E’ difficile raccontare le tragedie, provare a osservare gli occhi lacerati di chi, in un attimo, ha commesso un omicidio. Con le proprie mani. E’ difficile riuscire a sovrapporre le parole al sangue e allo sgomento di chi ha colpito e poi colpito e poi ha urlato e ha evirato le anime di tre bambine. Con le proprie mani. Mani di una madre. Mani che sino al giorno prima avevano pettinato i capelli e preparato la colazione e lavato i piatti e rimboccato le coperte e avevano accompagnato le proprie figlie a scuola, tenendole per mano. Edlira Dobrushi, la madre di trentasette anni di origine albanese che ai carabinieri di Lecco ha confessato di aver ucciso tre figlie, tre bambine, aveva mani sporche di sangue. Sangue del suo ventre. Sangue di Simona, Casey e della piccola Sindey. E’ difficile mettersi alla finestra di questa immane tragedia, di questo sacrificio assurdo, inconcepibile. Sono i rumori del silenzio che, a volte, non sentiamo. Perché per noi i nostri vicini sono tutti “normali”. A meno che non urlino o litigano o i figli sono maleducati o sono divorziati. Quando le parole non ci sono, quando non sentiamo il rumore, non riusciamo mai a soppesare il peso degli sguardi, non riusciamo a codificare quello che gli occhi raccontano, quale vita sbiadita si nasconde dietro le loro esistenze. Ed è la fragilità, la paura di non farcela, la vergogna, l’essere additati come diversi, che fanno stringere quelle mani sino a farle diventare pugni difficili da sciogliere. E’ la nostra velocità nel continuare, nel non doversi mai fermare e riflettere che ci porta poi a porci le domande e chiederci il perché. E non sapere le risposte. Tutto l’orrore dietro quelle mani che hanno lacerato, inseguito e ucciso. Mani sottili, adatte a raccogliere piccoli oggetti da accarezzare. Mani rapprese e stanche, accovacciate nel ventre malato, mani una volta calde che sapevano accarezzare e circoscrivere le sensazioni. Quelle mani hanno agito, hanno colpito e ucciso e poi si sono guardate. Mani atrofizzate dalla realtà che le ha divorate. Adesso è scaduto il tempo. Mani ferme e nervose che non riescono a spiegare e occhi senza luce e senza orizzonte a stagliare il baratro che si ritrovano davanti. Ho sentito negli anni i racconti di molti uomini che, con le loro mani, avevano ucciso. Per rabbia, per vendetta, per la ricerca di una libertà, per una sciocchezza. Mani sempre lente a stringere altre mani, sempre molto poco disponibili a spiegare. Ho ascoltato. Ho provato a capire i gesti, gli attimi che portano quella mano ad agire, l’impulso razionale che muove quelle dita, quei muscoli. Ma non ci sono riuscito. Perché non sono le mani a dettare i sospiri della vita. Dobbiamo ripartire dalle storie e provare a miscelarle con gli eventi. Quante parole non dette nella vita di Edlira, quante cose che qualcuno adesso racconterà nelle tante “vite in diretta” di questo mondo acquario. Tutti a guardare quelle mani e a piangere per il gesto. Ci sarà il criminologo, lo psicologo, il vicino di casa, l’amica del quartiere. Parole che servono, in fondo, per riempire il vuoto delle nostre coscienze. Edlira, da oggi, sarà sola a contemplare le sue mani e a ripetere per milioni di volte tutti i gesti. E’ difficile raccontare le tragedie soprattutto quando queste superano – e di gran lunga – le trame dei romanzi. Perché anche gli scrittori, come tutti, sono abituati a far muovere i loro personaggi in un mondo semplice, dove tutti parlano e discutono e comprendono. Nei romanzi non ci sono mai spazi vuoti. Chi scrive non se lo può permettere. Eppure, davanti a questa storia che ci centrifuga l’anima, dovremmo lasciare una pagina bianca a rimarcare la sospensione degli attimi. Sono morte tre bambine. Ed è morta anche Edlira, scaraventata in un nuovo inferno dove non riuscirà a rianimare i propri desideri e le paure e il terrore che l’ha accompagnata ad utilizzare quelle mani per stringere una lama. Fredda e terrificante. Quelle mani, nella segretezza degli eventi, hanno colpito tutti, perché nessuno, ormai, riesce più a leggere i silenzi nel pentagramma della vita.
