà. E mi piace l’idea, assurda, fuori misura e dunque bellissima, di uno sciopero da parte dei detenuti, di voler rinchiudere gli agenti nell’ora di libertà. Quella canzone è una sconfitta atroce. Lo so. E’ l’inno di un perdente, ma di un perdente che ha compreso fino in fondo la sua sconfitta: dal suo sogno politico al suo sogno d’amore, in anticipo su ogni stupore. Dentro questa canzone io ci vedo tutto il De Andrè del mondo. Tutto. La sua analisi lucida sui fatti, il suo mescolare politica e poesia, e se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone ecco, spartiamoci la prigione: il non luogo, il non rumore. La non vita. Perché di questo si tratta: saper spartire, saper dividere, saper chiedere una polemica di dignità. Ma c’è, davvero, tutto l’amore del mondo condensato in poche frasi, c’è tutto l’amore del mondo tra un uomo e la sua compagna: “da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio”. C’è tutta la bellezza del mondo, l’accettazione, il rispetto, l’abbraccio di due persone in queste poche e struggenti parole. E quella frase dura, durissima, a disegnare le verità che oggi tutti vediamo, ma dovevamo scriverle nel 1972 per essere oggi credibili. E lo facevano, tra i pochi, De Andrè e Pasolini. Per dire. Quella frase a rappresentare tutta la verità del mondo: non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni. Quella frase finale a rappresentare tutte le frasi del mondo, tutte le vite del mondo, le passioni, gli impegni, le urla del mondo: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.
Ecco. La mia canzone. La ferita che ritorna a ricordare le vecchie cose: le bandiere, le lotte, i sogni, gli scazzi, la voglia di, la voglia per, quel “pagherete caro, pagherete tutto” e tra tutte le grinte, le ghigne e i musi, poche le facce e tra loro lei. Ecco. La mia canzone. Partita dall’adolescenza mi ha accompagnato anche tra le sezioni fredde e buie di un carcere a provare a regalare a qualcuno almeno un’ora di libertà. E di dignità. Ciao Fabrizio. Mi manchi. Maledizione. Però ci sei. Con tutto l’amore che hai potuto, fatto di rabbia e di forza a camminare sempre con destinazione ostinata e contraria. Ho provato a fare questo mestiere anche per colpa di questa canzone. Sono profondamente convinto (ancora, dopo 31 anni) che non possiamo togliere la primavera a chi in galera ci passa giorni duri e solitari. Dovremmo, invece, provare a fargli respirare quell’area leggera, di libertà e di coraggio. Ciao Fabrizio. E grazie. Per la tua grande ora di libertà. Che da tempo è anche mia. F
I ricordi di un vecchio maggio. Io, quel giorno non me lo ricordo. Non ne ho grandissima memoria. Avevo tredici anni e pensavo a Mazzola, Gigi Riva e ad una ragazzina di nome Antonella. Con le lunghe trecce nere. Pur non capendo a fondo cosa significasse respirare piano nella cantina buia, quella scena mi piaceva, mi immaginavo io e Antonella, le trecce, la cantina. L’unica cosa che non mi piaceva era il ritornello: io, il mare lo vivevo sempre a colori. Anche nei pensieri. Anche d’inverno. Per me non c’è mai stato il mare nero. Insomma, quel giorno, il 17 maggio 1972 era, per me, un giorno di scuola. Mi preparavo agli esami per la terza media e avevo scelto, come libro a piacere, da presentare come riassunto, “storie dei nostri giorni” di Enzo Biagi. Ero rimasto colpito da come quel giornalista scrivesse. Mi piaceva l’idea di diventare giornalista, un giorno. Mi piaceva intervistare le persone, soprattutto per sentire le risposte. Io, quella notizia non me la ricordo. Ricordo – e avevo solo dieci anni – la strage di Piazza Fontana, quelle immagini in bianco e nero. Ricordo i capelli vaporosi di Valpreda e il suo strano cognome. Ricordo di