Continuo a pensarla all’antica. Mia nonna, per dire, conservava i soldi per “mangiare” da una parte e i soldi per “vestirsi” dall’altra. Era una donna che proveniva dall’orrore della guerra e sapeva benissimo come si dovevano soppesare le priorità. Dunque i soldi per la cena non si mischiano con quelli per le cravatte. Non si deve fare. Non si può dire “ma lo fanno tutti” o provare piccoli e indegni sotterfugi: “d’altronde anche l’uovo di pasqua è un modo per vestirsi”. Non è così. Non serve raccontare che la colpa, in fondo è delle leggi, dei regolamenti. Perché ci sono leggi e regolamenti scritti da quelle stesse persone che non rispettano ciò che scrivono. Ed è questo il primo grande, imperdonabile errore. Questi signori non sono Stato, non riescono ad essere Stato, non possono comprendere i passaggi etici perché non capiscono “i fondamentali”, quelli di mia nonna: mai dividere i soldi dei vestiti da quelli per mangiare. C’è una visione completamente distorta della realtà quando questi signori non comprendono di aver utilizzato i denari pubblici per fini esclusivamente privati. Questi signori, in fondo sono figli di quello che Pasolini chiamava il sotto-Stato, il sottogoverno arcaico, un rimasuglio di un regime spregiudicato, cinico, agile che continua, terribilmente, un disegno ormai insopportabile. Mia nonna avrebbe chiamato questi presunti “onorevoli” “pedidores” ovvero piccole persone inette, poco inclini a comprendere la differenza tra i soldi per mangiare e quelli per vestirsi. Cosicché li avrebbero trovati con i cappotti d’estate e mangiando la pasta al sugo laddove serviva del burro o della verdura. Completamente fuori luogo e fuori tempo massimo. La smettessero almeno di giustificarsi. Tanto nonna (da lassù) mica è disposta a crederci. Manco morta.
C’è gente che è cresciuta con la musica intorno. Si canta come una melodia ”acqua azzurra acqua chiara”, e si strimpellava in tutte le spiagge” la canzone del sole” o i giardini di marzo: quando il carretto passava e quell’uomo gridava gelati. Chi non conosce - sempre di Battisti - amarsi un po’ che è come bere o chi non si ricorda Il testamento di De André che finisce con quel bellissimo aforisma poetico:”quando si muore si muore soli?” Ho conosciuto stuole di ragazzi che cantavano Bocca di Rosa, l’amore sacro e l’amore profano o, ancora, provavano l’accordo in Do maggiore per la cattiva strada di De Andrè. Ma il più corale, il più fischiettato era Lucio Dalla con Quale allegria e Cara. E quello che faceva innamorare? Beh, Claudio Baglioni con E tu, accoccolati ad ascoltare il mare, il passerotto che non deve andare via di sabato pomeriggio. Ma anche Venditti con Lilly lilly quattro buchi nella pelle oppure ciao uomo, nato sotto il segno dei pesci, ci vorrebbe un amico per poterti dimenticare ed infine le liriche del principe, quel generale dietro la collina dove c’è ancora la notte crucca ed assassina oppure la cavalcata selvaggio di Bufalo Bill, quando il paese era molto giovane e lui aveva un amico culo di gomma, famoso meccanico.
Insomma, queste erano le canzoni che si canticchiavano e che si strimpellavano con la chitarra. Anche io, anche la mia generazione. Soprattutto la mia generazione. Eppure, un giorno, quasi per caso ascoltai una canzone dolcissima e struggente: “per te”, quella che aveva un ritornello intimassimo:”che a bere i tuoi pensieri, a bere quello che era ieri, cercando di raggiungere chi, al vento avrebbe detto si”.
