Questa lettera, di Michela Murgia (che trovate anche sul suo sito www.michelamurgia.com) è una risposta ad alcuni amici (me compreso) che hanno scritto alcune cose sulle primarie del PD. Come il grande alberto sordi (spaghetti, tu mi provochi e io ti mangio...) rispondo con molto affetto a Michela e anche a chi ha letto la mia nota precedente. Giusto per riflettere. La mia risposta si trova dopo la lettera di Michela.
Caro Giacomo,tra me e te il tema dell'indipendenza è aleggiato spesso. Tu ogni volta mi dici: “di questo prima o poi dovremmo parlare”. L'avarizia del tempo ci ha tolto il prima e il poi lo stiamo ancora aspettando; ma aspettare non si può davanti a quello che sta accadendo.
La situazione dell'isola la conosciamo: ci sono alcune realtà che resistono, ma molte altre stanno soccombendo senza che si veda un minimo segnale di ripresa. Il bisogno di riforme strutturali è alto quanto la rabbia della gente, ma la politica non ha saputo quasi mai dar risposte e oggi le persone hanno un così forte desiderio di credere che qualcosa possa cambiare che sono disposte a investire speranza anche dove non ci sarebbe nessun ragionevole motivo per farlo. È normale. Tutti abbiamo bisogno di credere in qualcosa di meglio, soprattutto io e te, che siamo abbastanza cresciuti da aver perso qualche illusione, ma ancora troppo giovani per arrenderci senza tentare di cambiare le condizioni che ci avviliscono. Eppure adesso tu sei mortificato. Scrivi che sei triste, che vedi intorno solo merda, e che per quanto uno (tu) “si sforzi di considerare i partiti come necessari alla salute della democrazia, finisce che non ce ne sia uno che sia uno, a chiudere la proverbiale porta.” Lo dici nei giorni in cui lo dicono in molti. Lo ha detto anche Giampaolo Cassitta ieri, scrivendo che “le favole, è vero, si raccontano ai piccoli. A noi è data solo la facoltà di riconoscerle. Ecco, sono stato un ingenuo. Ma la favola non mi è piaciuta per niente e voglio indietro i miei quattro euro.” Io vi leggo con affetto, amici miei, ma non posso fare a meno di chiedervi di cosa siete delusi. Certo, ieri era il giorno in cui la sinistra sarda, che vi ha portato entrambi alle sue primarie vendendovele come festa della democrazia, si è vista imporre dalla segreteria di Roma alcuni ripescaggi e un paio di impresentabili nomi esterni. Ma come può essere questo a deludervi? “L’appartenenza al partito italiano fa sì che la direzione romana possa imporre chiunque, e scegliere l’ordine di precedenza nelle liste. Una decisione che diventa insindacabile. Le organizzazioni vivono del rispetto delle gerarchie e agiscono di conseguenza”. Lo ha scritto stamattina il nostro amico Nicolò e io davvero non avrei saputo dirlo meglio. Quello che è accaduto era nell'ordine delle cose in cui vi siete riconosciuti. Ora vi sembra che la vostra prospettiva democratica sia stata avvilita, ma in effetti il PD ha fatto proprio quello che un partito italiano deve fare: ha considerato la Sardegna uguale al resto del territorio italiano e ha agito di conseguenza. E del resto, se la Sardegna è Italia, perché uno di Milano non dovrebbe poterla rappresentare quanto uno di Cagliari? Se Cossiga e Segni hanno potuto fare il presidente di tutti gli italiani, che c'è di strano se Bobo Craxi pensa di poter fare il deputato per tutti i sardi e se Francesco Sanna può essere trombato qui e ripescato a Roma? Non è la vostra squadra che ha infranto le regole: è il gioco che avete scelto che le impone, un gioco tutto italiano in cui ai sardi – meno del 3% dell'elettorato - tocca la maglia da mediano e al massimo dieci minuti di partita. Pensavate mica di decidere la formazione? O di negoziare gli schemi di gioco?
