Ho controllato lentamente le parole da mettermi per questa nuova giornata. Non è facile riuscire a trovare le soluzioni per tutti. Ho salutato la famiglia. Forse frettolosamente. Come frettolosamente leggo il giornale. A volte solo i titoli perché certe storie non mi interessano più, le sento lontane, sorpassate, non le sento mie. Ho messo in moto senza neppure sentire il rumore del motore. Non mi emoziono più neppure a guidare e distrattamente controllo la strada, le curve, le salite, la noia che mi assale. Poi lo smartphone, il nuovo giocattolo da manipolare: scorrere nella home di facebook, augurare a qualcuno buon compleanno. Augurarlo a gente che non si conosce. Così, perché vai dove ti porta la normalità. Quella che credi normalità, fatta di freddi silenzi luccicanti. Il lavoro, i colleghi, un altro sguardo a facebook, qualche mail in rapida lettura. Pausa pranzo. Stessa gente, stesse cose. Ma non ti lamenti. La fuori c’è gente che queste “solite cose” non le ha, non perché ha un atteggiamento snob. Semplicemente perché non le può avere. Noi scrutiamo questo orizzonte nodoso, fatto di parole e sospiri e ci infiliamo, tutti i giorni, in questo immenso foglio bianco da riempire con schizzi e discorsi. E con qualche scarabocchio. Solo allora mi fermo e rifletto. Solo allora provo a pitturare gli sguardi di nuovi colori. E’ un attimo. Mi chiedo: perché dobbiamo giocarcela tutti i giorni questa partita truccata, con arbitri falsi e disonesti, con guardie che sono ladri e viceversa, con silenzi e con ingiustizie? Mi dite per quale strano motivo sono qui a provare e riprovare, a battere e levare, a imprimere e nascondere? Semplicemente perché ci sono persone che ci osservano anche quando non le vediamo, perché i nostri gesti riempiono i vuoti di molti altri simili, perché un sorriso o un urlo rappresentano tutto ciò che il cuore non dice. Ma sente. E’ quel sentire che ci porta a girare pagina. Giorno dopo giorno. Attimo dopo attimo. Fino al prossimo impulso.
Quelli di Sardegna Blogger mi hanno chiesto di commentare la partita Spagna Olanda. Mi hanno pregato inoltre di spiegare come si vive la partita attimo per attimo dentro la cella di un carcere. Ho detto si. Consapevole di essere uno spergiuro e quindi di non poter dire mai la verità. Ho attesto che l’Olanda con Robben firmasse il quinto gol e ho deciso di provare a dirvi quello che penso. Il pallone non è rotondo, ma ha trovato giustizia. Certo, dopo quattro anni ma con gli interessi. Quell’Olanda eterna seconda si è presa il gusto di umiliare i campioni del mondo come mai era accaduto. Il mio compagno di cella era per gli spagnoli. Io, come sempre, per chi vince. Annuso l’aria e osservo gli occhi. Poi non mi faccio fregare al primo gol. Che era della Spagna. Ho capito, fin da subito, che non c’era la squadra, non c’era il tiki taka, non c’era Iniesta, Xavi, non c’era la squadra. Il mio compagno, rapinatore solitario, mi ha detto, fin da subito, che le furie rosse vincono con calma. Son diventate più rosse e meno furie. Chissà. Ai passeggi, stamattina si accettavano le scommesse. La Spagna era favorita. Quando Xavi ha segnato il rigore ho pensato che avrebbero perso. Facile dirlo adesso. Certo. Sono furbo. Questo l’ho sempre saputo. Tre rapine commesse e solo una pagata. Un buon ritmo. Per dire. In carcere, il pallone è la metafora della vita. Provo a spiegarlo. Mi chiamano il professore. Perché avevo un certo portamento nelle parole anche quando compivo le rapine. E davanti ai ragionieri impauriti mi scusavo. Avevo letto Brecht e ero profondamente convinto che i veri rapinatori erano i banchieri, mica i poveri bancari. Mai sparato un colpo. Mai. Ho visto la Spagna squagliarsi davanti ad una squadra allegra, felice. L’Olanda arriverà anche alla finale e la perderà. Un pò come la mia vita. Sono giunto alla rapina più bella e proprio quella mi andò male. Quindici anni. Non si può perdere cinque a uno e rischiare il sesto e il settimo e sbagliare vergognosamente con il Nino almeno il secondo gol. Non si può. Questa è la vita. Ho scommesso stamattina due pacchetti di sigarette sulla Spagna. Le ho perse. Ma scommettere non significa tifare. Stasera ho scoperto che il calcio non è mai banale. Non poteva finire in quel modo. Eppure è finita. Ho detto le stesse parole quando Marta mi ha lasciato. Mi ha segnato troppi gol e io come uno stupido, aspettavo di poter vincere. Non mi ero reso conto che i piccoli passaggi, a volte, non regalano ampie soluzioni, ma solo piccole opportunità. E ho perso. Come la Spagna. Quelli di Sardegna Blogger chiedevano una mia cronaca sulla partita. Forse non ci sono riuscito. Il carcere, a volte, complica le cose. Domani, però tiferò da questa galera del Veneto quella pazza e incredibile Italia.