Una folgorazione. Era Battisti, un Battisti che non conoscevo. Fu un’altra canzone che mi portò a cercare una strana verità: era via del campo , dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior. Erano i versi bellissimi di una canzone che non avevo mai sentito. Era Fabrizio De Andrè. Allora cominciai a chiedere, ero curioso, volevo sapere. Un esperto sorrise e mi disse: sono il lato B. “Il lato B di cosa?”, chiesi io. “Il lato B dei 45 giri”. “Sai”, aggiunse, “un cantante deve per forza scrivere due canzoni: scegliere la migliore per il lato A e poi metterne una per il lato B. Quella tanto, non l’ascolterà nessuno”. Non avevamo a quei tempi cognizione che esistessero anche gli Lp, i 33 giri. Non avevamo i soldi, a dire il vero. E allora cominciai ad ascoltare il lato B di tutte quelle canzoni che mai avevo sentito e scoprii come per incanto che nel lato b, nel dimenticatoio erano state relegate: dieci ragazze per me, posson bastare, ed eri bella, comunque bella, quel gran genio del mio amico che mi diceva si viaggiare. Un Battisti da lato B. E un De André che nascondeva le sue perle nel cono d’ombra del lato quasi disonorevole, come la ballata del miche o Amico fragile, dove è bello pensare che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo cominciare una chitarra, il cucciolo Alfredo di Lucio Dalla, balla balla ballerino e il tenebroso Baglioni con l’intimissima chissà se mi pensi, qui sotto il cuscino se mi hai trovato carino se mi vuoi qui vicino, se mi vuoi qui con me, ma anche poster, seduto con le mani in mano mentre passa la signora con i sacchetti dell’Upim per andare lontano. Il Venditti di compagno di scuola, di Roma Capoccia, di Sara svegliati è primavera, della bellissima e intensa notte prima degli esami e come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati. E infine due perle di De Gregori: quell’Atlantide che dice che vive dentro un capello pieno di ricordi e il natale ricordato e amato in una ballata d’altri tempi. Il lato B. Quello che mi ero sempre perso. E ho capito, da quel giorno, che era interessante tutto, ascoltare ed essere curiosi.
Ecco perché nasce l’antologia di racconti La cella di Gaudì, perché anche quello che tutti pensiamo possa essere il lato B degli uomini è in realtà qualcosa dove è possibile che nascano i fiori. A volte stando dentro il lato B della vita si osserva con più attenzione lo sfolgorio e la lucentezza del lato A che non basta, però, a raccontare e colorare l’anima. Da quella cella si doveva per forza guardare in maniera diversa, con occhi penetranti e nuovi: si doveva cambiare prospettiva: quella che trovate nella Sagrada Famiglia a Barcellona, l’unica chiesa visitata da milioni di fedeli dove non si canta Messa. Un’assurdità incantevole, un ossimoro perfetto: il lato B di tutte le chiese del mondo. La chiesa di Gaudì, con guglie verso il cielo, un cantiere sempre aperto, come le storie degli uomini, dove nulla è definito e definitivo. La cella di Gaudì con pezzi di vetro che si infrangono e si colorano. Ecco il nostro viaggio nel lato B delle opportunità. Oggi, ci sarà uno spettacolo folle. Insieme ad altri scrittori, a Cagliari, ci sarà un reading dove saranno raccolti i soldi per Collins, un ragazzo di colore che aveva raccontato la sua storia ad uno scrittore ed era finito nel progetto “La cella di Gaudì”. Collins, per una serie di vicissitudini burocratiche (quelle si, da lato b) si trova ancora in italia, alla ricerca di un lavoro e non riesce a pagare l’affitto. In Italia è stato in carcere, dove ha pagato per i suoi errori, ha raccontato la sua storia, ha avuto dei permessi per narrarla in giro per la Sardegna. Poi finisce la pena e qui comincia la storia assurda di Collins. Lo portano nel CIE di bari perché deve essere espulso. Il cie è peggio di un carcere, è stato ributtato nel suo peggior lato B. Quello senza speranza. Ma Salvatore Bandinu, il suo scrittore, il suo io narrante non si ferma, comincia a parlare con gli avvocati e si riesce a far liberare dal CIE Collins. Lui cerca lavoro ma non è semplice. Non ha, in questo momento i soldi dell’affitto. Non sono molti. Ma non li ha. Il suo sogno è rimanere in Italia. Stasera proviamo a regalargli una speranza. Perché anche nel lato B girano canzoni degne di essere ascoltate. Il reading è a Cagliari, libreria Cocco, in via Tuveri 20, alle ore 19.00. Per chi ha amato e ama la musica nelle parole. E viceversa.