Non è cinismo il mio: constato semplicemente la contraddizione che c'è nel voler essere uguali agli italiani (stessi partiti, stessi mondi di riferimento, stesse speranze a cui dare due euro) e poi stupirvi se vi considerano tali, cioè parte di sé di cui disporre a piacimento secondo logiche costruite altrove. Finchè le scelte dei sardi esprimeranno un baricentro politico a Roma, non ci sarà nulla da scandalizzarsi se l'Italia ci detterà regole e interessi in proporzione a quanto conta per lei la Sardegna, percentuale che lascio desumere a voi dai fatti di questi giorni, se non proprio da quelli degli ultimi sessant'anni. Quando prenderemo tutti atto di questo, l'indipendenza ci apparirà esattamente per quello che è: una necessità storica non più rimandabile.
Non è quindi il momento della delusione, amico mio, amici miei, ma è quello del discernimento. Perciò non mi unirò al coro di chi oggi vi chiede stupidamente di uscire dal PD o da SEL appresso ai teatranti che stanno restituendo tessere e indignandosi perchè sono passati altri ascari al posto loro.Io non vi chiedo pelosamente di cambiare squadra.Vi chiedo invece di riflettere sulla possibilità reale di cambiare gioco, o almeno di provare a pensarci insieme.
la mia risposta:
Cara Michela,
rispondo alla bella provocazione apparsa oggi sul tuo sito e rimbalzata anche su Facebook nella quale ti stupisci del fatto che io, rispetto al gioco delle primarie del Partito Democratico in Sardegna , sono deluso.
E’ vero. Sono deluso (ma non perché credevo vivessi in una favola, figuriamoci) perché ci avevo messo un briciolo di passione e dovevo pur ricordarmi che la passione non concede – secondo Pasolini – il perdono, ma dovevo ricordarmi che l’èquità - per dirla con Kant – appartiene solo al Tribunale della coscienza, mentre all’opposto, ogni questione di Diritto propriamente detto, deve essere portata davanti al Tribunale Civile. E bene avrei fatto a capire che la coscienza, in politica, era merce rara.
Ora, non voglio discutere di autonomia e autonomismo della Sardegna né di quello che tu, giustamente, evidenzi: se apparteniamo all’Italia, il gioco è questo e ci può stare che in Sardegna possa gareggiare anche un “italiano” , così come è lecito che un “sardo possa diventare presidente della Repubblica o, meglio, segretario di un grande partito che fu fondato da un altro piccolo grande sardo. Tutto ci può stare. Ed è vero, così come scrivi, che noi rappresentiamo solo il 3% del potere politico in parlamento, proprio perché siamo pochi. Non è questo il punto (meglio, non lo era e non lo è per me). Penso a molti sardi che molto male ci rappresentano in Parlamento e penso anche a quelli che peggio ci rappresentano nelle istituzioni locali (per i nomi ho una lunga lista). Ma io sono una persona testarda e leale (dicono siano i sardi ad avere questa caratteristica ma, chiaramente, non sono d’accordo) e se mi dicono che ho solo dieci minuti di partita da giocare io in quei dieci minuti cerco di dare il meglio e passare la palla. Quindi, Michela, se è vero che il nostro ruolo era molto marginale (e lo sapevamo) quello che contesto è che anziché farmi giocare quei dieci minuti (e su questo c’era un accordo) rimango in panchina. Meglio, in tribuna. E ci può anche stare, ma non chiedetemi di non rilasciare poi velenose interviste sull’allenatore e sulle regole del gioco. Mi ha sempre accompagnato la passione nelle cose che faccio. Non ho mai avuto una tessera di partito. Ho scritto due libri nei quali ho raccontato un certo tipo di mondo, quello extraparlamentare di sinistra, quella follia creativa degli anni settanta che ho attraversato vivendo tutto con immensa densità. Adesso volevo solo immaginare, almeno per un attimo, che potessimo riuscire perlomeno ad essere uniti su delle scelte (tra l’altro i miei candidati le primarie le hanno perse, per dire) e speravo che Bersani si ricordasse che essere equi significa essere molto lontani dal pensiero del mio caro amico Cesare Beccaria: “ La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comando di alcuni pochi”. Ed invece queste sono state le primarie. Me ne dispiace. Ma sono indulgente. Per fortuna covo numerose altre passioni che mi regalano intensi colori e mantengono alta la mia curiosità. A cambiare gioco ci devo pensare.
