Intervento effettuato al convegno “Verso una comunità relazionale” Università di Sassari, 10 ottobre 2013 – in occasione della settimana del benessere psicologico.
Ho sempre affermato che dal carcere prima o poi si esce ed è una delle poche certezze di un detenuto. Il problema è “come” uscire, quale è il grado di accompagnamento, cosa si può fare per combattere la recidiva.
Mi piace la parola riparare che ha come sinonimo quello di “rifugiarsi” ma anche “proteggersi”, difendersi, salvare e, soprattutto “rimediare”.
Quando ero piccolo, ai miei tempi andavano di moda le biciclette Graziella ed erano il nostro sinonimo di libertà. Quando si bucava – e nelle strade non asfaltate delle nostre periferie era facile – occorreva prendere i ferretti, levare la camera d’aria e, ai bordi della strada, provare a riparare la ruota. Lo si faceva con un’operazione attenta e meticolosa. Avevamo una scatola di latta dove vi erano delle sfere di copertone e dovevamo renderle abrasive o con della carta e, se non ce l’avevi, lo dovevi fare con delle pietre che sfregavi sulla sfera nera. La stessa operazione - con la pietra o con la carta - si doveva effettuare in prossimità del buco. Poi si spargeva il paraliquido, si aspettava qualche secondo e infine si incollava la sfera nera sopra la camera d’aria. Si stringeva con le dita e si attendeva, controllando che fosse ben aderente. Si prendeva la pompa nera e si gonfiava la camera d’aria. Se dal buco non fuoriusciva niente, la pezza era stata posta a regola d’arte. Si sgonfiava tutto e si rimetteva la camera all’interno della ruota. Si rigonfiava e si ripartiva verso quella libertà adolescenziale. Sino alla prossima foratura.
Racconto questa piccola storia perché oggi mi colpiscono due cose: la prima è che ai miei tempi avevamo un concetto di tempo molto più lento di quello odierno dettato dagli sms e dalle telefonate ansiogene dei genitori con l’unica e assillante domanda : “dove sei” e dall’altra – ed è la cosa che ci interessa stasera – è che prima si “aggiustavano le cose”. Oggi, se si rompe un microonde non lo portiamo da nessun tecnico. Ne acquistiamo un altro. Perché costa meno. Manca, nella nostra società odierna, una parola molto bella, antica, dal sapore del lavoro certosino, del sudore, dall’odore denso dell’olio dei motori. Una parola che era stata usata, guarda caso da uno dei più lucidi intellettuali del novecento. Pier paolo Pasolini usò, infatti, la parola “officina” per un periodico di letteratura. L’officina è il luogo dove tutto si plasma, si ripara, si rimodella, si rimedia. Non ci sono più le officine nel nostro paese e non c’è più la cultura del rimediare. Io penso si debba partire da qui se ha un senso pedagogico riparare, provare a recuperare senza dover buttare via il nostro utensile usato e, in alcuni casi logoro. Sugli uomini non si può mai dire “non c’è più niente da fare”. Ci sono degli stadi, dei momenti legati alle situazioni e che sono giusti, leciti. Ci sono i momenti dei carnefici e quelli delle vittime. Sono momenti distinti, forti, dove non è possibile dialogare e dove non possiamo neppure pensarvi. Occorre una elaborazione da una parte e voglia di rimettersi in gioco dall’altra. In fondo il carcere dovrebbe rappresentare un’opportunità: dovrebbe essere un’officina. La riparazione, dunque, deve partire dal carcere. Per farlo dobbiamo trovare operai che non si pongono inizialmente davanti al motore con scetticismo o con l’aria di non potercela fare o, peggio, di farcela sicuramente. Vi ricordo che se saltiamo le fasi per la riparazione della nostra camera d’aria il buco ricompare. Perché abbiamo velocizzato e abbiamo sbagliato. Dunque il tempo, la sedimentazione degli eventi e il mettersi davanti al motore con aria curiosa, quella di voler capire, comprendere. Mi piace ricordare un pezzo della grande scrittice Marguerite Yorcenair nel libro Alexis, che vi consiglio caldamente. E’ la storia tutta interiore di un musicista che scrive una lunga lettera alla moglie rivelando la sua omosessualità. E’ un libro del 1929 e quindi altamente rivoluzionario e, per di più, scritto da una donna. E’ un libro intimo, profondo, interiore, durissimo. Quella lettera è stata scritta con passione, in un’officina sporca, forse rumorosa. Il musicista alla fine dichiara alla moglie: “Non cerco il tuo perdono, ma la tua comprensione, perché non voglio essere giudicato, ma compreso”. Ecco, questo è il punto da cui dovremmo partire e nel nostro