E’ difficile raccontare le tragedie, provare a osservare gli occhi lacerati di chi, in un attimo, ha commesso un omicidio. Con le proprie mani. E’ difficile riuscire a sovrapporre le parole al sangue e allo sgomento di chi ha colpito e poi colpito e poi ha urlato e ha evirato le anime di tre bambine. Con le proprie mani. Mani di una madre. Mani che sino al giorno prima avevano pettinato i capelli e preparato la colazione e lavato i piatti e rimboccato le coperte e avevano accompagnato le proprie figlie a scuola, tenendole per mano. Edlira Dobrushi, la madre di trentasette anni di origine albanese che ai carabinieri di Lecco ha confessato di aver ucciso tre figlie, tre bambine, aveva mani sporche di sangue. Sangue del suo ventre. Sangue di Simona, Casey e della piccola Sindey. E’ difficile mettersi alla finestra di questa immane tragedia, di questo sacrificio assurdo, inconcepibile. Sono i rumori del silenzio che, a volte, non sentiamo. Perché per noi i nostri vicini sono tutti “normali”. A meno che non urlino o litigano o i figli sono maleducati o sono divorziati. Quando le parole non ci sono, quando non sentiamo il rumore, non riusciamo mai a soppesare il peso degli sguardi, non riusciamo a codificare quello che gli occhi raccontano, quale vita sbiadita si nasconde dietro le loro esistenze. Ed è la fragilità, la paura di non farcela, la vergogna, l’essere additati come diversi, che fanno stringere quelle mani sino a farle diventare pugni difficili da sciogliere. E’ la nostra velocità nel continuare, nel non doversi mai fermare e riflettere che ci porta poi a porci le domande e chiederci il perché. E non sapere le risposte. Tutto l’orrore dietro quelle mani che hanno lacerato, inseguito e ucciso. Mani sottili, adatte a raccogliere piccoli oggetti da accarezzare. Mani rapprese e stanche, accovacciate nel ventre malato, mani una volta calde che sapevano accarezzare e circoscrivere le sensazioni. Quelle mani hanno agito, hanno colpito e ucciso e poi si sono guardate. Mani atrofizzate dalla realtà che le ha divorate. Adesso è scaduto il tempo. Mani ferme e nervose che non riescono a spiegare e occhi senza luce e senza orizzonte a stagliare il baratro che si ritrovano davanti. Ho sentito negli anni i racconti di molti uomini che, con le loro mani, avevano ucciso. Per rabbia, per vendetta, per la ricerca di una libertà, per una sciocchezza. Mani sempre lente a stringere altre mani, sempre molto poco disponibili a spiegare. Ho ascoltato. Ho provato a capire i gesti, gli attimi che portano quella mano ad agire, l’impulso razionale che muove quelle dita, quei muscoli. Ma non ci sono riuscito. Perché non sono le mani a dettare i sospiri della vita. Dobbiamo ripartire dalle storie e provare a miscelarle con gli eventi. Quante parole non dette nella vita di Edlira, quante cose che qualcuno adesso racconterà nelle tante “vite in diretta” di questo mondo acquario. Tutti a guardare quelle mani e a piangere per il gesto. Ci sarà il criminologo, lo psicologo, il vicino di casa, l’amica del quartiere. Parole che servono, in fondo, per riempire il vuoto delle nostre coscienze. Edlira, da oggi, sarà sola a contemplare le sue mani e a ripetere per milioni di volte tutti i gesti. E’ difficile raccontare le tragedie soprattutto quando queste superano – e di gran lunga – le trame dei romanzi. Perché anche gli scrittori, come tutti, sono abituati a far muovere i loro personaggi in un mondo semplice, dove tutti parlano e discutono e comprendono. Nei romanzi non ci sono mai spazi vuoti. Chi scrive non se lo può permettere. Eppure, davanti a questa storia che ci centrifuga l’anima, dovremmo lasciare una pagina bianca a rimarcare la sospensione degli attimi. Sono morte tre bambine. Ed è morta anche Edlira, scaraventata in un nuovo inferno dove non riuscirà a rianimare i propri desideri e le paure e il terrore che l’ha accompagnata ad utilizzare quelle mani per stringere una lama. Fredda e terrificante. Quelle mani, nella segretezza degli eventi, hanno colpito tutti, perché nessuno, ormai, riesce più a leggere i silenzi nel pentagramma della vita.
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E’ inutile. Il mare e non la notte porta consiglio. Quel suo osservare senza emettere nessun rumore o quell’urlare con la consapevolezza di essere temuto. Quel suo affondare dentro gli occhi, quel suo disegnare l’orizzonte e renderlo più denso, più lontano. Il mare è la trasposizione degli eventi. E’ il nostro limite, il nostro essere piccoli e grandi nello stesso modo. E’ una barca da costruire, sabbia da toccare, scoglio da accarezzare. E’ rabbia accumulata nei giorni, negli anni, nei millenni. Con il mare si fugge ma dal mare non si fugge. Chi è salito su una nave per il continente quel viaggio se lo porta dentro. Tutta la vita. Ecco perché ci si trova sempre davanti al mare a fare i conti con la storia ma anche con l’essenza delle piccole cose. Ci si ritrova a cercare le onde in una serata piatta, senza sussulti. E se per caso, solo per caso ti avvicini, se raccogli il rumore del mare, ti rendi subito conto degli altri strani frastuoni così diversi, così lontani, così senza azzurro, senza blu, senza verde. Così senza amore.
Dovrebbero obbligare a fare la campagna elettorale sulla battigia. Ad osservare i movimenti fluidi di un acqua che non tradisce e si indispone quando le parole si appiattiscono e diventano nenia, cantilena inutile. Di tutti e per tutti. Un’overdose di cose dette e ripetute. Siamo sardi, la zona franca, la lingua, la formazione, la scuola, la chimica, il lavoro, i minatori. Bravi scolari con l’ansia da prestazione. Poi ci sono i sorrisi e le stoccate e le toccate di mano e i pensieri che non camminano sopra zattere alla deriva. Dovrebbero conoscere il rumore del mare. E il suo silenzio avvolgente. Dovrebbero passarci, accarezzare quell’acqua che non è buona perché è salata, ma è altrettanto vera perché non è dolce. Questo noi siamo. Corpi avvolti dal sale forte di un mare immenso. Non ci avvolge dolcezza. Il mare porta consiglio e ritaglia orizzonti più lontani e probabilmente più veri. Questo m’illumina assaggiando il mio forte mare. Musica senza pentagramma. Musica che sa andare solitaria e forte. Il mare è un rumore lento, vigoroso, energia che ti assale. Il mare per i sardi è il limite dei propri desideri. Ed è il desiderio di cavalcare quel limite che ci sovrasta. E ci stringe da troppo tempo. Bisognerebbe partire dal mare, ma non per toccare altra terra. Semplicemente per comprendere quanto è bello rimanere in viaggio sull’acqua. Il mare non è mai definitivo e non è mai una cosa già vista. E’ vita sdrucciola che sciacqua l’anima e dipinge l’esistenza. Questo noi siamo: mare e tempesta, acqua e silenzio, sale e ricordo, ginepro e mirto, onda che non fugge ma, come tutto, lentamente ritorna. La fotografia è stata scattata stasera, a Cagliari dalla nuova passeggiata che, dal Molo Ichnusa arriva sino a Sant’Elia. Un grande rumore di mare. La sparizione degli alimentari. E delle parole.