Le storie hanno tutte un cassetto adatto alle dignità. Poi, a volte, riescono a non essere sufficienti per quel misero cassetto e sconfinano, diventando quasi leggenda. Potessi scrivere una lettera a qualcuno con cui ritirarmi in un’isola deserta avrei, forse, l’imbarazzo della scelta. Molti, purtroppo, non ci sono più. Parlo di Pasolini, Fellini, Troisi, Franca Rame, Jannacci, Che Guevara. Così, giusto per citarne alcuni. Ma poter scrivere ad una donna, una donna ideale, una donna con la quale passerei tutti gli anni che mi restano (posto, chiaramente, di essere rimasto improvvisamente solo e non è il mio caso) in un’isola deserta e ricevere la risposta affermativa e poter imbarcarmi in questa incredibile avventura e viverci per trent’anni ecco, questa è una storia da raccontare, una storia con i densi colori della mitologia.
Perché questo è accaduto. Finito il matrimonio con il suo primo marito, un giorno in un'intervista - era il 1980 – Rossana Podestà disse (o almeno così racconta la leggenda ) che Walter Bonatti era l'uomo con il quale avrebbe voluto ritirarsi su un'isola deserta. Bonatti, allora, le scrisse una lettera (anche lui veniva da un matrimonio finito), si diedero un appuntamento a Roma e fu così che cominciò un amore destinato a durare trent'anni. Fino al 14 settembre 2011, giorno della scomparsa del grande alpinista, esploratore e scrittore. Un addio a metà fra dolore e proteste: in un'intervista a Vanity Fair l'attrice raccontò che, dato che lei e Bonatti non erano sposati, non le permisero di stare accanto al suo compagno morente, in rianimazione. "È possibile - lamentò- che una persona già schiacciata dal dolore venga trattata in questo modo?". Allontanata dall'ultimo viaggio, dopo tanti anni a girare il mondo insieme all'uomo della sua vita. Oggi, quel viaggio, quell’ultimo viaggio ha avuto il terreno epilogo. Rossana Podestà è morta all’età di 79 anni. La ricordo con tenerezza, non tanto per il film “storici”, quanto per l’interpretazione della madre del terorista nel film quasi sconosciuto “segreti, segreti” per la regia di Giuseppe Bertolucci.
Adesso, con molta malinconia, il viaggio si è concluso. L’abbraccio negato dagli uomini e dalle loro leggi perfide stasera non le sarà negato. Grazie per questa storia piccola e bellissima. Una storia che ci fa sentire tutti più lievi. E più soli.
Non ho votato alle primarie. L’ho spiegato e la cosa finisce lì. Guardo, con pacata curiosità, il nuovo che avanza e avanza con molta velocità, per dirla con i “futuristi”. L’apoteosi renziana ha scardinato molte porte che da anni, a dire il vero, erano blindate. Ha provato – e ha vinto – a disegnarsi come segretario del PD e sapeva – lo sapeva benissimo lui ed eravamo profondamente convinti noi – che non aveva la stessa “pesantezza” del vecchio segretario del PCI. Infatti, lo dico per rammentarlo soprattutto a me stesso, lui non viene dopo Togliatti-Longo-Berlinguer ma viene – ed è segno dei tempi – dopo Veltroni-Fassino-Bersani. Altra storie dunque. Si, e altre storie. Non serve stare qui a riesumare esegesi romantiche e stucchevoli. Il tempo passa e Renzi è al passo con i tempi. Con questi tempi e di questi tempi. Lo diceva ieri, nel suo discorso. Andava ancora a scuola quando crollava il muro di Berlino e i ragazzi, nel 1992, si iscrivevano a Giurisprudenza in onore di Falcone e Borsellino. Ho riflettuto molto davanti a questo passaggio. Io, Falcone e Borsellino li avevo conosciuti nel 1985 e, da allora, avevo deciso di innamorarmi perdutamente del senso dello Stato. Quindi, qualcosa di nuovo, anzi di antico, si annida sotto il cielo di Renzi. Mi è piaciuta, per esempio, la sua pragmaticità nel decidere, da subito, senza incontri, senza consultazioni di sepolcri imbiancati, una segreteria di “quasi” perfetti sconosciuti. Magari sbaglia, ma ha deciso. Non è tempo di discussioni infinite. E’ il tempo del morettiano “No, il dibattito no”. Qualcuno dirà che queste scelte non sono state sedimentate con l’assemblea, il politburo, il comitato centrale. Qualcuno obbietterà che tutto questo è poco democratico. Io, tendenzialmente sono tra quelli. Ma una cosa la voglio dire: noi (io per primo) siamo quelli che abbiamo discusso su tutto e di tutto: dal privato è politico, alla proletarizzazione della coppia (e qualcuno me lo dovrà spiegare cosa diavolo significa) all’emendamento da approvare alla questione di principio, all’etica delle scelte alla voglia di puntualizzare. Un disastro. Noi (io per primo) abbiamo perso. Questo è quello che ho imparato oggi. Faccio parte dei perdenti, di quelli condannati a vivere dalla parte del torto tutta la vita. Non ci sto poi tanto male. Però, in fondo in fondo, questo gioco veloce e vincente non mi dispiace. Anche perché vincere non è un verbo di destra. Soprattutto se Renzi riuscirà a convincere.