Un giorno mi chiesero: “Ma perché amiamo il calcio, quei giovani viziati che corrono intorno ad un pallone?” La domanda, posta in questi termini, era sbagliata. Il gioco del calcio non si ama solo per questo, ma è anche questo. Potevo rispondere “perché la palla è rotonda” oppure “perché vince sempre la passione” o, ancora, “perché vince chi osa”. Risposi più prosaicamente con un semplice: “perché non è mai banale”. Ne sono ancora convinto. Anche il più piccolo passaggio, il più semplice dei gol non è mai banale. neppure quello a porta vuota perché qualcuno ha lavorato, giocato, provato a spostare l’ultimo baluardo del fortino della squadra avversaria: il portiere. Quello con la sua solitudine, quello che guarda tutto da lontano, con un orizzonte piatto, dove non è possibile gioire o disperarsi. E’ l’unico che si compiace quando il suo compagno dall’altra parte della porta soccombe. Il calcio è un gioco da osservare con attenzione. Perché ci avvicina alla vita e ci porta a essere d’accordo con qualcuno, sperare in qualcun altro, pregare, urlare e vaffanculare tutti, arbitro compreso. Io non so perché si continua a guardare la partita di calcio. E’ una cosa imperfetta, paradossale, non si ripeterà mai nello stesso modo, anche se sul campo ci saranno gli stessi uomini. Ci piace come ci piace una canzone, un cantante, un film, un’idea politica. Poi c’è anche il tifo, quello legato alla propria squadra, al proprio idolo. Il calcio divide come divide la vita, è veloce come i passi che mettiamo sulla terra, è inutilmente leggero, ma vedere uno slalom di Maradona, l’urlo di Tardelli, quelle mani verso il cielo di Berlino di Grosso, quel pallone calciato verso un altro cielo da Roberto Baggio che non è mai ritornato sulla terra, quella notte epica di Italia Germania 4 a 3 ci rasserena l’anima. Io non so perché mi piace il calcio. Forse perché ci sentiamo sempre un po’ bambini quelli che quando giocano lo fanno sempre molto seriamente e non sono mai banali. Almeno loro. Buon mondiale a tutti. Vivetelo con leggerezza. Perché il calcio è così: una parentesi colorata in molte giornate in bianco e nero.