Io, da piccolo compravo la mortadella da Marantona, così la chiamavamo noi ragazzi di via Cravellet ad Alghero, sempre pronti a giocare tra la polvere con le biglie e le figurine in mezzo ad una strada orfana di auto. Marantona aveva il negozio in un piccolo magazzeno del mio palazzo e, oltre la mortadella, tagliata con l’affettatrice rossa, con una grande manovella e un rumore assordante e stridente, vendeva i succhi di frutta, la nutella e la crema rosa. Quest’ultima la riversava sulla carta oleata. Era dolcissima e quando riuscivo a convincere mia madre ad acquistarla, nel piccolo tragitto dal negozietto a casa, aprivo il cartoccio oleato e, con il dito, riuscivo ad arrivare alla crema consumandone più della metà. Mia madre controllava il peso specifico del pacchetto e, ritenendolo non conforme alle lire consegnate, mi accusava di aver mangiato la crema ma io, sorridendo dicevo: “Marantona mi ha dato questa. Forse è aumentata”. Poi, c’era il negozio di signora Luigina, più avanti e quello di Di Napoli, novello sposo. In poche strade impolverate di un quartiere che ancora doveva nascere c’erano ben tre negozi di alimentari. Per non parlare della latteria di signora Maria dove ci si recava con la bottiglia di plastica rossa ad acquistare il latte sfuso che veniva giù da un bidone d’acciaio con un rubinetto enorme. E signora Maria usava, per tutti, il solito imbuto. Senza risciacquo. I negozi non ci sono più. Spariti, ingoiati da garage per automobili. Nel quartiere non ci sono più neppure i bambini che giocano per strada. Si va a città mercato, da Tanit, alle Vele e si acquistano gli alimentari con grandi carrelli in questi terribili “non luoghi” tutti spaventosamente e tristemente uguali. Ne ha parlato, su Repubblica, Carlo Petrini raccontando in un bellissimo e struggente articolo di come, in pochi anni, le botteghe alimentari siano sparite dalle vetrine delle città le quali sono diventate dei grandi deserti per far posto a quelle lande desolate che tutti chiamano “i nuovi luoghi di incontro”. Non mi piacciono. Non mi sono mai piaciuti. Una volta, proprio a Città mercato, a Sassari, ho visto una fila lunghissima davanti al tabaccaio. Giocavano al superenalotto. Una tristezza infinita. Non ci sono più gli alimentari e neppure i profumi e gli odori di una città pulsante. Si chiama “globalizzazione” quella che permette di acquistare una maglietta di una nota marca internazionale in qualsiasi aeroporto del mondo. Tanto i non luoghi son tutti uguali. Marantona, di questi tempi non avrebbe senso. Parlava con noi ragazzini. Ci chiedeva della scuola, ci domandava cosa facevamo il pomeriggio. Era una splendida impicciona ma emanava vita, raccoglieva parole e le restituiva. Oggi, nelle casse delle città mercato fuori della città, ci sono solo cassiere in attesa di concludere quel turno massacrante ed alienante che ti chiedono sempre e soltanto: “tessera?” e al mio solito “no” (non riesco a capirne l’importanza di queste tessere) ti guardano con compassione, ma non sorridono. Non c’è più Marantona e neppure gli altri piccoli negozi, luci soffuse, dove il fare la fila era una scusa per chiedere, informarsi, conoscere. Era anche provare con la furbizia dei ragazzini a prendere una caramella in più, una mentina colorata, quelle da una lira, o provare a farsi regalare da qualche signora amica di tua mamma il gelato di zucchero. Altri tempi. Certo. Altri tempi. Lenti e tortuosi. Il problema però è lo sventramento della città che, lentamente scivola verso una periferia ruvida, con colori acidi e veloci. Dove tutti si incontrano e nessuno parla. In qualsiasi “non luogo”, dentro ogni mega center , l’unica cosa importante è “avere la tessera”. Ma per parlare con Marantona bastavano gli sguardi, piccoli sorrisi e fugace speranza che sbagliasse il conto delle mentine. Impossibile nei mercati di oggi dove tutto è terribilmente contato, misurato, costruito, impacchettato. Dove, per sopravvivere mica ci vogliono gambe veloci e disposte al gioco. In questi silenzi pieni di gente basta una stupida e inutile tessera. Ho sempre sognato e disegnato i colori di Mirò. Nella mia gioventù algherese, nelle curve della maturità, nelle notti morbide tra le “rambals” di Barcellona, nell’azzurro acquerello di Barceloneta, tra le colline del Logudoro e tra le piccole punte del Gennargentu. Ho sempre utilizzato Mirò come tavolozza della mia esistenza. Il suo giallo, il suo rosso, la sua falsa sovrapposizione, i suoi svolazzi di poesia pura, rarefatta. Perché se a colorarti la vita ti scegli Mirò, potrai sempre rimanere tra l’allegria e l’inconsapevolezza di un’adolescenza tardiva, ritagliata tra le favole e le stelle. Quelle di Mirò.