Ho osservato l’orologio. E’ presto. E fa freddo. Conviene rimandare di qualche ora. In fondo gli attimi non aiutano a centellinare gli eventi. Poi c’è questa bellezza dell’I-pad dove puoi leggere il quotidiano sfiorando l’applicazione con un dito. In un istante. A letto. Ho deciso per un caffè in cucina. Senza zucchero. E’ da qualche anno che lo bevo amaro, per mettermi al passo con i tempi. Solitamente salto le pagine dell’economia. Non le capisco e mettono ansia. Preferisco la cronaca. Apparentemente più digeribile. Solo apparentemente. Tre biscotti. Perché tre, da sempre, è il numero perfetto. Nelle giornate incasinate e difficili, la perfezione si consuma nel rito dei tre biscotti.
Dicono sia una festa importante oggi. L’immacolata concezione. Un concetto astruso e complicatissimo. Da tempo ho deciso di non occuparmene. Se è immacolata va bene. Non sono più disposto a riparlare dei protovangeli che dicono altro, di esegesi che dimenticano Maria, di un mito nato quattro secoli dopo la morte di Cristo eccetera eccetera. Non è questo il punto. Almeno oggi. Ecco, comincio ad essere nervoso. Come al mio primo voto. Avevo diciannove anni. Il 1977. Ero indeciso: tra i radicali di Pannella e i comunisti di Berlinguer. Tra gli amici si discuteva serrato. Molti erano per Democrazia Proletaria. Troppo clamore, pensavo. Decisi, da solo, per Berlinguer. Perché a votare si va da soli. Con i propri pensieri. E le mani in tasca. E il cuore leggero. Poi uccisero la speranza, l’orrore delle brigate rosse, i compagni che sbagliano, gli errori dei socialisti, i tentennamenti di Berlinguer. La sua morte, a Padova. Le mie lacrime. Dense. Solo, a guardare la televisione un funerale che rappresentava la morte del mio ideale. Natta, Occhetto, la Bolognina. I tentennamenti. La scelta critica. La spaccatura. Rifondazione Comunista e poi l’analisi più concentrata, più forte. La decisione di stare dalla parte del torto, insieme ai ragazzi del Manifesto. Quel passaggio ai Ds, alla Margherita, Rutelli, Veltroni, Jovanotti e tutto si dipanava. Si ricercavano altre storie. Votavo con il cuore sempre più pesante, ma sempre da solo. Infine le primarie: la voglia di ricominciare, di essere qualcosa. Ero troppo adulto per emozionarmi. Ma i miei due euro erano sinceri. Loro no. Dopo i risultati hanno modificato tutto e inserito un socialista in lista, sicuro di essere eletto. Con il Porcellum. Un socialista. Ma dove diavolo lo hanno pescato, poi, un socialista nel 2013? Insomma. Tre biscotti non bastano e al diavolo la perfezione. Sono pronto. Giornata di festa. Ci sono i gazebo, i due euro da consegnare e scegliere il nuovo immacolato segretario del partito democratico.