Ho deciso di tifare Brasile. Mica devo essere sfigato anche nel calcio. IL mio compagno, diciamo d’avventura, tifa i croati, quelli a scacchi, che solo per la maglietta strana manco morto li avrei tifati. Vabbeh, il gusto di perdere il mio compagno ce l’ha. L’hanno preso mentre faveva il palo ad un furto anche facile. Lui stava andando via frusciando tranquillo e invece, la sfiga lo perseguita: e non c’era un maresciallo che passava per caso da quelle parti? Dentro, senza manco una prova. Allora ha detto che tifa solo squadre sfigate che magari vincono. Eh... gli ho detto, allora ne vinci di mondiale. A lui però non interessa vincere. A uno che fa il palo in un furto cosa possiamo chiedere? Mi sono acceso una sigaretta perché la partita comincia. Faccio sempre così quando inizio una competizione. Anche a casa, quando mi capita di essere a casa. Ho visto il mondiale del 98, quello vinto dalla Francia in un carcere della Liguria. Avevo deciso di tifare Brasile e non è andata molto bene. Quello del 2006, vinto dall’Italia mi ero fissato con la Francia e ho pagato due stecche di Marlbor ad un marocchino che tifava Italia. Odiava i francesi e odiava Zidane. Per me, invece, Zidane era il calcio. Nel 2006 ero in galera nel Lazio. Tutti tifosi dell’Italia, tranne io e il serpichino, uno stronzo napoletano che tifava Argentina perché lui tifa solo Argentina, perché Maradona, per lui continuava a giocare. per sempre. Gli ultimi mondiali li ho visti a casa. La mia donna era sempre incazzata perché mi ero fissato con le squadre e tifavo l’Olanda. Poi hanno vinto gli spagnoli. Che mi sono anche simpatici, ma una volta avevo un compagno in cella. Uno spagnolo che rubava le sigarette e voleva vedere solo telenovelas. Adesso con il mio amico che si chiama Franchino, lui dice perché dice sempre la verità, io dico perché il nome è uguale alla sfiga e al lavoro: un palo sfortunato mica può avere un nome serio. Insomma comincia la partita e mi sembra che i verdeoro non giocano a calcio. Camminano in silenzio. Neppure la sigaretta riesco a finire che quel Marcello che mi sembra la controfigura di Ficarra segna dalla sua parte. Autogol. I verdeoro. A Casa loro. Mi guardo il mio compagno di cella che rimane fermo. E ci provasse a urlare Franchino che in sezione lo ammazzano. Tutta la sezione è brasiliana. Poi, quando gioca l’Italia, tranne due rumeni, tiferemo gli azzurri. Io non ci posso credere che il brasile può perdere la partita. Non è possibile che un palo di un furto e anche sfigato può vincere. Non è mai successo. Adesso passa anche l’appuntato che ci chiede come è la partita e io gli rispondo che non siamo messi molto bene. Lui sorridendo dice, vedrai che i più forti vincono sempre, come nei film che vinciamo noi. Cosi mi dice l’appuntato e quasi quasi gli rispondo ma poi mi prendo rapporto e mi perdo i giorni e mi tocca il consiglio di disciplina e magari mi danno l’isolamento e non mi vedo le partite. Vincono loro. Ma loro chi, dico io? Franchino sorride ma a me sembra si sia pentito di tifare quelli tutti pettinati e zitti. Non sanno neppure gioire per un gol. L’appuntato ripassa e chiede quanto siamo e gli rispondo che i forti perdono e non è come nei film. Magari vince davvero la Croazia. E invece c’è quello piccolo che corre e fugge che prima pareggia e poi segna il rigore. Rigore da non dare dicono tutti. Anche io. Ma siccome ci faccio il tifo sto zitto. Fino al terzo gol di Oscar. Ecco. Franchino è sistemato lui e la sua vita da palo. Almeno stasera, mentre salgo sul letto a castello ho vinto qualcosa. E lo sai perché tifo Brasile? Lo chiedo a Franchino ma non mi risponde. Perché loro sono poveri. E sfigati. E giocano con il pallone sulla sabbia. Come quel maledetto nostro campo di calcetto. Sabbia e pietre. Ecco perché tifo Brasile. L’unico problema che anche l’appuntato sta con il brasile. E quindi, per una notte abbiamo vinto tutti: guardie e ladri.