Scoprire che stasera, lo stato portoghese ha dato il via libera per vendere 85 opere dell’artista catalano, è come ritornare alla televisione in bianco e nero. I Mirò, gli spruzzi dell’incoscienza messi all’incanto per recuperare parte dei fondi persi con il fallimento del banco Portogues del Negocios, avvenuta nel 2008. Quelle opere passeranno al migliore offerente. Basta avere i soldi e ti porti a casa una tela, un acrilico, un disegno, una scultura di Juan Mirò. Ma non puoi portarti il colore della vita. Requisisci agli occhi di tutti un pezzo di allegria e libertà. Nascondi l’orizzonte colorato della poesia dentro qualche stanza di un magnate russo, cinese, giapponese. Chissà. Si porteranno quelle tele per racchiuderle dentro case senza nessun senso, nessun sorriso. E quei Mirò non parleranno più, quelle stelle, quegli schizzi, quel nero immenso e quel blu avvolgente non potranno mai riempire il vuoto della tracotanza e dell’ostentazione. Non comprerei mai un Mirò, non potrei mai condividere solo con i miei occhi ciò che è nato per essere amato da tutti. Non si nasconde la tavolozza dei colori. Stasera, il mio mare è un più solitario, con poche linee argentate e gialle e verdi e rosse e magenta e viola e verdi. Anche le stelle non sono apparse. Chiudo gli occhi e riappare quell’occhio che sembra un naso e un sorriso e una lacrima e un ricordo. Il mio bellissimo e immenso Mirò, pentagramma colorato della mia esistenza. La mia favola da vivere e abbracciare, il mio salire e scendere per molte scale, il mio punto di vista, il mio piccolo gioco da restituire al mondo. Perché quelle linee, quei cerchi, quei rettangoli, quegli spicchi di vitalità sono di tutti. Io sono un pezzo di Mirò, solo un pezzo. Il resto è il mare e il lago e la donna e il bambino e l’aquilone e il cavallo e gli uccelli e quel mondo colorato che ci gira intorno. Non si vendono le favole al miglior offerente. Le favole si disegnano, si raccontano, si musicano, si vivono. Si annusano. Mirò esiste perché la poesia dei gesti nobili supera quella della solitudine. Chi acquisterà stasera un Mirò per tenerlo nella sua stanza spegnerà una stella. E il mondo sarà un po’ più in penombra. E più triste. Quando si muore, si muore soli. Lo diceva De André e sono essenzialmente d’accordo. L’attimo in cui finiamo di fotografare con gli occhi gli aspetti terreni, sono nostri e di nessun altro. Anche perché è davvero difficile immaginare il “dopo”. Mi interessa però comprendere il “prima”, l’attimo in cui la vita sfugge, corre, si incunea nelle ultime strade della vita, negli incroci delle probabilità. Noi, in quel momento, siamo soli. E dovremmo affrontare quell’attimo senza i respiri di nessun altro. Senza nessun ausilio. Ecco. E’ questo il punto. Non sopporto gli accompagnamenti da nessuna parte. Uno, la morte, se la deve guadagnare. Un po’ come la vita. Zappare da solo. Non amo gli assassini, non sopporto le guerre, gli errori, il fuoco amico. Non si muore per sbaglio. Meglio, non si dovrebbe morire se non perché è giunto il proprio momento. Nessuno – e il “nessuno” diventa universale – deve decidere della vita degli altri e, quasi ad essere blasfemo, può, al massimo decidere della sua. Si. Il suicidio, per quanto doloroso, per quanto argomento difficile e intrattabile è, comunque, davanti a qualsiasi omicidio, giustificabile. Un gioco con se stessi.
Dennis Mc Guire è rimasto in agonia per tredici, interminabili minuti. E’ accaduto negli Stati Uniti d’America, nell’Ohio. Condannato alla pena di morte per aver sodomizzato e ucciso Joy Stewart, una ragazza di 22 anni incinta di sette mesi e, per di più, Mc Guire aveva abbandonato il cadavere ai bordi di una strada. Per molti, dunque, Mc Guire meritava la pena di morte. Siamo sempre così sicuri delle nostre scelte e delle nostre decisioni e poi, quando le prendiamo, non sappiamo più difenderle. Mc Guire è stato torturato nella stessa misura in cui egli ha barbaramente agito nei confronti di Joy. E’ giusto’ E’ sbagliato? Terribile domanda. Io, personalmente non ho una risposta. Riesco solo a rimanere senza parole davanti a questi scenari. «I am sorry», mi dispiace, ha detto Mc Gure prima che gli venisse iniettato il cocktail terribile, quello che l’avrebbe tenuto in agonia, perché non gli ha procurato la morte immediata. Capisco, davvero, di essere dalla parte sbagliata. Perché tutti siamo portati ad osservare la realtà con gli occhi dell’emozione. Ma io, davvero, non sono in grado di uccidere un’altra persona. Anche la peggiore persona. Perché quando si muore, si muore soli e nessuno ci dovrebbe aiutare a compiere quello strano salto. la mia grande ora di libertà - dedicato a Fabrizio De André, a quindici anni dalla sua morte.10/1/2014 .La vita, poi, gira come una canzone e ti trasporta nelle arterie dei ricordi, dove il sangue circola e ritorna. Perché le canzoni ricompaiono per saltellarti dentro e ti accompagnano negli scenari della tua esistenza ormai dimenticati. Ci sono musiche e suoni indelebili e ci sono movimenti intorno a quei suoni e a quelle parole che riescono a dipingere di verde anche il deserto più triste. Una canzone, su tutte, la trasporto da anni nella mia particolare saccoccia della memoria. Domani ricorre l’anniversario della morte di Fabrizio De Andrè. (sono, ormai, quindici lunghissimi anni). Le canzoni però girano sempre e restano, come i libri, le fotografie, i sospiri e gli amori. Quelli veri. Quelli che disegnano ferite e le rimarginano con le lacrime dell’affronto. Io amo, terribilmente, Nella mia ora di libertà, la canzone che chiude l’album più bello (a mio parere, certo) di Faber: “Storia di un impiegato”. Mi piace perché è la sceneggiatura di un film. Di un film che io, paradossalmente, ho visto e rivisto nei miei trentuno anni di “galera”. Quella canzone cammina all’interno di ogni carcere da me visitato per lavoro (e ne ho, davvero visitati tanti e non solo in Italia) quella canzone è la colonna sonora all’interno dei passeggi dove vedo spesso detenuti intenti a parlare fitto e camminare velocemente, nella loro ora di libertà. E mi piace l’idea, assurda, fuori misura e dunque bellissima, di uno sciopero da parte dei detenuti, di voler rinchiudere gli agenti nell’ora di libertà. Quella canzone è una sconfitta atroce. Lo so. E’ l’inno di un perdente, ma di un perdente che ha compreso fino in fondo la sua sconfitta: dal suo sogno politico al suo sogno d’amore, in anticipo su ogni stupore. Dentro questa canzone io ci vedo tutto il De Andrè del mondo. Tutto. La sua analisi lucida sui fatti, il suo mescolare politica e poesia, e se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone ecco, spartiamoci la prigione: il non luogo, il non rumore. La non vita. Perché di questo si tratta: saper spartire, saper dividere, saper chiedere una polemica di dignità. Ma c’è, davvero, tutto l’amore del mondo condensato in poche frasi, c’è tutto l’amore del mondo tra un uomo e la sua compagna: “da un po’ di tempo era un po’ cambiato ma non nel dirmi amore mio”. C’è tutta la bellezza del mondo, l’accettazione, il rispetto, l’abbraccio di due persone in queste poche e struggenti parole. E quella frase dura, durissima, a disegnare le verità che oggi tutti vediamo, ma dovevamo scriverle nel 1972 per essere oggi credibili. E lo facevano, tra i pochi, De Andrè e Pasolini. Per dire. Quella frase a rappresentare tutta la verità del mondo: non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni. Quella frase finale a rappresentare tutte le frasi del mondo, tutte le vite del mondo, le passioni, gli impegni, le urla del mondo: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.