Pinelli caduto dalla finestra come dicevano in televisione. Ma sono ricordi rarefatti, lontani. Quel 12 maggio 1972 rientravo a casa con Gianni, il mio inseparabile amico di banco. Ci eravamo lasciati a metà strada, vicino al forno di Serra, in via Manzoni dove i panini costavano cinquanta lire. Ed erano buonissimi. Ricordo solo mia madre che mi disse dell’uccisione di un commissario. Lei era sconvolta perché la moglie del commissario aspettava un bambino. Non avrebbe mai conosciuto il padre. Un po’ come me. Questo mi ricordo. Luigi Calabresi è stato, per me, soprattutto questo. Un padre che non avrebbe mai conosciuto il proprio figlio. Da quel giorno cominciai a chiedermi molte cose e ad ascoltare molte persone. Di Luigi Calabresi ho sentito molte verità. Ho imparato che non si coltiva l’odio senza conoscerne i fatti. Potrebbe fare molto male. Quell’anno, però riuscii a baciare la mia Antonella. Senza respirare piano, però. Stasera guarderò il film su Rai uno. Perché i ricordi servono ad abbracciare la vita. Quella passata e quella futura. In fondo siamo storie che si intersecano e Luigi Calabresi raccoglie la mia vecchia e dolcissima adolescenza. Battisti, Antonella, Baglioni e la graziella a correre nel vento. Questo mi ricordo, ma avevo capito che davanti si profilava un futuro complicato e difficile. Quello me lo sarei ricordato benissimo. Anche troppo. Le storie hanno tutte un cassetto adatto alle dignità. Poi, a volte, riescono a non essere sufficienti per quel misero cassetto e sconfinano, diventando quasi leggenda. Potessi scrivere una lettera a qualcuno con cui ritirarmi in un’isola deserta avrei, forse, l’imbarazzo della scelta. Molti, purtroppo, non ci sono più. Parlo di Pasolini, Fellini, Troisi, Franca Rame, Jannacci, Che Guevara. Così, giusto per citarne alcuni. Ma poter scrivere ad una donna, una donna ideale, una donna con la quale passerei tutti gli anni che mi restano (posto, chiaramente, di essere rimasto improvvisamente solo e non è il mio caso) in un’isola deserta e ricevere la risposta affermativa e poter imbarcarmi in questa incredibile avventura e viverci per trent’anni ecco, questa è una storia da raccontare, una storia con i densi colori della mitologia.
Perché questo è accaduto. Finito il matrimonio con il suo primo marito, un giorno in un'intervista - era il 1980 – Rossana Podestà disse (o almeno così racconta la leggenda ) che Walter Bonatti era l'uomo con il quale avrebbe voluto ritirarsi su un'isola deserta. Bonatti, allora, le scrisse una lettera (anche lui veniva da un matrimonio finito), si diedero un appuntamento a Roma e fu così che cominciò un amore destinato a durare trent'anni. Fino al 14 settembre 2011, giorno della scomparsa del grande alpinista, esploratore e scrittore. Un addio a metà fra dolore e proteste: in un'intervista a Vanity Fair l'attrice raccontò che, dato che lei e Bonatti non erano sposati, non le permisero di stare accanto al suo compagno morente, in rianimazione. "È possibile - lamentò- che una persona già schiacciata dal dolore venga trattata in questo modo?". Allontanata dall'ultimo viaggio, dopo tanti anni a girare il mondo insieme all'uomo della sua vita. Oggi, quel viaggio, quell’ultimo viaggio ha avuto il terreno epilogo. Rossana Podestà è morta all’età di 79 anni. La ricordo con tenerezza, non tanto per il film “storici”, quanto per l’interpretazione della madre del terorista nel film quasi sconosciuto “segreti, segreti” per la regia di Giuseppe Bertolucci. Adesso, con molta malinconia, il viaggio si è concluso. L’abbraccio negato dagli uomini e dalle loro leggi perfide stasera non le sarà negato. Grazie per questa storia piccola e bellissima. Una storia che ci fa sentire tutti più lievi. E