Anche io , come racconta Marcello Fois, sono cresciuto in una famiglia che voleva i figli “studiati”. Mio padre, operaio, con occhi densi di sudore, ci teneva a poter dire di avere un figlio “dottore”. Sarà per questo, probabilmente, che dopo la sua morte, avvenuta quando io avevo solo tre anni, che mia madre mi ha “ammaestrato” alla scuola. S’iscola, era per me un luogo bellissimo perché potevo incontrare altri bambini con i quali si continuava a giocare anche la sera, per strada, perché le automobili non avevano ancora acquistato tutti gli spazi. La mia scuola, a differenza di quella di Marcello Fois, era comodissima da raggiungere, praticamente davanti casa e il mio mondo era la tivù dei ragazzi ma, soprattutto, l’Odissea, lo sceneggiato originale, in bianco e nero, che veniva trasmessa la domenica dopo Carosello. Anche nel mio caso, nessuno mi aiutava a svolgere i compiti. Mia madre aveva frequentato le scuole elementari negli anni del fascismo ed era bravissima solo in matematica. Il mio esatto contrario. Avevo una nonna appena scolarizzata e un nonno analfabeta da parte di madre e una nonna analfabeta da parte di padre. Avere un “fizu duttore” rappresentava, per loro, il salto di qualità, il poter dire, a tutti, di essere entrato nella porta giusta della vita. Io amavo molto quel mondo colorato in maniera diversa. Perché, a differenza di Marcello Fois io non parlavo il sardo ma mi cospargevo di tanti “sardi” e di molte “sardità”. Mio padre gallurese e mia madre logudorese avevano deciso che i figli avrebbero parlato l’italiano. Erano gli anni sessanta, quelli della “modernidade” e parlare la lingua dello Stato rappresentava un primo passo verso l’emancipazione. Io sono cresciuto ascoltando i miei nonni che parlavano il logudorese con mamma. Mio nonno, inoltre, parente lontano del Cubeddu poeta, mi insegnava il sassarese e alcune poesie in logudorese. D’estate, invece, trascorrevo le vacanze negli stazzi galluresi e mia nonna paterna parlava solo quella lingua. Poi, rientravo ad Alghero dove, con gli amici parlavo il catalano. La mia adolescenza è stata costruita tra l’italiano, il logudorese, il gallurese e l’algherese. Ci ho scritto pure qualche poesia in sardo e in algherese. Continuavo a studiare in italiano e ho amato la Deledda, Satta, Dumas, Salgari. Ho letto molto in quegli anni e ho scoperto che la lingua era uno strumento per comprendere ma dovevi saperla dosare. Ho, nel mio personale cassetto di parole, locuzioni e modi di dire in diverse lingue e li uso “alla bisogna” o quando mi trovo nei contesti giusti. Perché la “visione del mondo” non è solo ed esclusivamente sapere le cose e saperle bene. La visione del mondo è comprendere i diversi mondi e i diversi modi di vivere e di vedere le cose. Io continuo, da “studiato” a leggere, ad avere un consistente patrimonio di libri, ad amare i racconti e i romanzi, ma capisco che tutto il nostro patrimonio genetico culturale è frutto di molte stratificazioni. Non basta la letteratura, serve anche l’antropologia. E’ vero, come sostiene Marcello Fois che siamo stati figli “di una generazione che aveva più paura dell’ignoranza che della scuola” ma è anche vero che siamo cresciuti con una moltitudine di colori e di suoni che oggi, nel mondo veloce di internet, non ci sono più. Mi fa paura quando sento qualcuno che vuole “obbligare”, per legge, l’insegnamento del sardo nelle scuole. E’ come un trapianto di un arto in un essere invertebrato. Non funziona. Dovremmo, se ancora ci riusciamo, provare a parlare, naturalmente, ai nostri nipoti l’italiano e il sardo. Non significa riportare al gregge il proprio cucciolo, ci mancherebbe. Significa, invece raccontare che esistono lingue e modi di dire a volte intraducibili e rappresentano la nostra identità. Non dobbiamo avere paura del nostro passato e non dobbiamo avere paura di poter costruire un futuro con le vecchie parole dei nonni. Che sono modi di dire e modi di vivere. Io penso e scrivo in italiano. Ma quando sorrido, mi indigno, o scruto l’orizzonte lo faccio in sardo. Con quale sardo dipende dall’orizzonte che ho davanti. E mi piace, naufragare in questi “sardi”.