Provo a raccontare una storia: Provo a farlo in maniera semplice anche se, mi rendo conto, è maledettamente complicato. Non voglio addentrarmi in analisi economiche e quantisitiche. Non ne avrei la capacità. Ma Ciù Antoni l’ho conosciuto. Ed è di lui che vi voglio brevemente raccontare. Ciù Antoni (ciù sta, ad Alghero, per zio ed è una locuzione bellissima e, ancora più chiaramente, il personaggio reale non si chiama Antoni) aveva una cartolibreria dove tutti noi, ragazzi delle superiori, andavamo la mattina per acquistare una penna, una matita, un foglio di protocollo per il compito in classe. Lui, Ciù Antoni, era davvero organizzato: il foglio, per esempio, costava dieci lire. Aveva sempre le quaranta di resto. Era fatto così. Organizzato e gentile. Sono cresciuto e, dopo l’università ho cominciato a lavorare, ma la cartolibreria di Ciù Antoni era sempre lì, al solito posto. Utile per tutti gli altri studenti. I fogli di protocollo nel contempo erano aumentati di prezzo ma, in fondo, l’economia minimalista, quella fatta di piccoli incontri nei negozi dove si poteva ancora discutere e salutare, continuava a girare. Poi, dopo anni, ho scoperto che Ciù Antoni aveva chiuso. Ho pensato si fosse ritirato perché ormai si era stancato ci cercare il resto delle lire e i centesimi degli euro. Ho scoperto, invece, che la colpa era dei toner. Ecco, a questo punto, la nostra favola finisce e comincia un’altra storia. Il toner è quell’oggetto misterioso, tutto d’un pezzo, che oggi costa più della stampante stessa. Per abbattere i costi (ce lo chiede l’Europa, a quanto pare) si è deciso che si deve entrare all’interno di un mercato virtuale (nello Stato ci si fornisce da consip) e acquistare il prodotto a minor prezzo. Ciù Antoni (e non solo per lui) aveva il suo piccolo giro: aveva toner originali fabbricati in Italia. Avevano un prezzo concorrenziale quando partecipava alle piccole gare con i preventivi. Era bravo con i centesimi e le lire Ciù Antoni e riusciva a vincere anche per cento lire, o per un euro. Ma non aveva compreso la forza di CONSIP. Infatti, il suo toner non poteva competere con quello rigenerato venduto in Internet. Non poteva competere e, infatti, ha perduto sonoramente. Abbiamo acquistato toner cinesi rigenerati con polveri sottili di dubbia provenienza che hanno impastato le stampanti e che a respirarli, a quanto pare, proprio bene non fa. Ma costano, esattamente, la metà di quelli originali e molto meno di quelli rigenerati da una ditta che opera in Sardegna. Questa storia ve la volevo raccontare perché credo, ma non sono un economista, che qualcosa di sbagliato sulla globalizzazione del mercato ci sia. Adesso in ufficio abbiamo raggiunto un risultato: il toner non ci serve più, perché non abbiamo i soldi per acquistare la stampante impastata dal toner cinese. Se ci fossimo fidati di Ciù Antoni, alla fine, avremmo speso quasi il doppio per il toner, ma avremmo risparmiato sulla stampante, quel toner avrebbe prodotto lavoro nella nostra isola e Ciù Antoni sarebbe ancora lì a vendere i suoi fogli protocollo a trenta centesimi. Non capisco molto di economia, è vero. Ma mi piacciono i sorrisi. E dentro questo storia che vi ho raccontato non ce ne sono.