più soli. Sono quasi convinto che Dio abbia una tavolozza in grado di dipingere la pelle di tutti. Anche perché ha interessi diversi dagli uomini Dio. Non divide, per esempio, il mondo tra bianchi e neri. O gialli, verdi. No. Lui mischia divinamente le tempere, riesce a pasticciare le anime, a mescolare i contorni di tutte le esistenze. Ha le idee chiare, Dio. Non metterebbe in carcere, per esempio, un signore che si batte per la libertà contro la supremazia di una razza, qualsiasi razza, non permetterebbe, nella maniera più assoluta che nessun uomo di nessun colore possa essere buttato in una cella, in un’isola deserta, per ventisette anni. Dio, questo, non lo farebbe. Lo lascerebbe agli uomini che, per sfortuna hanno le idee piuttosto confuse sulla libertà sugli spazi e sul tempo. E sulla dignità. E certi uomini sanno essere terribilmente stupidi, cattivi, insipidi, cinici, ciechi, tanto da confondere i colori con le passioni, le razze con le intelligenze, i pensieri con le apparenze, le convinzioni con le ottusità.
Io conosco il carcere. E conosco il peso di ventisette anni di galera. Ho la consapevolezza del tempo che non scorre e della vita che si consuma senza sforzi. Lo so perché ci ho lavorato e ci lavoro. Perché quel tempo non ha scansioni, non ha termine. So anche che un uomo condannato all’ergastolo ha davanti un lungo calendario dove l’anno non cambia mai, dove non c’è quel dicembre liberatorio, quel dicembre che ci porta alle soglie del nuovo anno, alla speranza. Mandela, per ventisette anni ha contato e ricontato gli attimi, ha rendicontato la sua vita, ha scandagliato le sue parole e le sue convinzioni. Per ventisette anni ha provato a costruire il suo futuro da dentro un carcere, dalla cella 466. Non cerco la retorica dei gesti. Sarebbe semplice. Non ricerco le grandi parole o i magnifici ricordi. Sarebbe logico. Lui, Mandela è stato uomo ed è stato tempo, tavolozza di colori, intensità di sensazioni. Lui, Mandela è stato uomo. Soprattutto. Ha ricercato l’unione dove stagnava l’odio, ha cercato il confronto dove esisteva il contrasto. Mandela ci ha ricodato che occorre una visione, una certezza, una possibilità. Per ventisette anni ha osservato il sole nascere e morire. Lo ha osservato da una cella. In carcere. Per ventisette anni ha capito che il colore del sole è sempre giallo. Anche se visto da dietro una grata. Per ventisette anni ha atteso, ha rimescolato, ha pasticciato il futuro. Un po’ come Dio che si è divertito a costruire un mondo a colori e li ha usati tutti. Ciao Mandela, e scusaci per molte cose, per non aver compreso, per non aver ascoltato, per esserci voltati, come sempre, da altri parti. Però tu c’eri e solo oggi, che non ci sei più, ne sentiamo terribilmente la mancanza. La terra ti accarezzi e il sole ti riscaldi. Noi, proveremo a ripartire. Dai tuoi ricordi, da quei ventisette anni e dalla tua consapevolezza di provarci, sempre, a qualsiasi età. Preferisco un ciao ad un addio definitivo perché così rimani, con quel tuo sorriso e con quelle tue bellissime camicie colorate, vicino al mio orizzonte. Dove non potrai mai scomparire. Una volta c’erano le assemblee. Ve le ricordate le assemblee? Non c’erano neppure i microfoni e occorreva alzare la voce. Nelle assemblee si fumava, c’era sempre una grande cappa di fumo e una densità di argomenti che ci teneva svegli. Qualcuno, a dire il vero, ne approfittava per pomiciare, visto che il privato era politico. Avevamo quasi tutti la barba, simbolo di un’appartenenza alla rivoluzione e tutti avevamo le idee chiare e giuste: le nostre. Non si poteva indossare una cravatta: era fascio. Si leggeva lotta continua, Doppiovù, Rinascita, Re nudo e il quotidiano dei lavoratori.