Sono solo. Lo sono sempre quando soppeso le scelte. Quelle importanti. Ed oggi ritengo sia una giornata da ricordare. Vado ad incontrare il mare. Quello mio, quello vero, quello gonfio e dolce, quello che non mi ha mai tradito. E’ bello osservarlo dalla passeggiata di Alghero, accovacciato sugli scogli levigati, unici punti di riferimento della mia vita. Ci sono poche bancarelle e un ragazzo di colore vende calze e fazzolettini. Gli porgo due euro e lui è pronto a consegnarmi un pacco di fazzoletti. Che rifiuto. “E’ una cosa rivoluzionaria” gli dico salutandolo, “ho votato per te e sono felice”.
Lui mi guarda e saluta con un lieve sorriso. Il mare non si muove. Ma ascolta e, in un silenzio atroce, approva.
Buon voto a tutti. E buona fortuna. Ci serve. Come il mare. A stagliare la linea di un futuro troppo grigio e troppo lento. Io, continuo da solo. Almeno per oggi.
Non ho nessuna intenzione di discutere dei chilometri della Barracciu e neppure mi interessano le settanta pagine di argomentazioni presentate a sua difesa dagli avvocati al Procuratore della Repubblica. Piuttosto mi preme ribadire un piccolo concetto che passa quasi inosservato in questa palude dove tutti i politici si sono impantanati. Il concetto è piuttosto semplice: cosa facciamo con i fondi comuni, pubblici, di tutti? Abbiamo chiara la sfera privata, ovvero le cose "per noi", quelle non possono essere condivise con gli altri, (i politici, anche in questo caso, molte confusioni le fanno....) ma sul pubblico ci sono degli strani distinguo ai quali non intendo sottrarmi. Un dipendente pubblico quando va a lavorare utilizza il mezzo proprio, quando invece è in missione utilizza i mezzi pubblici e ha diritto al rimborso, oppure utilizza un mezzo dell'amministrazione e, in questo caso la benzina è a carico dell'ente pubblico. Distinguiamo subito i due binari. Si va a lavorare con i propri mezzi e si usano quelli dell'amministrazione solo ed esclusivamente per interessi propri dell'Amministrazione stessa. Ricapitolando: se io devo andare in aeroporto e recarmi a Roma per lavoro e la mia sede di servizio è Cagliari, il tragitto da Cagliari a Elmas mi deve essere rimborsato. Viceversa, se lo stesso tragitto lo devo effettuare per recarmi a Roma e trovare Zia Gavina, quello me lo devo pagare necessariamente di tasca mia, pur essendo un pubblico dipendente. Il fatto che questi onorevoli signori non riescano neppure a comprendere il significato elementare di leggi oramai ben conosciute da tutti è davvero sorprendente. La Barracciu racconta di aver utilizzato 33.000 euro (e non sono pochi) per spostarsi in Sardegna. Questi spostamenti, dice la Barracciu, sono legati a motivi di lavoro, riunioni, convegni, incontri con il partito, incontri con gli elettori. Permettete di non credere a questa ricostruzione, probabilmente migliore dell'acquisto di consolle Wii, ma terribilmente ipocrita. Infatti, l'Onorevole Barracciu dovrebbe dimostrare che quando le si muoveva (tutti i giorni, domenica compresa, macinava centinaia di chilometri) lo faceva per "servizio" e dovrebbe spiegare, a questo punto in cosa consiste il "servizio" di un deputato regionale. Ricordo di aver avuto con la Barracciu uno scambio di messaggi su Fb perché avevo stigmatizzato la sua brillante assenza dal Consiglio Regionale. Lei mi rispose che era impegnata nella campagna per le primarie (quelle della segretaria regionale) e riteneva quello un dovere politico superiore alla presenza in Consiglio, dove si sarebbe dovuta occupare delle cose di tutti. Certamente era un impegno, probabilmente proibitivo ma, lasciatemelo dire, era assolutamente privato e non pubblico. Le primarie sono un fatto altamente democratico, altamente interessante, ma relegate al proprio partito. Non si fanno rimborsare i chilometri per girare la Sardegna e sostenere un candidato alle primarie del suo partito. E' come prendere un taxi per recarsi all'aeroporto dove ci aspetta l'aereo che ci trasporterà a Roma, a trovare zia Gavina. Quel rimborso, per un dipendente pubblico è un reato. Si chiama peculato. Quando questi signori riusciranno a comprendere queste piccoli differenze potremmo sederci tranquillamente a discutere di altro. Un'ultima cosa. Magari il nostro Onorevole riuscirà a far passare i chilometri macinati in terra sarda come "lavoro utile" all'elettorato, ma non potrà presentarsi al cospetto dei suoi elettori convinta di averla fatta franca. L'etica ha il suo peso, come le bugie. Se proprio dobbiamo cominciare ad eliminare le tossine del Berlusconismo ecco, cominciamo con il non raccontare bugie. Sarebbe un buon inizio.