Ecco. La mia canzone. La ferita che ritorna a ricordare le vecchie cose: le bandiere, le lotte, i sogni, gli scazzi, la voglia di, la voglia per, quel “pagherete caro, pagherete tutto” e tra tutte le grinte, le ghigne e i musi, poche le facce e tra loro lei. Ecco. La mia canzone. Partita dall’adolescenza mi ha accompagnato anche tra le sezioni fredde e buie di un carcere a provare a regalare a qualcuno almeno un’ora di libertà. E di dignità. Ciao Fabrizio. Mi manchi. Maledizione. Però ci sei. Con tutto l’amore che hai potuto, fatto di rabbia e di forza a camminare sempre con destinazione ostinata e contraria. Ho provato a fare questo mestiere anche per colpa di questa canzone. Sono profondamente convinto (ancora, dopo 31 anni) che non possiamo togliere la primavera a chi in galera ci passa giorni duri e solitari. Dovremmo, invece, provare a fargli respirare quell’area leggera, di libertà e di coraggio. Ciao Fabrizio. E grazie. Per la tua grande ora di libertà. Che da tempo è anche mia. C’è gente che è cresciuta con la musica intorno. Si canta come una melodia ”acqua azzurra acqua chiara”, e si strimpellava in tutte le spiagge” la canzone del sole” o i giardini di marzo: quando il carretto passava e quell’uomo gridava gelati. Chi non conosce - sempre di Battisti - amarsi un po’ che è come bere o chi non si ricorda Il testamento di De André che finisce con quel bellissimo aforisma poetico:”quando si muore si muore soli?” Ho conosciuto stuole di ragazzi che cantavano Bocca di Rosa, l’amore sacro e l’amore profano o, ancora, provavano l’accordo in Do maggiore per la cattiva strada di De Andrè. Ma il più corale, il più fischiettato era Lucio Dalla con Quale allegria e Cara. E quello che faceva innamorare? Beh, Claudio Baglioni con E tu, accoccolati ad ascoltare il mare, il passerotto che non deve andare via di sabato pomeriggio. Ma anche Venditti con Lilly lilly quattro buchi nella pelle oppure ciao uomo, nato sotto il segno dei pesci, ci vorrebbe un amico per poterti dimenticare ed infine le liriche del principe, quel generale dietro la collina dove c’è ancora la notte crucca ed assassina oppure la cavalcata selvaggio di Bufalo Bill, quando il paese era molto giovane e lui aveva un amico culo di gomma, famoso meccanico.
Insomma, queste erano le canzoni che si canticchiavano e che si strimpellavano con la chitarra. Anche io, anche la mia generazione. Soprattutto la mia generazione. Eppure, un giorno, quasi per caso ascoltai una canzone dolcissima e struggente: “per te”, quella che aveva un ritornello intimassimo:”che a bere i tuoi pensieri, a bere quello che era ieri, cercando di raggiungere chi, al vento avrebbe detto si”. Una folgorazione. Era Battisti, un Battisti che non conoscevo. Fu un’altra canzone che mi portò a cercare una strana verità: era via del campo , dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior. Erano i versi bellissimi di una canzone che non avevo mai sentito. Era Fabrizio De Andrè. Allora cominciai a chiedere, ero curioso, volevo sapere. Un esperto sorrise e mi disse: sono il lato B. “Il lato B di cosa?”, chiesi io. “Il lato B dei 45 giri”. “Sai”, aggiunse, “un cantante deve per forza scrivere due canzoni: scegliere la migliore per il lato A e poi metterne una per il lato B. Quella tanto, non l’ascolterà nessuno”. Non avevamo a quei tempi cognizione che esistessero anche gli Lp, i 33 giri. Non avevamo i soldi, a dire il vero. E allora cominciai ad ascoltare il lato B di tutte quelle canzoni che mai avevo sentito e scoprii come per incanto che nel lato b, nel dimenticatoio erano state relegate: dieci ragazze per me, posson bastare, ed eri bella, comunque bella, quel gran genio del mio amico che mi diceva si viaggiare. Un Battisti da lato B. E un De André che nascondeva le sue perle nel cono d’ombra del lato quasi disonorevole, come la ballata del miche o Amico fragile, dove è bello pensare che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo cominciare una chitarra, il cucciolo Alfredo di Lucio Dalla, balla balla ballerino e il tenebroso Baglioni con l’intimissima chissà se mi pensi, qui sotto il cuscino se mi hai trovato carino se mi vuoi qui vicino, se mi vuoi qui con me, ma anche poster, seduto con le mani in mano mentre passa la signora con i sacchetti dell’Upim per andare lontano. Il Venditti di compagno di scuola, di Roma Capoccia, di Sara svegliati è primavera, della bellissima e intensa notte prima degli esami e come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati. E infine due perle di De Gregori: quell’Atlantide che dice che vive dentro un capello pieno di ricordi e il natale ricordato e amato in una ballata d’altri tempi. Il lato B. Quello che mi ero sempre perso. E ho capito, da quel giorno, che era interessante tutto, ascoltare ed essere curiosi. Ecco perché nasce l’antologia di racconti La cella di Gaudì, perché anche quello che tutti pensiamo possa essere il lato B degli uomini è in realtà qualcosa dove è possibile che nascano i fiori. A volte stando dentro il lato B della vita si osserva con più attenzione lo sfolgorio e la lucentezza del lato A che non