Ricomincio da tre l’ho visto troppe volte. Ne conosco i passaggi essenziali, le battute fulminee, gli sguardi di Gaetano /Troisi, quel suo napoletano incomprensibile e poeticamente illuminante, le battute, i silenzi, gli spazi fatti di piccole cose, quelle frasi divenuti proverbi, modi di dire: “Massimiliano, troppa libertà. Meglio Ugo, perchè con quel nome il bambino non fugge oppure, se non lo vogliamo far diventare troppo represso, lo chiameremo Ciro.” C’è quella Napoli che ho amato da sempre, nel teatro di Eduardo, nei vicoli di Spaccanapoli, nelle serate passate in una lunghissima estate del 1978 a Fuorigrotta dove imparai la bellezza di una città incredibile da amare e impossibile da odiare. Napoli ha gli occhi Massimo Troisi, la sua esilarante tristezza, un ossimoro perfetto. Massimo Troisi ci ha lasciato il 4 giugno del 1994. Aveva 41 anni. Ne avrebbe 61 e molte cose da raccontare. Ci ha lasciato camminando sulla terra molto leggero, con orme quasi impalpabili. Ci ha lasciato con pezzi memorabile che, almeno una volta al mese riguardo. Provo ad immaginare cosa sarebbe oggi Massimo, dentro questo mondo complicato più delle sue parole, in questa Napoli meno colorata e più arroccata dentro una tristezza dilagante. Mi chiedo sempre: ma perché uno si costruisce il suo Pantheon, perché ha l’atroce necessità di abbracciare persone mai viste e mai conosciute: un attore, uno scrittore, un musicista, un poeta. Perché insieme a loro si sta bene. Io, con Massimo Troisi, ci ho convissuto per anni e ancora bussa alla mia porta con quei suoi riccioli pasticciati, quelle frasi terribilmente incomprensibili, quella faccia dolce e intensa di Ricomincio da tre, di scusate il ritardo, di pensavo fosse amore, di Non ci resta che piangere, del Postino. Mi guarda sempre con quella buona dose di malinconia e con un lieve sorriso mi sussurra: “Ricordati che devi morire. ‘Mo me lo scrivo, Massimo. Mo me lo scrivo”. C’erano molte cose da raccontare in queste giornate livide ma stasera sto con Massimo. E con il suo pazzo e incandescente cuore.
L’aggettivo sospeso restituisce un’idea di precarietà. Come i nostri tempi. Da anche l’idea di una certa “napoletanità” nel senso più verace del termine: “un caffè sospeso” è una sorta di mancia lasciata da qualcuno in un bar, pagata da uno sconosciuto per chi magari quel caffè non si può permettere di pagarlo. Ne parlava Eduardo e ne parlava, soprattutto De Crescenzo nella sua “Napoli di Bellavista” dove le sospensioni era anche momenti sublimi. Dunque, si entrava in un bar e gentilmente si chiedeva al proprietario: “C’è per caso un sospeso?” Alla risposta affermativa il cliente entrava beveva il caffè e ringraziava qualcuno che non c’era. Era un gesto piccolo, simpatico, dolce, che presupponeva la lealtà di due persone: il barista che non doveva barare e il cliente che doveva, davvero, essere senza soldi. Intorno tanta piccola sociologia napoletana: quella di Eduardo ma anche quella timida e bellissima di Massimo Troisi; quel sospeso rappresentava un incontro candido tra il benefattore sconosciuto e il beneficiario leale. Poi, probabilmente, l’ingranaggio in qualche bar si “ingrippava” ma questo gioco è una forma di gentilezza d’altri tempi, un voler offrire con una certa grazie qualcosa di piccolo, infinitesimale ma che riconcilia con la vita. A Oristano, Tiziana Figus, che gestisce una pizzeria al taglio in via De Castro, ha pensato all’idea del caffè sospeso e ha deciso di rimodularla con la “pizzetta”. Il cliente arriva e ordina una pizza per lui e ne paga due. La seconda è “sospesa”, in attesa di un cliente che si affacci alla pizzeria, qualcuno che quella pizzetta, per quanto di poco conto, non se la può permettere. Brava Tiziana. Sono tempi ingiusti questi. Ma giusti, giustissimi per un “sospeso” o, meglio per una “sospesa”. Ha solo un dubbio la nostra simpatica Tiziana, quello di trovare le persone con il “giusto coraggio per varcare la soglia”. Lei ha promesso un silenzio assoluto e sono certo riuscirà a mantenere questo piccolo segreto. Una pizzetta sospesa è solo un frammento di abbraccio verso un mondo con solchi di dolore molto grandi. Ma la vita ha bisogno di piccoli segni e ha la necessità, qualche volta, respirare piano. Regalandosi una piccola sospensione.