Sono quasi convinto che Dio abbia una tavolozza in grado di dipingere la pelle di tutti. Anche perché ha interessi diversi dagli uomini Dio. Non divide, per esempio, il mondo tra bianchi e neri. O gialli, verdi. No. Lui mischia divinamente le tempere, riesce a pasticciare le anime, a mescolare i contorni di tutte le esistenze. Ha le idee chiare, Dio. Non metterebbe in carcere, per esempio, un signore che si batte per la libertà contro la supremazia di una razza, qualsiasi razza, non permetterebbe, nella maniera più assoluta che nessun uomo di nessun colore possa essere buttato in una cella, in un’isola deserta, per ventisette anni. Dio, questo, non lo farebbe. Lo lascerebbe agli uomini che, per sfortuna hanno le idee piuttosto confuse sulla libertà sugli spazi e sul tempo. E sulla dignità. E certi uomini sanno essere terribilmente stupidi, cattivi, insipidi, cinici, ciechi, tanto da confondere i colori con le passioni, le razze con le intelligenze, i pensieri con le apparenze, le convinzioni con le ottusità.
Io conosco il carcere. E conosco il peso di ventisette anni di galera. Ho la consapevolezza del tempo che non scorre e della vita che si consuma senza sforzi. Lo so perché ci ho lavorato e ci lavoro. Perché quel tempo non ha scansioni, non ha termine. So anche che un uomo condannato all’ergastolo ha davanti un lungo calendario dove l’anno non cambia mai, dove non c’è quel dicembre liberatorio, quel dicembre che ci porta alle soglie del nuovo anno, alla speranza. Mandela, per ventisette anni ha contato e ricontato gli attimi, ha rendicontato la sua vita, ha scandagliato le sue parole e le sue convinzioni. Per ventisette anni ha provato a costruire il suo futuro da dentro un carcere, dalla cella 466. Non cerco la retorica dei gesti. Sarebbe semplice. Non ricerco le grandi parole o i magnifici ricordi. Sarebbe logico. Lui, Mandela è stato uomo ed è stato tempo, tavolozza di colori, intensità di sensazioni. Lui, Mandela è stato uomo. Soprattutto. Ha ricercato l’unione dove stagnava l’odio, ha cercato il confronto dove esisteva il contrasto. Mandela ci ha ricodato che occorre una visione, una certezza, una possibilità. Per ventisette anni ha osservato il sole nascere e morire. Lo ha osservato da una cella. In carcere. Per ventisette anni ha capito che il colore del sole è sempre giallo. Anche se visto da dietro una grata. Per ventisette anni ha atteso, ha rimescolato, ha pasticciato il futuro. Un po’ come Dio che si è divertito a costruire un mondo a colori e li ha usati tutti. Ciao Mandela, e scusaci per molte cose, per non aver compreso, per non aver ascoltato, per esserci voltati, come sempre, da altri parti. Però tu c’eri e solo oggi, che non ci sei più, ne sentiamo terribilmente la mancanza. La terra ti accarezzi e il sole ti riscaldi. Noi, proveremo a ripartire. Dai tuoi ricordi, da quei ventisette anni e dalla tua consapevolezza di provarci, sempre, a qualsiasi età. Preferisco un ciao ad un addio definitivo perché così rimani, con quel tuo sorriso e con quelle tue bellissime camicie colorate, vicino al mio orizzonte. Dove non potrai mai scomparire.