Sono passati gli anni, le assemblee si sono diradate, anche i comizi in piazza e il volantinaggio. Son comparse le televisioni private e i dibattiti, gli interventi sui giornali o nelle sedi dei partiti. Si affittavano dei piccoli pièd-a terre dove portare le compagne perché pomiciare in pubblico era qualunquista. Qualcuno portava i baffi e al posto della vecchia sciarpa spuntava una piccola cravatta variopinta. Mai regimental che faceva troppo destra. Avevamo molte idee e tutte confuse: un grande avvenire da costruire. Sono passati altri anni, siamo diventati più realisti, abbiamo bevuto la svolta della Bolognina, abbiamo seguito la falce e martello che nel simbolo diventava sempre più piccola, è nato un albero, dalla quercia all’ulivo. Avevamo visi ben rasati e cravatte serie. Non troppo grosse. Era cafonal. Si leggeva l’unità la repubblica, micromega, Dylan Dog e Marquez. Anche Montalbano, ma non troppo. Si facevano le vacanze intelligenti e la compagna amata da una vita la si tradiva con una compagna kenyiota che faceva molto “sono conto la fame nel mondo”. Poi sono arrivati altri mezzi di comunicazione. Il computer, l’agenda elettronica, il cellulare, lo smartphone, i social network, Facebook e Twitter, tutti insieme nel villaggio globale a raccontare che questa era la vera democrazia. Non si indossava più la cravatta. Si leggevano solo blog on-line, si giocava a tetris, si ascoltava la musica in mp3, l’amore era veloce e molto virtuale. Tutto girava intorno ad un semplice “mi piace”. Anche quando non ci piaceva, anche quando potevamo dire qualcosa, anche quando potevamo prendere la parola come nelle vecchie assemblee, mi piace, anche quando potevamo baciare una ragazza, mi piace, anche quando potevamo dire: vorrei dire che cioè, nella misura in cui,......mi piace. E abbiamo votato le primarie, mi piace, le secondarie, mi piace, le grilline, mi piace, le quirinarie, mi piace, son saltate le coronarie, mi piace, ci siamo insultati, mi piace, annusati, mi piace, abbiamo sorriso con uno smile postato, mi piace, abbiamo urlato con una foto postata, mi piace, un post appare sempre due volte, mi piace. E abbiamo pianto. A casa. Da soli. Con un disco di Claudio Lolli. Un disco. In vinile. “Ho visto anche degli zingari felici”. E ci siamo guardati senza respirare quando sentiamo cantare quella frase killer che ci accompagna da lotta continua a Hello Kitty: “E’ vero che non ci capiamo, che non parliamo mai in due la stessa lingua.”Butto lo sguardo lontano dove un ragazzino palpeggia uno smart phone e mi chiedo: “dove abbiamo sbagliato?” Nel 1977 avevo diciotto anni e molte speranze nel mio orizzonte. A scuola avevo conosciuto un professore di letteratura, amante di Pasolini, di Pavese e di Jean Paul Sartre. Un giorno mi disse che stava per intraprendere un viaggio difficile: andava a Poona, per incontrare Osho Raynesh, conosciuto anche con il nome di "Bhagwan" (Benedetto-Realizzato). Questo strano signore era un guru indiano che aveva fondato il movimento degli arancioni che proponeva una nuova religiosità e un nuovo modo di vivere. Salvatore, il mio professore, partì per l’India durante le ferie estive e ritornò ad Alghero vestito completamente di arancione, pensava arancione, parlava da arancione. “Non mi chiamare più Salvatore”, mi disse, “da oggi sono Swami Swatmo, che significa dolce luce”. Mi invitò insieme ad altri amici a casa sua, ci invitò a sederci in semicerchio e a chiudere gli occhi e dire insieme “oooooooommmmmm”. Insomma, questa storia durò poco e dopo dieci minuti salutai e tornai a Pasolini, Pavese e Sartre. Il problema è che Salvatore, in India, acquistò molti vestiti arancioni ed inoltre un registratore a cassette e tante c90 (audiocassette) con registrate le conferenze di Bhagwan. Scoprimmo (e provammo a dirglielo) che il registratore lo aveva acquistato a prezzo doppio rispetto a quelli normalmente presente nel mercato italiano, così come le magliette e le camicie di pessima fattura. Il nostro guru aveva trovato molti occidentali disposti a seguirlo ma ebbe dei problemi di salute e si trasferì nell’Oregon, dove costruì un grande centro simile ad una città. La sua segretaria Sheela aveva notevoli capacità organizzative e il nostro guru navigava nell’oro e con molte auto di lusso. Insomma, dopo qualche anno gli arancioni si stinsero e questa storia la ricordano solo quelli della mia generazione.