basta, però, a raccontare e colorare l’anima. Da quella cella si doveva per forza guardare in maniera diversa, con occhi penetranti e nuovi: si doveva cambiare prospettiva: quella che trovate nella Sagrada Famiglia a Barcellona, l’unica chiesa visitata da milioni di fedeli dove non si canta Messa. Un’assurdità incantevole, un ossimoro perfetto: il lato B di tutte le chiese del mondo. La chiesa di Gaudì, con guglie verso il cielo, un cantiere sempre aperto, come le storie degli uomini, dove nulla è definito e definitivo. La cella di Gaudì con pezzi di vetro che si infrangono e si colorano. Ecco il nostro viaggio nel lato B delle opportunità. Oggi, ci sarà uno spettacolo folle. Insieme ad altri scrittori, a Cagliari, ci sarà un reading dove saranno raccolti i soldi per Collins, un ragazzo di colore che aveva raccontato la sua storia ad uno scrittore ed era finito nel progetto “La cella di Gaudì”. Collins, per una serie di vicissitudini burocratiche (quelle si, da lato b) si trova ancora in italia, alla ricerca di un lavoro e non riesce a pagare l’affitto. In Italia è stato in carcere, dove ha pagato per i suoi errori, ha raccontato la sua storia, ha avuto dei permessi per narrarla in giro per la Sardegna. Poi finisce la pena e qui comincia la storia assurda di Collins. Lo portano nel CIE di bari perché deve essere espulso. Il cie è peggio di un carcere, è stato ributtato nel suo peggior lato B. Quello senza speranza. Ma Salvatore Bandinu, il suo scrittore, il suo io narrante non si ferma, comincia a parlare con gli avvocati e si riesce a far liberare dal CIE Collins. Lui cerca lavoro ma non è semplice. Non ha, in questo momento i soldi dell’affitto. Non sono molti. Ma non li ha. Il suo sogno è rimanere in Italia. Stasera proviamo a regalargli una speranza. Perché anche nel lato B girano canzoni degne di essere ascoltate. Il reading è a Cagliari, libreria Cocco, in via Tuveri 20, alle ore 19.00. Per chi ha amato e ama la musica nelle parole. E viceversa. ore 10.38 - ora locale - 8:38 in Italia.
Il rosso. E’ un non colore. O meglio, un colore misto. Misto al giallo della polvere del deserto, finissima, all’azzurro del cielo che si catapulta dentro nuovi colori. Il rumore che prima appariva deciso, fortissimo, adesso è lieve quasi a scomparire. Trucioli di pensieri che si sovrappongono a respirare questo rosso che non è dolce e non è amore, ma turgido, quel rosso sangue: l’orrore. Lontano, molto lontano spari vacui, quasi a ripristinare il silenzio. Non c’è mai silenzio dentro questo posto. Non c’è mai uno sputo di attimo senza niente, dentro questo cazzo di bastardo posto. Uno da Andromeda, uno da Andromeda, perché non rispondi, perché, perché. Io ho visto il vuoto che si creava davanti a me, che muoveva la polvere che saliva e che abbracciava il palazzo. Ho visto per un attimo, un attimo soltanto il colore che si solidificava. Ho sentito le urla che erano parole che erano voci che si solidificavano, erano voci senza rumore. Ecco vedevo le labbra muoversi che volevano dire qualcosa, disegnavano qualcosa, ma non riuscivano a colorare. Sordo. Un tonfo sordo. Come un televisore che vomita solo immagini. In bianco e nero. Questa è la nostra vita signor Colonnello. Anima che osserva altre vite respirare orrore. 12 novembre 2003 ore 10.39 ora locale. Ore 8:39 in Italia. Come un latrato. Lontano. Come quando zio Bachisio andava a caccia delle lepri. Un latrato. erano i suoi cani. Lui non li sentiva. Li annusava nell’area. Sono Leka, Mingi e Perras. Loro sono. Non li sento. Ma ci sono. Lontani. Molto lontani arrivavano quei piccoli mugolii. Erano loro. Davvero. io sopra una pietra dall’alto di Lu lamaddioni li vedevo. Anch’io non sentivo il rumore. Erano loro. Piccoli ticchettii, tamburellavano sulla terra dura, mai arata, dove solo le lepri potevano passare. E Leka, Mingi e Perras. Aspettava zio Bachisio. Aspettava un rumore, che non arrivava. Ma lo sentiva. Lontano, un sibilo nel silenzio, un canto dolce, quello di leka soprattutto. Passava la lepre e passava dove doveva passare. Nel posto scelto da zio Bachisio e da Leka. Zio Bachisio non sbagliava col fucile malanno. Un colpo, un colpo secco senza produrre neppure rumore e la lepre che prima zampettava felice, ansimante ma sicura di riuscire a sfuggire a quel cazzo di cane, si fermava, come a rallentatore, le zampe di dietro si bloccavano, e il muso si rimpiccioliva, aveva pochi spazi prima di cadere definitivamente nelle macchie di chessa. La lepre. Senza rumore tutto accadeva. Leika che sopraggiungeva e decideva di non lasciare a nessuno il trofeo. La leccava, la povera lepre, la guardava e quasi sorrideva. Zio Bachisio aspettava. Senza nessun frastuono. La lepre non aveva più respiri. Tutto era successo in un attimo eppure si poteva raccontare. Era una lepre. Una piccola lepre senza neppure un nome. Qui il discorso era diverso, dannatamente diverso, c’era lo stesso silenzio ma non c ‘erano i latrati dei cani che ci perseguitavano, non c’era nessuna lepre ansimante. Niente. Non c’era assolutamente niente. Non c’era un cazzo di merda di niente. Non c’era neppure la remota