paese è difficile muoversi: comprendere e non perdonare. Non sono sinonimi. Rappresentano, a mio avviso, due modi di osservare le cose: Il primo è sicuramente legato alla sfera laica e il secondo a quella cristiana, meglio, cattolica. La confusione in Italia, nel corso degli anni, è sempre annodata a questo strano concetto: riparare, rieducare, si accosta sempre al verbo perdonare. E su questo errore abbiamo continuato e abbiamo costruito i nostri interventi. Ecco perché quando si parla di giustizia riparativa si pensa soprattutto al perdono della vittima e non alla comprensione dell’atto. Io non parlo della sospensione del processo e messa alla prova, lo hanno fatto altri meglio di me, intendo rivolgere il mio sguardo ad un luogo più oscuro, contorto, dove nessuno intende camminare. Per paura e per ribrezzo, certo. E perché si pensa che sia molto meglio buttare l’elettrodomestico e acquistarne uno nuovo. Parlo dei reati “cattivi”, quelli per i quali non è possibile la messa alla prova, l’affidamento in prova o la semilibertà. Almeno non da subito. Quei reati per i quali il carcere è quasi un abisso perenne, una sfida solitaria e dura: parlo di chi ha commesso delle violenze sulle persone, donne, bambini, uomini. Parlo di omicidio, di sfruttamento della prostituzione, parlo di reati per i quali il carcere è, tutto sommato l’unica risposta. Ma non è e non può essere l’ultima risposta. Il carcere dunque non può essere il cimitero degli elettrodomestici, non può diventare ammasso di ruggine. Anche perché stiamo parlando di uomini che, seppure non riparati, prima o poi da quel carcere escono.
Noi dobbiamo quindi comprendere quell’uomo e per farlo dobbiamo, assolutamente, cominciare a inquadrarlo nel suo mondo, nel suo campo, nella sua Gestalt, capire quali sono stati i suoi movimenti, il suo modo di acquisire informazioni, della sua capacità di elaborarle.
Il lavoro dell’operaio nell’officina degli uomini deve partire assolutamente da questo concetto: la ricerca di una nuova responsabilizzazione attraverso l’analisi delle scelte precedenti. Nella metafora dell’officina dobbiamo rammentare che quell’auto è stata precedentemente disegnata, provata e usata in altri momenti. Ci sono stati altri che ne hanno criticato le caratteristiche dopo una seria analisi. E quell’auto è stata condannata dal mercato e dagli acquirenti perché aveva dei difetti. Non sta all’officina rigiudicare, rimettere in discussione il percorso dell’auto. Sta all’officina comprendere perché ci sono stati quei difetti, perché non si è tenuto conto di alcune situazioni. Perché, in fondo, se ci fate caso – e continuo con la stessa metafora – quando un ingegnere disegna la sua auto, il suo progetto, sulla carta è perfetto. Il problema è quando si affronta la strada. Per gli uomini è la stessa cosa: il problema è quando si affrontano gli altri, la strada e le curve della vita.
Un grande allenatore di calcio rispose così alla domanda provocatoria del giornalista sul perché la sua squadra avesse perso e non sembrava fosse messa bene in campo: “Vede”, rispose l’allenatore. “Io ho messo benissimo la squadra in campo, erano perfetti. Difensori, centrocampisti e attaccanti. Poi come ha fischiato l’arbitro tutti si sono mossi e quei movimenti sono sempre diversi. Ogni volta diversi.”
Il nostro problema, di chi vive in carcere e di chi opera in carcere, è comprendere quell’uomo e come si è mosso in campo, provare a costruire con lui un percorso diverso, provare ad affrontare le curve con meno forza, con più calma. Per farlo ci vuole tempo, come il ragazzo adolescente che ripara la ruota. Ci vuole tempo e ci vogliono i momenti adatti. Vi è una fase di conoscenza dove gli operatori cominciano il percorso insieme a quell’individuo. Vi è poi una fase di studio, importantissima, dove insieme a lui si deve operare un’analisi di quegli attimi che hanno determinato il black-out: quindi il delitto, la sentenza, la condanna. Vi è poi la fase della comprensione della pena. Perché la pena – e sto parlando degli orrendi reati – va innanzi tutto compresa da chi la subisce. Deve essere chiaro il concetto laico di “espiazione” da non confondere con quello cattolico, percorribile solo nella fase intima e personalissima. Chi commette un reato, un grave reato, deve comprendere che ha commesso un errore, un grave errore, deve comprendere che non può più camminare, correre. Ha forato. La sua ruota deve essere riparata e deve recarsi in officina.