Osho non c’è più (è morto) e gli arancioni vendono i libri con le parole di osho e su internet potete trovare, abbastanza facilmente, tarocchi e le sue meditazioni. La dottrina di Osho era piuttosto dirompente ma giocava sulla contradditorietà. Diceva Osho: Dio essendo tutto comprende tutto, anche le contraddizioni. Potete pensarla come volete ma a me questa storia lontana mi riporta ai giorni nostri, ai nostri guru, vicini e lontani. La speranza è che tutto si stinga abbastanza velocemente e si ritorni a Pasolini, Pavese Sartre e ad altre belle letture. Osho compreso, ma non come unica lettura. 11 gennaio 2013) Aveva occhi e voce che riportavano alla riconciliazione. Quegli occhi azzurri e quella voce roca, profonda, intensa, quello sguardo che ricercava sempre l’orizzonte di ogni anima che si trovava davanti. Che fosse un collega o fosse il semplice spettatore che la osservava. Al cinema come in teatro. Una maschera perfetta. Un’attrice completa. L’icona della mia adolescenza. Mariangela Melato era così. Il ricordo dei miei anni ruggenti, la buttana milanese di travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, la maestra elementare che vuole fortemente un figlio che non arriverà in Lo chiameremo Andrea, una metafora degli anni settanta del Grande Vittorio De Sica, ma anche l’intensa interpretazione in Saxofone, un film diretto nel 1978 da Renato Pozzetto, quasi sconosciuto ma che per me, rappresentò la fine dell’adolescenza. Quel corpo solido e soave che si spogliava, quella Melato fuori dagli schemi, quello strano rapporto tra la fantasia e la realtà mi aveva catapultato irrimediabilmente nel mondo dei grandi. L’ho osservata nei suoi piccoli grandi ruoli in tanti film e in pezzi di teatro o in televisione, fino all’ultima e bellissima interpretazione di una grande Filumena Marturano vicino a Massimo Ranieri, ripassato proprio nei giorni di questo ultimo natale. Mariangela Melato era, per me, l’adultità, la certezza che la donna sapeva essere dolce, aggressiva, furba, romantica, gonfia di lacrime che non regalava al primo che passava, modulatrice di voci forte ed impetuose. Mariangela era, più o meno sorella e madre, forse amante e sogno proibito per chi sapeva innamorarsi degli occhi e della voce. E della sensibilità. Ai miei tempi questi erano i canoni della passione. Mariangela Melato quando passava in televisione, nella mia televisione era sempre presente e io ero lì a guardarla, osservarla, a farmi trasportare dalla sua splendida signorilità. Se la classe operaia va in paradiso è giusto riservare un posto anche a lei, ai suoi occhi, al suo sorriso immenso e alla sua classe. Buona strada Mariangela. E grazie.
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