possibilità di poter urlare, di poter commercializzare la rabbia, il disincanto, la preghiera, la voglia di fuggire, di pisciare su tutti quei cazzo di discorsi che aveva imbastito il colonnello o in quelli che avrebbe disegnato il generale. Non c’erano lepri e non si capiva che cosa ci potesse essere dentro questo fumo denso che ci rincorreva, che sguainava, che ansimava, che non si addolciva che urlava parole che sentivo mie e non erano di altre lingue ma italiane, proprio mie, allora dico, allora cazzo è successo qualcosa. Andromeda da uno rispondete, Andromeda da uno, dove siete sono dentro questo colore che non è mio, dentro questa storia che non è mia, che nessuno ci ha mai raccontato. Che cosa dobbiamo sapere che ancora non sappiamo, che cosa dobbiamo aspettare che ancora non conosciamo., Dove è il mio maresciallo, il mio colonnello il mio generale dove cazzo sono questi signori che dovevano dipingere occhi di bambini che ci avevano inviato dentro questa terra per costruire montagne di pace e sorrisi e nuovi orizzonti che non c’è proprio niente da vedere solo ponti e armi e nessuna conquista. Dove siete non vi sento io ho dentro mille rumori che non sono i nostri non possono essere i nostri, non riescono a localizzarci, a districarsi dentro questa terra che non è nostra che siamo venuti a costruire la democrazia che aveva ragione Margherita che cazzo porca puttana aiuto io non riesco ad urlare e saltano gambe e occhi e gambe e si colorano di giallo ocra e spruzzano di rosso e non sono scintille cazzo signor maresciallo io non riesco a capire perché tutto intorno salta e gioca e distrugge e urla che non sono urla che sembra di essere in apnea e non vedo più zio Bachisio e la lepre e i suoi cani. Non vedo più niente e non riesco più a sedermi a stare in piedi e non riesco più a capire cosa cazzo devo fare che deve essere importante quello che dovremmo realizzare in questo momento e dovremmo capirlo da soli perché un soldato queste cose le capisce al volo ma ci ha ragione Margherita che non sono un soldato e che non valgo niente. Cristo possibile che non si possa urlare dentro questo deserto di coscienze? Il 12 novembre 2003 avviene il primo grave attentato di Nasiriyya. Alle ore 10:40 ora locale (UTC +03:00), le 08:40 in Italia, un camion cisterna pieno di esplosivo scoppiò davanti la base MSU (Multinational Specialized Unit) italiana dei Carabinieri, provocando l'esplosione del deposito munizioni della base e la morte di diverse persone tra Carabinieri, militari e civili. Il tentativo del Carabiniere Andrea Filippa, di guardia all'ingresso della base "Maestrale", di fermare con il fucile AR 70/90 in dotazione i due attentatori suicidi riesce, tant'è che il camion non esplode all'interno della caserma ma sul cancello di entrata, altrimenti la strage sarebbe stata di ben più ampie dimensioni. I primi soccorsi furono prestati dai Carabinieri stessi, dalla nuova polizia irachena e dai civili del luogo. Nell'esplosione rimase coinvolta anche la troupe del regista Stefano Rolla che si trovava sul luogo per girare uno sceneggiato sulla ricostruzione a Nasiriyya da parte dei soldati italiani, nonché i militari dell'esercito italiano di scorta alla troupe che si erano fermati lì per una sosta logistica. Chi collezionava le figurine panini lo sapeva: Luigi Riva, nato a Leggiuno il 7 novembre 1944. Io avevo dieci anni nel 1969 e quasi undici quando il Cagliari di Giggiriva conquistò il suo primo e unico scudetto. Collezionavo figurine e trotterellavo nella fantasia infantile con gaiezza e solide convinzioni: a me, giggiriva mi piaceva. Perché era uno del Nord ma giocava in una squadra del Sud, era uno che alzava le mani al cielo, perché segnava di testa tuffandosi, perché aveva un tiro portentoso, perché Gianni Brera lo aveva chiamato Rombo di tuono. Ma, soprattutto, perché era in campo il giorno di Italia-Germania 4 a 3, una delle poche partite che quasi ricordo a memoria. Un’impresa epica, una sorta di rivincita contro i tedeschi, nostri alleati e poi nemici, con i quali eravamo affondati nella polvere solo pochi anni prima e ci eravamo macchiati di terribili nefandezze. Io, tutto questo, chiaramente mica lo sapevo. Avevo giggiriva e Mazzola, Domenghini e Albertosi nel cuore. Questa era la mia poesia, insieme al Carducci dell’albero cui tendevo la pargoletta mano. I gol di giggiriva, gli abbracci ai suoi compagni, la maglia azzurra con dietro il solo numero: undici. Perché ai miei tempi i giocatori li riconoscevi senza doverti stropicciare gli occhi per leggere il nome sulla maglia. Li riconoscevi da come si muovevano in campo, da come correvano e da come segnavano. E giggiriva lo riconoscevi sempre. Anche alla radio. Perché Ameri cambiava tono di voce quando giggigheddu prendeva il pallone e, senza accarezzarlo, lo buttava dentro, per segnare, per gioire, per sognare. E, come tutti gli eroi tristi, ha vinto poco giggiriva. E’ diventato campione d’Italia una sola volta, campione d’Europa in un campionato non proprio memorabile e capocannoniere. Poi vice campione del mondo e altre piccole cose. Non ha vinto altro.