Un abbraccio,
Giampaolo
Caro Giacomo,tra me e te il tema dell'indipendenza è aleggiato spesso. Tu ogni volta mi dici: “di questo prima o poi dovremmo parlare”. L'avarizia del tempo ci ha tolto il prima e il poi lo stiamo ancora aspettando; ma aspettare non si può davanti a quello che sta accadendo.
La situazione dell'isola la conosciamo: ci sono alcune realtà che resistono, ma molte altre stanno soccombendo senza che si veda un minimo segnale di ripresa. Il bisogno di riforme strutturali è alto quanto la rabbia della gente, ma la politica non ha saputo quasi mai dar risposte e oggi le persone hanno un così forte desiderio di credere che qualcosa possa cambiare che sono disposte a investire speranza anche dove non ci sarebbe nessun ragionevole motivo per farlo. È normale. Tutti abbiamo bisogno di credere in qualcosa di meglio, soprattutto io e te, che siamo abbastanza cresciuti da aver perso qualche illusione, ma ancora troppo giovani per arrenderci senza tentare di cambiare le condizioni che ci avviliscono. Eppure adesso tu sei mortificato. Scrivi che sei triste, che vedi intorno solo merda, e che per quanto uno (tu) “si sforzi di considerare i partiti come necessari alla salute della democrazia, finisce che non ce ne sia uno che sia uno, a chiudere la proverbiale porta.” Lo dici nei giorni in cui lo dicono in molti. Lo ha detto anche Giampaolo Cassitta ieri, scrivendo che “le favole, è vero, si raccontano ai piccoli. A noi è data solo la facoltà di riconoscerle. Ecco, sono stato un ingenuo. Ma la favola non mi è piaciuta per niente e voglio indietro i miei quattro euro.” Io vi leggo con affetto, amici miei, ma non posso fare a meno di chiedervi di cosa siete delusi. Certo, ieri era il giorno in cui la sinistra sarda, che vi ha portato entrambi alle sue primarie vendendovele come festa della democrazia, si è vista imporre dalla segreteria di Roma alcuni ripescaggi e un paio di impresentabili nomi esterni. Ma come può essere questo a deludervi? “L’appartenenza al partito italiano fa sì che la direzione romana possa imporre chiunque, e scegliere l’ordine di precedenza nelle liste. Una decisione che diventa insindacabile. Le organizzazioni vivono del rispetto delle gerarchie e agiscono di conseguenza”. Lo ha scritto stamattina il nostro amico Nicolò e io davvero non avrei saputo dirlo meglio. Quello che è accaduto era nell'ordine delle cose in cui vi siete riconosciuti. Ora vi sembra che la vostra prospettiva democratica sia stata avvilita, ma in effetti il PD ha fatto proprio quello che un partito italiano deve fare: ha considerato la Sardegna uguale al resto del territorio italiano e ha agito di conseguenza. E del resto, se la Sardegna è Italia, perché uno di Milano non dovrebbe poterla rappresentare quanto uno di Cagliari? Se Cossiga e Segni hanno potuto fare il presidente di tutti gli italiani, che c'è di strano se Bobo Craxi pensa di poter fare il deputato per tutti i sardi e se Francesco Sanna può essere trombato qui e ripescato a Roma? Non è la vostra squadra che ha infranto le regole: è il gioco che avete scelto che le impone, un gioco tutto italiano in cui ai sardi – meno del 3% dell'elettorato - tocca la maglia da mediano e al massimo dieci minuti di partita. Pensavate mica di decidere la formazione? O di negoziare gli schemi di gioco?