Detto questo però è molto difficile – ed è la fase in cui ci troviamo molte volte con alcuni detenuti – far comprendere a quell’uomo che, nonostante siamo riusciti a riparare la ruota egli non può tornare in pista, non può, nonostante tutto continuare a correre. Perché gli altri non si fidano di lui. Perché ha bucato una volta, ha sbandato, è caduto e nell’incidente ha coinvolto altre persone e potrebbe rifarlo. Questo è il passaggio più delicato e complesso che hanno gli operai dell’officina. Sono davanti ad un oggetto riparato che nessuno vuole. Perché nessuno si fida più di quell’oggetto. Dicendo questo, però, significa che non ci si fida neppure di quell’officina e di quegli operai.
Penso, invece, che intorno alla giustizia riparativa si debba fortemente scommettere e si debba scommettere “mettendo alla prova” il condannato con una lunga pena da fare. Non penso all’incontro con la vittima, alla ricostruzione della normalità. Penso ad una fase precedente, ad un dover cominciare a “restituire” in termini sociali il danno provocato agli altri. Credo non possiamo lasciarci sfuggire questa opportunità, questa scommessa probabilmente spuria, probabilmente non ancora “matura” e chiara, ma che si nasconde nella nuova riformulazione dell’ articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario. (Legge 354/75) Il legislatore, con un certo ritardo e, diciamolo, con poco coraggio, afferma però un nuovo principio, assolutamente rivoluzionario e che prima non era contemplato: i detenuti, recita il comma 4 ter del nuovo articolo 21 di norma possono essere assegnati a prestare la propria attivita' a titolo volontario e gratuito, tenendo conto anche delle loro specifiche professionalita' e attitudini lavorative, nell'esecuzione di progetti di pubblica utilita' in favore della collettivita' da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunita' montane, le unioni di comuni, le aziende sanitarie locali o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. I detenuti e gli internati possono essere inoltre assegnati a prestare la propria attivita' a titolo volontario e gratuito a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi.
Ecco, per la prima volta, in Italia si parla di prestare attività lavorativa a titolo volontario e gratuito a favore della collettività. Nella prima parte si concretizza quel percorso che a volte, in carcere, risultava monco. Il detenuto era pronto ma “fuori”, all’esterno non vi era nessuno in grado di aiutarlo, di prenderlo in carico. La possibilità di continuare ad espiare la pena fuori dal carcere “gratuitamente” è un passaggio importante. Un po’ come il vecchio rodaggio che si doveva fare per le nuove automobili. Anche adesso funziona in questo modo: ho riparato il guasto ma occorre non essere troppo veloci. Bisogna stare attenti. Dopo una delicata operazione deve seguire sempre una forma di convalescenza. Ecco, in quel periodo, la prova è dettata da una consapevolezza laica dell’errore. Quella consapevolezza è dettata dall’impegno gratuito a favore della collettività e quindi di tutti, non solo delle vittime, proprio perché il reato ha rotto il patto con tutta la collettività e con loro occorre ristabilire e riformulare quel patto.
Vi è poi il passaggio finale legato al sostegno delle vittime dei reati che andrebbe discusso e approfondito. Anche in questo caso stiamo lavorando per la riparazione.
Tutto il processo del carcere deve dunque essere proteso a questo: ristabilire un contatto con l’esterno attraverso un nuovo modo di inserimento. Non più il lavoro come unica soluzione per la riabilitazione e l’inclusione sociale legata al singolo individuo, ma la riparazione, il lavoro utile agli altri, attraverso nuovi moduli di intervento che pongano quel detenuto, i suoi errori , sotto una nuova luce.
Diceva Don Milani: “ Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ”Me ne importa, mi sta a cuore” .L’esatto contrario del “me ne frego”. Oggi, possiamo aggiungere che oltre ad importacene, occorre agire, affinché si riproponga il patto tra il detenuto e la comunità, affinché il detenuto possa comprendere il suo errore e ripararlo. Fare volontariato significa occuparsi dell’altro. Deve essere dunque un dare e avere reciproco. Ho sempre pensato che in ogni parte del mondo esiste la linea dell’orizzonte che delimita e limita il nostro agire. Quella linea è uguale per tutti ma alcuni la interpretano in maniera diversa. Dobbiamo, probabilmente provare a disegnarla insieme e, probabilmente ridisegnarla. Ecco perché mi piace la parola riparare: perché sa guardare al futuro con la saggezza del passato. Io, su questa parola ci scommetterei perché dal carcere, prima o poi si esce e si ritorna a correre nella strada che è di tutti.
giampaolo Cassitta. sassari, 10 ottobre 2013