Il problema è che tutti gli eroi tristi rimangono eroi. E lo rimangono per sempre. Probabilmente perché, ai nostri tempi, gli eroi si costruivano con poco o meglio, non si costruivano proprio. Giggiriva era immortale, doveva esserlo. Ed era l’orgoglio della Sardegna, quando l’orgoglio aveva un suo peso specifico, era riscatto verso tutti e contro tutti. Poi, da grande le cose le vedi da un altro orizzonte e capisci che per vincere gli scudetti non bastava giggiriva. Però aiutava. Io me lo ricordo Riva, come ricordo gli altri che fecero l’impresa: Albertosi, Martiradonna, Cera e Greatti, Domenghini e Gori, un giuramento eterno c’è nei nostri cuori. Avevo il disco e lo avevo imparato a memoria. Riva era il cannoniere: quando tira il rigore fa tremare il portiere. Scorrono come lente immagini ossidate e lontane quelle dove Giggiriva segnava ed esultava, al Sant’Elia come in Messico, in Austria come in Francia e io a guardare e sistemare le figurine. Quelle doppie da scambiare, quelle triple da giocarcele a “creus e crastu”. Gigi Riva da Leggiuno ha compiuto sessantanove anni. Che sono, in fondo solo quindici più dei miei. Auguri. Io me lo ricordo ancora quando correva all’ala sinistra e prendeva la mira e non guardava e tirava e segnava ed esultava. Non aveva neppure un tatuaggio Giggiriva. Non ne aveva bisogno. Aveva molti segni d’affetto tra la pelle e il cuore. Auguri Gigi, cassetto dolce della mia infanzia. Auguri architetto, costruttore di traiettorie tra il pallone e l’emozione. Ho lavorato, nel 1978, a Baia Sardinia in un albergo dove mi occupavo, da bagnino, della spiaggia e della piscina. Avevo diciannove anni e spensieratezza da vendere. Lavoravo tutto il giorno in un contesto ameno e decisamente con più opportunità rispetto ai miei colleghi cuochi, camerieri al ristorante o al piano.
Acquistavo, tutti i giorni Il Manifesto, ogni settimana l’Espresso e anche Panorama (a quei tempi Panorama era un altro settimanale). Avevo, inoltre molti libri sul bancone del piccolo bar, in piscina. Tra questi, scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Era un periodo molto contestatore e tosto. Lavoravo in radio, mi occupavo di inchieste e di contro-informazione. Amavo i poeti maledetti e come Faber, mi innamoravo di tutto. Quel lavoro estivo – da giugno a settembre inoltrato – era utile per potermi pagare la retta all’Università. Questo mi faceva sorridere e inorgoglire. Da buon gramsciano mi piaceva l’idea che, in fondo, la cultura era a carico dei ricchi, erano loro, con i loro vizi, a pagare la mia laurea. Almeno così pensavo dentro le idee confuse di quegli anni. Era l’anno dei mondiali, quelli dell’Argentina e nel mio albergo c’erano Pruzzo e Zoff, reduce da due pappine prese contro l’Olanda e considerato da tutti un portiere sul viale del tramonto. Nel 1982, a quarant’anni , vinse il mondiale, da capitano. Baia Sardinia era un fritto misto. Di giorno i turisti ad abbronzarsi, nel primo pomeriggio e a notte ormai inoltrata, i lavoratori “sardi” a bere birrette nel bar della piazzetta. Giri, peraltro, che costavano abbastanza. Mi innamorai di Fabrizia. Di Milano, figlia di un piccolo imprenditore con una Maserati verde cristallo e una madre stronza al punto giusto. Una sera mi invitarono a casa, per cena. Ero titubante, i padroni, quelli che combattevo, mi accoglievano a casa loro. Il Paolo mi chiamavano. E non mi piaceva. Ma Fabrizia era carina, molto carina per i miei diciannove anni e il colore dell’amore è un arcobaleno variopinto tutto da interpretare. Insomma, ci andai a quella cena. Nonostante fossi comunista e, probabilmente, perché ero comunista. Mi posero molte domande alle quali garbatamente risposi. Ero un comunista molto educato, fin da piccolo non mi piaceva urlare. Loro, i ricchi, usavano invece le parolacce, ridevano sguaiatamente, erano “rozzi”, ma ci tenevano a costruire le distanze tra me e loro. Io, a dire il vero, cercavo di accorciare le distanze tra me e Fabrizia. Il resto mi interessava relativamente. Quando il padre, ad un certo punto, con un bicchiere di bourbon (beveva molto, il padre) con occhi lucidi, piccoli e inclini alla cattiveria disse: “Ma sai, siete fortunati che arriviamo noi. Voi avete il lavoro, fate i soldi, almeno per qualche mese vi divertite. Poi, andiamo via e cala il sipario e ritornate al vostro mortorio di sempre”. Siamo un teatro, pensai in quel momento. Ma non siamo attori che recitano una parte. O forse si. Lo osservai come si guarda uno scoglio in attesa di un’onda che lo sciacqui: con serena contemplazione. “Non siamo fortunati”, dissi ad un tratto. “Noi siamo i figli di questa terra dove è possibile trascorrere le vacanze. Le vostre vacanze. Vede, il rispetto è fondamentale nei rapporti tra le persone. Rispetto le sue vacanze e le sue idee, rispetto il suo atroce sorriso e il suo bourbon, rispetto le parole i contorni delle frasi ma non accetto di essere una comparsa delle sue commedie. Quando cala il sipario, come dice lei, noi restiamo. E’ lei che parte e ritorna ai suoi grigi tramonti.” Mi alzai e salutando, sempre con molta delicatezza , aggiunsi: “Questa terra è la mia terra. Voi siete gli ospiti. Noi siamo gli attori principali e voi le comparse. Sono cresciuto dentro questi monti e questo mare e continuerò a viverci. Studierò affinché tutto questo venga preservato e condiviso con voi. Il suo modo di parlare, il suo linguaggio da azienda prevede un semplice uso delle cose e delle persone. Lei è una persona inespressiva come uno slogan stantìo.” Me ne andai. Neppure un bacio a Fabrizia. Niente. Tornai nella mia stanza a leggere e attendere. Non ci sarà nel futuro della nostra terra nessuno che verrà, la userà, la stringerà senza amarla e poi la abbandonerà. Questo mi dicevo pensando agli occhi di Fabrizia. Quel mondo era un abbraccio non dato, un sorriso mai condiviso, un amore mai sbocciato. Un mondo lontano. Da rispettare, con circospezione e senso del distacco. Dedicato a chi, nei giorni scorsi, ha ben pensato di insultare la terra e gli uomini dove, per due mesi all’anno lavora, grazie alla posizione, alla bellezza che gli altri, prima di lei, hanno preservato. Quando si rispetterà il suolo si comprenderanno gli uomini, le storie e i solchi di vita che quei luoghi hanno rappresentato e rappresentano per tutti. La Sardegna è un’isola, uno scoglio dell’Anima. Preservarlo è un dovere, anche per chi questo scoglio non lo merita." |