Ho raccolto quegli occhi e me li sono portati a casa. Così. Perché avevo la necessità di trovarmeli davanti ancora per qualche giorno. Quegli occhi aperti e quelle urla che non si sentono più. Che non abbiamo sentito. E non siamo riusciti a pennellare nessun disegno chiaro e risoluto. Non siamo riusciti a trovare i colori e le sensazioni. Non siamo riusciti a reperire, tra le migliaia di parole, un senso al vuoto, alla sospensione terribile della vita, a quei corpi inermi e innocenti che ci facevano sentire tutti colpevoli. Perché di questo si tratta: di dover discutere della nostra linea di demarcazione, del nostro vivere con gli altri e per gli altri. Perché tutto ci sembra facile e facilmente rilevabile: abbiamo un metro per ogni lacrima, abbiamo un abbraccio per ogni gatto, cane, bambino, margherita. Abbiamo la grande capacità di commuoverci e lo facciamo spesso. Tranne quando gli altri ce lo chiedono. Quegli altri così lontani, così diversi, così piccoli e infinitesimali. Così altri. Perché abbiamo bilance terribili per pesare le culture. Misuriamo il colore della pelle, il modo di vestire, di cantare, valutiamo la bellezza. Non sappiamo comprendere l’anima e il soffio delle passioni, della vita che scorre tra le vene degli uomini. Di tutti gli uomini. Pensiamo sempre di essere nel giusto, di essere nati nel posto giusto. Come se l’avessimo scelto noi. Crediamo di essere padroni a casa nostra, come se fosse facile capire cosa sia, veramente la casa, cosa sia veramente la terra e la vita. Come se fosse facile mettere i confini al mare, al cielo e alla vita. E noi, sardi e figli di emigranti e migranti e di uomini e donne con il cuore gonfio di sofferenza e di bellezza, noi che appendiamo lacrime e le chiamiamo stelle, noi che abbiamo la forza e la disperazione di comprendere cosa sia una barca e quanta acqua si deve bere quando si cavalca il mare e quell’abbraccio lo conosciamo e sappiamo che può essere mortale, noi che abbiamo nonni e zii e nipoti e figli partiti verso altre terre e altre stelle, a mangiare polvere diversa.
Noi, come possiamo affermare con terribile certezza di non essere fratelli, di non essere insieme, in mezzo a quegli occhi aperti. Come possiamo non sentire quelle urla lontane e terribilmente intrise del nostro sangue? Perché da ogni parte del mondo si ricerca la dignità e non si fugge dalla propria terra se non per disperazione. Noi, questo, almeno questo lo sappiamo. Quegli occhi che ho raccolto a Lampedusa e dintorni sono gli stessi di mio zio Nino, di Zio Vittorio, di mio nonno, di zio Tonino, di chi ha scrutato la Sardegna dalla parte delle radici e ne ha messo un pezzetto nel suo zaino. Ed è andato. Perché si doveva andare. Non alla ricerca di una terra, quella tutti ce l’abbiamo ben tatuata nella nostra anima, ma alla ricerca di una possibilità, allacciati alla probabilità di un domani con colori più tenui e vicini ai nostri cuori. Poi, dagli scogli della vita, da lontano, i nostri zii, nonni, i nostri parenti, il nostro sangue, ha scrutato l’orizzonte e ha segnato la lontananza dalle proprie radici. E ha pianto. Delle stesse lacrime di chi, oggi, da quell’altro lontano ha visto i corpi dei propri nonni, zii, nipoti, i loro parenti non riuscire ad aggrapparsi alla vita. Ho raccolto quegli occhi e son diventati il mio silenzio. Il mio sguardo opaco verso un mondo che si volta dall’altra parte e fa finta di credere sia tutta un’altra storia. Ed invece, a Lampedusa, nelle Lampeduse infinite del mondo si è consumata un’altra tragedia: la nostra.
Noi, come possiamo affermare con terribile certezza di non essere fratelli, di non essere insieme, in mezzo a quegli occhi aperti. Come possiamo non sentire quelle urla lontane e terribilmente intrise del nostro sangue? Perché da ogni parte del mondo si ricerca la dignità e non si fugge dalla propria terra se non per disperazione. Noi, questo, almeno questo lo sappiamo. Quegli occhi che ho raccolto a Lampedusa e dintorni sono gli stessi di mio zio Nino, di Zio Vittorio, di mio nonno, di zio Tonino, di chi ha scrutato la Sardegna dalla parte delle radici e ne ha messo un pezzetto nel suo zaino. Ed è andato. Perché si doveva andare. Non alla ricerca di una terra, quella tutti ce l’abbiamo ben tatuata nella nostra anima, ma alla ricerca di una possibilità, allacciati alla probabilità di un domani con colori più tenui e vicini ai nostri cuori. Poi, dagli scogli della vita, da lontano, i nostri zii, nonni, i nostri parenti, il nostro sangue, ha scrutato l’orizzonte e ha segnato la lontananza dalle proprie radici. E ha pianto. Delle stesse lacrime di chi, oggi, da quell’altro lontano ha visto i corpi dei propri nonni, zii, nipoti, i loro parenti non riuscire ad aggrapparsi alla vita. Ho raccolto quegli occhi e son diventati il mio silenzio. Il mio sguardo opaco verso un mondo che si volta dall’altra parte e fa finta di credere sia tutta un’altra storia. Ed invece, a Lampedusa, nelle Lampeduse infinite del mondo si è consumata un’altra tragedia: la nostra.