Caro Giampaolo, con questo mi hai davvero conquistata! Nonostante siamo cresciuti in "mondi" diversi, pur se nello stesso periodo storico, non immagini quante cose in comune abbiamo. L'amore per la scuola, per il "conoscere" in genere, lo scambio culturale e non con gli amici e poi quello scoprire e riscoprire una lingua o un dialetto che esprimono spesso molto meglio il concetto. mi sono innamorata della Sardegna leggendo la Deledda e sono arrivata nell'isola molti anni dopo. adoro sentir parlare "in limba" e all'inizio sono riuscita a cominciare a capirla grazie alle poche nozioni di latino che ricordavo.
Amo quest'isola. Me la sento cucita addosso e anche se ho altrove le mie radici biologiche e molti affetti non riesco a pensare di andare via. condivido che naufragare in questi "sardi" è semplicemente meraviglioso!! GRAZIE!!
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roberto bolognesi
26/1/2014 05:22:16 am
Bellissimo, ma vorrei chiederti: pensi che anche l'insegnamento della matematica, dell'inglese, della geografia, e del resto, debba essere facoltativo? Sei contro la scuola dell'obbligo? Pensi che spetti a un bambino decidere cosa imparare? O per te è solo mil sardo/gallurese-sassarese/algherese/tabarchino che deve essere facoltativo? E se si, perché? (RB)
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giampaolo
26/1/2014 05:22:55 am
Dico solo che per legge, obbligatoriamente, non funzionerebbe perché tutti lo prenderebbero sotto gamba, e alla fine ho il terrore, insegnerebbero non il sardo ma il folklore, i modi di dire, le scemzenzuole. Partirei dal basso. Ho un nipotino i cui genitori e i nonni parlano in castellanese (altra lingua sarda...) e all’asilo e con gli amici parla in italiano. Capisce entrambe le lingue. Il problema è nei luoghi di frontiera, ed oggi insegnare una lingua diventa difficile: ad Alghero, per esempio, ci sono molti villanovesi, olmedesi ittiresi che parlano il logudorese. Che lingua insegniamo, per legge, a scuola ad Alghero? E’ un discorso complesso, capisco e comprendo l’intensità della tua domanda. Dovremmo però cominciare ad insegnare l’identità ai sardi e ad amare i propri luoghi. Parlare in sardo non è un tabù, obbligare a studiarlo può diventarlo. Dovremmo discuterne, seriamente, senza steccati. (gpc)
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anna tanda
26/1/2014 05:23:39 am
Io ho parlato in italiano a mia figlia solo finchè non è andata all'asilo. Poi ha voluto parlare in tedesco come tutti gli altri. I miei tre figli capiscono l'italiano, la grande lo parla meglio perchè l'ha voluto studiare anche a scuola. Del sardo conoscono le espressioni che mi sfuggono a volte ma amano la Sardegna come fosse casa loro. Vivono in Baviera dove si parla anche il dialetto bavarese, ma non a scuola, anche se adesso non si vergogna più nessuno se gli scappa un'espressione dialettale. Il loro padre viene dalla Renania, e a casa si parla hoch deutsch. Imparano a scuola l'inglese e il francese. E sanno riconoscere un americano da un australiano e un australiano da un londinese. Mia figlia ora studia anche lo spagnolo. Il mondo è piccolo e coloratissmo. E si impara tutto per amore, ma niente per forza.