Cose vorticose che girano sopra l’orizzonte della sopportazione. Rumori duri, notizie senza colore. Lo sapevamo dei cinesi fantasmi, che non muoiono quasi mai e quel “quasi” ci ha trasportato alla ricerca di soluzioni che non esistono. Lo sapevamo degli uomini moderni, stolti e insopportabili, pronti solo a cementificare tutto, anche la loro vita. Non sapevamo, però che quegli uomini vestivano abiti gessati ed erano considerati i più eleganti tra i governatori. Non lo sapevamo e non capisco cosa ci abbiamo guadagnato a scoprirlo, di quanto siamo cresciuti dietro questa stupida notizia. Lo sapevamo che il PD è in agonia, la Baracciu con un rotolo di pizzini per giustificare le spese in nome del partito e sapevamo che c’erano dei soldi per giustificare queste spese. Ma non eravamo d’accordo. Lo avevamo detto e scritto e avevamo votato. Ma nelle vorticose cose che girano sui tavoli della politica tutto questo è sparito. Noi lo sapevamo di avere una classe politica analfabeta giuridicamente o, meglio, furbescamente dedicata all’errore, nella speranza che nessuno se ne accorgesse. Lo sapevamo dell’incostituzionalità di alcune leggi, meglio di molte leggi degli ultimi vent’anni. Ma abbiamo aspettato, abbiamo dovuto aspettare che fosse un giudice a ribadire un concetto semplice e basilare: la democrazia non si conquista senza il consenso e quel premio di maggioranza e quegli eletti senza nome erano l’esatto contrario della democrazia. Noi, tutto questo lo sapevamo. E sapevamo che il problema delle carceri non è il sovraffollamento ma l’incoscienza delle leggi che hanno stravolto il sistema penale e la politica penitenziaria, noi sapevamo tutto questo e lo abbiamo scritto, decantato, gridato quasi. Ma non è bastato. Questo è quello che ci resta. Cocci di incoscienza. Nonostante tutto, continuiamo ad esserci, in questo blog, nei giornali, nei giochi virtuali, nelle parole tra gli amici. Noi, ci siamo. E vogliamo esserci. E voi?
Io, a questa cosa di Michela Murgia contro il resto del mondo mica ci credo. Provo a spiegarmi. C’è sicuramente un sottobosco politico con pensieri cattivi, tipo favola del lupo e cappuccetto rosso dove tutti, travestiti da nonna, cercano di ammaliare chi, per la prima volta, se la tenta in politica. Perché così funziona. Ai tempi del PCI, per esempio, quando lavoravo in una radio privata si presentarono i dirigenti cittadini in pompa magna a preparare la “reclame” politica per le elezioni. Proposi come pezzo di sottofondo “Lady Writer” dei Dire Straits. Risposero piccati che la loro storia, la loro dignità, i loro programmi potevano sopportare solo l’internazionale. Ecco perché siamo qui a parlare. Per colpa di questi signori, dirigenti, intelligenti, furbi e preparati. Tanto preparati da riuscire quasi sempre a perdere. Anche perché non sanno contare e non sanno capire. L’Italia, in fondo è un grande zoo abitato da democristiani. Pensare di buttare a sinistra (quale sinistra, poi? Quella dell’Internazionale??) la balena spiaggiata è davvero impossibile. Quindi, i signori (chiamiamoli lupacchiotti che fanno più tenerezza) si sono presentati davvero all’uscio di Michela convinti che, in fondo, siamo tutti nella stessa barca, una mano lava l’altra, questo è tatticismo e c’è sempre tempo per i programmi e per i valori e hanno trovato la nostra Michela (e non pensiamo a Cappuccetto Rosso che è molto ma molto più intelligente e scaltra) con le parole giuste e forti per ricacciare i tattici, i cultori della melina, i professionisti del nulla verso i loro appiattiti lidi. L’Italia è un paese dove regna la trattativa perenne.