Non è cinismo il mio: constato semplicemente la contraddizione che c'è nel voler essere uguali agli italiani (stessi partiti, stessi mondi di riferimento, stesse speranze a cui dare due euro) e poi stupirvi se vi considerano tali, cioè parte di sé di cui disporre a piacimento secondo logiche costruite altrove. Finchè le scelte dei sardi esprimeranno un baricentro politico a Roma, non ci sarà nulla da scandalizzarsi se l'Italia ci detterà regole e interessi in proporzione a quanto conta per lei la Sardegna, percentuale che lascio desumere a voi dai fatti di questi giorni, se non proprio da quelli degli ultimi sessant'anni. Quando prenderemo tutti atto di questo, l'indipendenza ci apparirà esattamente per quello che è: una necessità storica non più rimandabile.
Non è quindi il momento della delusione, amico mio, amici miei, ma è quello del discernimento. Perciò non mi unirò al coro di chi oggi vi chiede stupidamente di uscire dal PD o da SEL appresso ai teatranti che stanno restituendo tessere e indignandosi perchè sono passati altri ascari al posto loro.Io non vi chiedo pelosamente di cambiare squadra.Vi chiedo invece di riflettere sulla possibilità reale di cambiare gioco, o almeno di provare a pensarci insieme.
la mia risposta:
Cara Michela,
rispondo alla bella provocazione apparsa oggi sul tuo sito e rimbalzata anche su Facebook nella quale ti stupisci del fatto che io, rispetto al gioco delle primarie del Partito Democratico in Sardegna , sono deluso.
E’ vero. Sono deluso (ma non perché credevo vivessi in una favola, figuriamoci) perché ci avevo messo un briciolo di passione e dovevo pur ricordarmi che la passione non concede – secondo Pasolini – il perdono, ma dovevo ricordarmi che l’èquità - per dirla con Kant – appartiene solo al Tribunale della coscienza, mentre all’opposto, ogni questione di Diritto propriamente detto, deve essere portata davanti al Tribunale Civile. E bene avrei fatto a capire che la coscienza, in politica, era merce rara.
Ora, non voglio discutere di autonomia e autonomismo della Sardegna né di quello che tu, giustamente, evidenzi: se apparteniamo all’Italia, il gioco è questo e ci può stare che in Sardegna possa gareggiare anche un “italiano” , così come è lecito che un “sardo possa diventare presidente della Repubblica o, meglio, segretario di un grande partito che fu fondato da un altro piccolo grande sardo. Tutto ci può stare. Ed è vero, così come scrivi, che noi rappresentiamo solo il 3% del potere politico in parlamento, proprio perché siamo pochi. Non è questo il punto (meglio, non lo era e non lo è per me). Penso a molti sardi che molto male ci rappresentano in Parlamento e penso anche a quelli che peggio ci rappresentano nelle istituzioni locali (per i nomi ho una lunga lista). Ma io sono una persona testarda e leale (dicono siano i sardi ad avere questa caratteristica ma, chiaramente, non sono d’accordo) e se mi dicono che ho solo dieci minuti di partita da giocare io in quei dieci minuti cerco di dare il meglio e passare la palla. Quindi, Michela, se è vero che il nostro ruolo era molto marginale (e lo sapevamo) quello che contesto è che anziché farmi giocare quei dieci minuti (e su questo c’era un accordo) rimango in panchina. Meglio, in tribuna. E ci può anche stare, ma non chiedetemi di non rilasciare poi velenose interviste sull’allenatore e sulle regole del gioco. Mi ha sempre accompagnato la passione nelle cose che faccio. Non ho mai avuto una tessera di partito. Ho scritto due libri nei quali ho raccontato un certo tipo di mondo, quello extraparlamentare di sinistra, quella follia creativa degli anni settanta che ho attraversato vivendo tutto con immensa densità. Adesso volevo solo immaginare, almeno per un attimo, che potessimo riuscire perlomeno ad essere uniti su delle scelte (tra l’altro i miei candidati le primarie le hanno perse, per dire) e speravo che Bersani si ricordasse che essere equi significa essere molto lontani dal pensiero del mio caro amico Cesare Beccaria: “ La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comando di alcuni pochi”. Ed invece queste sono state le primarie. Me ne dispiace. Ma sono indulgente. Per fortuna covo numerose altre passioni che mi regalano intensi colori e mantengono alta la mia curiosità. A cambiare gioco ci devo pensare.
Un abbraccio,
Giampaolo