Oddio, adesso non posso credere che tutto il PD sia costruito in questo modo, ci mancherebbe. Parlo però delle menti pensanti, dei decisori, di chi ha la possibilità di dire ancora “ho un pacchetto di voti da spostare”. Perché così, soprattutto nel sud, si ragiona e trovare qualcuno (Michela, fa gola, ammettiamolo, raffigura il nuovo, il pulito, rappresenta qualcuno e qualcosa di interessante) con il quale trattare sottobanco è un modo come un altro per dire che così si fa politica. Sinceramente queste cose non le ho mai capite. Avevo quattro in matematica e mi sono fermato alle tabelline. Ho sempre guardato con molta diffidenza (e tristezza) i bravi argomentatori, quelli disponibili al dialogo, aperti alle trattative, pronti a parlarne. Questi signori si sono seduti in qualsiasi tavolo. Da quello sindacale (ricordo Spissu piccolo segretario provinciale della cgil) a quello comunale, regionale e poi nazionale. In fondo, tutti ragionano in questo modo e quando si trovano qualcuno davanti che prova a dire no allora tutto si esaurisce con “non fidatevi, è un’ingenuo, non sa fare politica”. Il problema è che la politica “non si fa” ma si vive quotidianamente. Spiegarlo a questi signori che ancora oggi debbono presentarsi davanti ad un giudice per giustificare gli scontrini delle pizze, dei pranzi, delle penne, acquistate con i soldi di tutti (e quindi della polis, della città-stato) è davvero arduo. La differenza sostanziale è tutta qui cari lupacchiotti: esiste un modo diverso di vedere le cose. E la politica non è quella cosa che pensate voi, non è quel mondo astrale in cui continuate a vivere. La politica siamo noi, Michela Murgia compresa (alla quale, in ogni caso, suggerisco di farli i nomi, così ci facciamo due risate). Non credo a Michela Murgia contro il resto del mondo perché il resto del mondo non ha la capacità di comprendere. Sono fermi all’internazionale mentre sul piatto girano i Dire straits (so che è tutto cambiato, ci sono gli mp3, i-tunes, io lo so, sono loro che non lo sanno…. Che diamine….)
Bisognerebbe chiedersi se i morti hanno pesi specifici diversi e, soprattutto, se le lacrime hanno raccordi fluviali sconosciuti. I nostri morti, quelli dell’ultima alluvione per intenderci, ce li portiamo dentro le nostre vite e ancora oggi continuiamo a camminare con la zavorra dei ricordi. Perché è giusto, perché è lecito, perché è accaduto davanti ai nostri occhi. Perché molti di noi avevano parenti, amici, conoscenti. Facevano parte, quei morti, del recinto del nostro ovile, dell’ombelico della nostra terra. Noi, per questo motivo, li abbiamo sentiti nostri e lo sentiremo per sempre. Bisognerebbe però ripensare alle cose e provare a cercare negli occhi degli altri il dolore che ci portiamo dentro le nostre tasche. Perché anche sette morti sono un terribile peso specifico. Quattordici occhi che non osservano più questo mondo, non si nutrono più di ossigeno, non sorridono, non abbracciano, non piangono. Poi, però, lentamente, quei morti, quei sette morti, camminano velocemente dalle voci principali delle news, cominciano a restringersi dentro i tagli bassi dei quotidiani e, tra qualche giorno, saranno solo un flebile ricordo. Anche per noi che conosciamo la pesantezza dei nostri morti. Il problema è legato essenzialmente alla conoscenza. Il “lontano” non ci riguarda, l’altrove è terra sconosciuta e se nelle Filippine ci sono duemila morti noi non riusciamo a soppesare quello strano peso specifico di quattromila occhi. Perché sono lontani e perché non hanno mai osservato la nostra terra. Ecco, quei sette morti bruciati, martoriati, consumati nella maniera più atroce e terribile sono cinesi. Quelli di Prato. Quasi invisibili, come sanno essere invisibili i cinesi. Con le loro stoffe, le tazze, quelle che noi chiamiamo ironicamente “cineserie”. E sappiamo che non è così. Però, quella acidità della sopravvivenza che a volte ci contraddistingue, quel cinismo stupido, quello scrollarci di spalle ci porta a dire: “Ecco, erano morti annunciate. Lavorano quindici ore al giorno, sono sfruttati, hanno rubato il lavoro ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figli. Se la sono cercata. Non conoscono le basi elementari sulla sicurezza Ognuno pianga i propri morti”. E, mentre lo diciamo, controlliamo un messaggio da un iphone, leggiamo dall’ipad, compriamo un giocattolo da Chicco e vestiamo il nostro bambino da Premaman. Tutti prodotti “made in China”. I morti, probabilmente hanno un peso specifico diverso e nella bilancia delle lacrime conta sicuramente la vicinanza alle persone. Vero. Però quei sette morti, quei cinesi, ci sono davanti per dirci che anche loro hanno diritto ad una dignità, ad un “onore delle armi” che noi, non riusciamo a dare perché preferiamo girarci dall’altra parte. E ci dovremmo semplicemente vergognare.